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Grammatica


Il verbo ha quattro coniugazioni anziché tre come in italiano: -èr, -air, -er, -îr (es. mandèr, savair, bâter, finîr «mandare, sapere, battere, finire»). Anche se ha lo stesso numero di modi e tempi, la coniugazione bolognese è però più semplice di quella italiana poiché, una volta superato lo scoglio del presente indicativo e del participio passato, troviamo più o meno le stesse forme: sapendo che il passato remoto di mandèr è mé a mandé, té t mandéss, ló al mandé, nó a mandénn, vó a mandéssi, låur i mandénn, possiamo ricavare il passato remoto anche delle altre coniugazioni: mé a savé, té t batéss, ló al finé ecc. Vi sono però alcune particolarità nell’uso di tempi e modi: ad es. il gerundio ricorre molto meno che in italiano e per «sto facendo» si preferisce dire a sån drî a fèr (letteralmente «sono dietro a fare»). Esiste anche un embrione di gerundio futuro perifrastico: a sån drî par fèr, col significato di «sto per fare».

 

Come si vede dagli esempi, la coniugazione bolognese richiede che fra il soggetto e il verbo si inseriscano delle particelle pronominali, che chiameremo espansioni del soggetto: a, (e)t, al, la, a, a, i (e äl per la III pers. f. pl.). Il primo di loro viene dal latino ego, e si è poi generalizzato anche alla I e II persona plurale, t è ovviamente collegato a «tu» ecc., per cui i pronomi personali soggetto del bolognese ricordano quelli oggetto italiani (me, te, lui, loro...), e quelli soggetto italiani vengono dagli stessi pronomi latini che hanno dato le espansioni del soggetto bolognesi. Queste ultime conferiscono un carattere molto particolare al bolognese e agli altri dialetti emiliano-romagnoli: «egli fa» si dice ló al fà, e «Pietro fa» è Piràtt al fà. Se poi costruiamo una domanda, ecco che le espansioni del soggetto cambiano posto e finiscono dopo il verbo, in una vera e propria coniugazione interrogativa: csa fèl ló?, csa fèl Piràtt?, csa fâghia mé? «cosa fa lui?, cosa fa Piero?, cosa faccio io?». Questa inversione per fare le domande ricorda il francese, o le lingue germaniche: «Que sais-je? How are you? Was ist das?». Esiste anche un interessante soggetto fittizio, come in tedesco «es», che si usa quando una frase comincia con un verbo intransitivo seguito, e non preceduto, dal soggetto vero della frase: ai arîva tô pèder «arriva tuo padre». In bolognese però non si ha soggetto fittizio coi verbi atmosferici: al piôv, al naiva, al tinpèsta «piove, nevica, grandina» (ted. «Es regnet, es schneit, es hagelt»).

 

Poiché in bolognese non mancano le particelle di altra natura (pronomi complemento diretto e indiretto, avverbio i «ci» e pronome in «ne», avverbio negativo an), tutte queste forme interagiscono fra loro, spesso fondendosi e creandone delle nuove: a n al sò brîṡa, a n in vói pió, ló an vôl mâi lavurèr «non lo so, non ne voglio più, non vuole mai lavorare», il tutto complicato dal fatto che spesso n + i si pronuncia agn: a n i vâg mâi «non ci vado mai» suona infatti «agni vâg mâi». Gli esempi citati mostrano un’altra caratteristica del bolognese che ricorda il francese: la negazione ridondante, ossia composta da due elementi (an e brîṡa), come in «Je ne le sais pas» («non lo so»).

 

Passando ai sostantivi, troviamo subito il plurale metafonetico al maschile: se in italiano il plurale di «cassetto, topo, fiore, pelo» è «cassetti, topi, fiori, peli», cioè si sostituisce la vocale finale con una -i, in bolognese i plurali di casàtt, påndg, fiåur e pail sono rispettivamente casétt, póndg, fiûr e pîl, con variazione della radice, come spesso in tedesco («der Mantel - die Mäntel», cioè «il mantello - i mantelli»). Questo tipo di plurale, che ritroviamo a Ferrara, in Romagna e in Veneto e un tempo doveva essere presente anche in altri dialetti della Pianura Padana, ha origini storiche: la vocale accentata è cioè cambiata per influsso di una -i finale, poi caduta. Anche la -e del femminile a un certo punto cadde, ma in alcuni casi è stata restaurata sotto forma di -i per evitare confusioni col singolare maschile: abbiamo infatti la serie al gât, i gât, la gâta, äl gâti «il gatto, i gatti, la gatta, le gatte», dove al gât, che non ha plurale metafonetico ma resta invariato, è distinto da äl gâti proprio grazie a quella -i (in varie parlate non si distingue fra al e äl, per cui il soccorso della -i è ancor più importante per sapere se si sta parlando di un solo gatto maschio o di tante femmine). Invece, se la parola femminile da trasporre al plurale non ha un’analoga forma maschile, la -a finale cade e non viene sostituita: la dòna - äl dòn «la donna - le donne». Con alcune combinazioni di suoni è però necessaria una vocale epentetica, così il plurale di nóvvla, ânma, chèvra, pîgra, masscla «nuvola, anima, capra, pecora, mestolo» è nóvvel, ânum, chèver, pîguer, màsscuel. Tutte queste regole possono sembrare molto complicate, ma per applicarle basta conoscere un’altra caratteristica del bolognese dovuta alla rapida evoluzione storica subita dal vocalismo del nostro dialetto: l’alternanza vocalica, complesso di trasformazioni che si applica anche al plurale e femminile degli aggettivi, alle coniugazioni verbali, alla derivazione, ecc.

 

Inoltre: in bolognese si fa il femminile non solo di «uno», ma anche di «due» e «tre»: un òmen, dû òmen, trî òmen, una dòna, dåu dòn, trai dòn ecc. Il verbo dvair «dovere» in pratica non si usa e viene sostituito da costruzioni perifrastiche come ai ò da lavurèr «devo lavorare» (lett. «ho da lavorare»), a téggn andèr in cal sît «devo usare la ritirata» (lett. «tengo andare in quel posto») e, per esprimere una probabilità, al gêva andèr sicûr ai 150, cal dṡgraziè «doveva andare sicuramente ai 150, quel disgraziato» (lett. «diceva andare»). Da notare poi un uso molto ampio del partitivo: la n pôl brîṡa avair di fiû «non può avere (lett. «dei») figli», a in ò trai däl fiôli «ne ho tre di (lett. «delle») figlie».

 

La sintassi si è piuttosto italianizzata di recente, ma emergono ancora costruzioni, soprattutto nei dialetti rustici e montani, che attestano una precedente maggiore peculiarità: in tutta la Regione, e anche oltre, ma non più a Bologna città (tranne che in proverbi e modi di dire cristallizzati), i verbi di percezione reggono a: a t ò sintó a cantèr, i t an vésst a fumèr «ti ho sentito cantare, ti hanno visto fumare». Ancora udibile, anche come errore in italiano (ma perfettamente corretto in bolognese): la żänt i n capéssen gnínta «la gente non capisce (lett. «non capiscono») nulla». Un’altra costruzione assai erronea in italiano rappresenta l’unico modo di dire «a cui, di cui, con cui» ecc. in bolognese: al lîber ch’a in dscurêven ajîr «il libro di cui parlavamo ieri» (lett. «che ne parlavamo»). Vecchiotto, ma ancora ricordato in città e vivo in campagna, es per «e», congiunzione che unisce due verbi coordinati: a rédd es a zîg «rido e piango». Si tratta di una costruzione usata nelle canzoni di Carlo Musi e Mario Medici, nonché frequentissima nelle favole di Carolina Coronedi Berti (in it. di Bologna si sente ancora dire «rido e se piango»). Usato ancora oggi an s capêva cus’as fóss «non si capiva cosa (lett. «si») fosse», che ha un’intera coniugazione: a n sò brîṡa cus’a m dégga, t an sè brîṡa cus’t et dégg ecc. «non so cosa («mi») dico, non sai cosa («ti») dici», al congiuntivo. Diffuso in molti luoghi, e dunque un tempo probabilmente anche cittadino, l’ordine dei pronomi inverso all’italiano (ma normale in spagnolo) in frasi del tipo as m é rått la mâchina «mi si è rotta la macchina» (lett. «si mi è rotto»), confermato dal generale e obbligatorio (perché di terza persona) an s i arvîṡa gnanc int al pisèr «non gli somiglia affatto» (lett. «non si gli assomiglia»). Ancora, gli anni hanno sempre voluto, in tutta l’Emilia-Romagna e dintorni, la preposizione articolata dal, oggi in lotta con l’italianeggiante int al «nel»: A sån nèd dal ’25 «sono nato nel 1925», spesso reso in italiano con «sono nato del ’25». Particolarità anche per le date e gli orari: a se vdrän a sî åur (cfr. francese «à six heures»), oggi in ritirata di fronte a int äl sî e anche al sî, «ci vediamo alle sei», mentre «il (giorno) sei» è al dé di sî oppure ai sî (es. d utåbber, «di ottobre»). Ormai estinto ma estremamente interessante: i én bî e vîc’, alla lettera «sono belli e vecchi» per dire «sono già vecchi», dal momento che «già» a tutt’oggi si dice bèle.



A cura di Aldo Jani Noè, Luigi Lepri, Roberto Serra, Daniele Vitali. In collaborazione con la Redazione Iperbole - Settore Comunicazione - Comune di Bologna
Ultimo aggiornamento: 23 05 2011