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Questa sezione sarà una piccola galleria in cui di volta in volta troverete esposti lemmi e modi di dire del nostro dialetto.
Se fossero nati a Bologna
Una sera, al tavolo di un caffè del centro, alcuni bolognesi di mezz’età hanno inventato un giochetto che potrebbe diffondersi. Se i più celebri personaggi della storia fossero nati a Bologna, come sarebbero state le loro frasi più famose dette in dialetto bolognese? Naturalmente il meccanismo può essere applicato ad ogni parlata. Allora, per dovere di cronaca, riportiamo alcuni esempi ascoltati a quel tavolo di caffè.
La prima ipotesi è stata quella di un Dante Alighieri bolognese che al posto di “il bel paese là dove ’l sì suona” avrebbe detto La mî zitè, dóvv as dîs sänper sócc’mel. E’ poi stata la volta, nientemeno, di Shakespeare e del suo “essere o non essere, questo è il problema” che filtrato in salsa bolognese è diventato O däntr o fòra, cum la mitaggna? Le parole conclusive dell’Amleto “il resto è silenzio” sono state trasformate così: Al rèst macóbba (qui col significato di “irrilevante”). Nemmeno Arnaldo Fusinato è sfuggito al gioco, così il suo famoso “Il morbo infuria / il pan ci manca / sul ponte sventola / bandiera bianca” si è bolognesizzato in I én tótt malè / an s mâgna un câz / e la bandîra / l’é dvintè un strâz.
Il poco spazio ci impedisce di riportare le tante frasi famose dialettizzate da quei buontemponi. Per concludere basterà ricordare l’anatema di Francesco Ferrucci che, se fosse nato a Bologna, invece di urlare “Vile, tu ammazzi un uomo morto!” avrebbe forse detto Bèl sfôrz mazèr ón ch’al chèga! Le frasi famose sono tante e chiunque potrebbe provare a trasferirle nel proprio dialetto. Buon gioco.
Furbo del deserto
Un tizio, ovviamente bolognese, aveva fatto un prestito a un amico che da allora lo scansava accuratamente. Un giorno si incontrarono in pieno deserto e il creditore apostrofò il debitore: Dí só, té! (ehi, tu!). Erano soli ma l'altro rispose Chi, mé? (chi, io?) meritandosi così l'appellativo di Furbén dal deṡêrt (furbino del deserto). Da allora questa espressione si usa nei confronti di chi fa lo gnorri per sottrarsi a un impegno o di chi usa stratagemmi ottenerne un tornaconto.
La campagna elettorale ormai impazza e opprime gli elettori a ogni ora del giorno. È inevitabile che, fra i tanti candidati, qualcuno usi degli astuti accorgimenti per accattivarsi simpatie e voti. In un Ruglàtt (capannello) di piazza Maggiore abbiamo sentito usare più volte, all’indirizzo di vari aspiranti parlamentari, la frase Furbén dal deṡêrt, purtroppo seguita da altri epiteti come Inbrujån (imbroglione) o suoi sinonimi come Facanâpa, Farabulån, Zarlatàn, Tirasó, Barlucån, Bużarån, Incantabéss, per citarne alcuni.
Intervenendo nella discussione in atto, abbiamo cercato di affermare che non tutti i politici meritano quelle qualifiche poco lusinghiere, perché anche tra loro ci sono molte persone serie. Nelle discussioni in piazza il dialetto bolognese viene ancora usato e abbiamo dovuto registrare la seguente risposta: Con èrt e con ingân as canpa metè dl'ân; con ingân e con èrt as canpa cl'ètra pèrt (con arte e con inganno si campa metà dell'anno; con inganno e con arte si campa l'altra parte). I bolognesi non saranno troppo cinici?
Amore in dialetto
Ah, l’amore! Con la primavera e l’estate, anche a Bologna pare aumentino le coppie di innamorati. Forse diventano più visibili perché si trattengono all’aperto, sono sotto gli occhi di tutti e suscitano anche commenti dialettali.
Il primo che abbiamo ascoltato è stato Tîra pió un pail ed dòna che zänt pèra ed bû (tira – attira – più un pelo di donna che cento paia di buoi). Precisiamo che il vocabolo Dòna viene spesso sostituito da un altro più licenzioso, facilmente immaginabile. Nonno Iusfén, poi, ci ha aggiunto del suo, ricordandoci un proverbio che non conoscevamo: Quand canta al bòt, al tîra dé e nòt (quando gràcida il rospo – cioè in primavera – tira giorno e notte). Una breve indagine ci ha permesso di appurare che il detto si riferisce al vento, confermandoci l’inguaribile malizia del nonno. Il quale, riferendosi ai giovanissimi, sostiene che tutti sono colpiti da una malattia definita dal nostro dialetto la Fîvra di spunción (febbre degli spuntoni, cioè smania d’amore dell’adolescenza). Gli spunción sono appunto le penne dei giovani uccelli che iniziano a spuntare.
Poi, si sa, gli amori giovanili arrivano spesso al traguardo di una vita di coppia più o meno stabile e, anche in questo caso, il dialetto ci regala una sorta di ammonimento, un invito a prendere le cose con la dovuta calma: Al candlòt l’é cûrt e la procesiån l’é lónga (la candela è corta e la processione è lunga, cioè non abbiate fretta). Certo, una processione come immagine della vita di coppia ci sembra azzeccata. Ci dicono poi che anche la candela dovrebbe essere una metafora di qualcosa e, in proposito, chiederemo lumi all’esperto nonno Iusfén.
Panzane bolognesi
La squadra del Bologna è tornata in serie A e l’allenatore studia tattiche e formazioni per eccellere nel prossimo campionato. Se il poeta di via Mirasole Franco Varini volesse suggerirne una, direbbe certamente Ai vlèva Crudele (ci voleva Crudele), che era uno storico barbiere degli anni Trenta famoso come incallito Baléssta (contafrottole). Ed ecco perché Arrigoni dovrebbe inserire in squadra quel barbiere come titolare.
Il Figaro Baléssta andò a Monaco per assistere a un incontro Germania - Italia e al ritorno lo raccontò così agli amici: “La Germania vinceva uno a zero e nell’intervallo fui chiamato con urgenza negli spogliatoi da Vitòri (Vittorio Pozzo, c.t. dell’Italia negli anni Trenta) che mi chiese di giocare il secondo tempo in sostituzione dell’infortunato Biavati. Risposi Ai päns mé, stà trancuéll! (ci penso io, stai tranquillo!)”. Per capire l’entità della fandonia, gli amici chiesero E cum êla pò finé? (e com’è poi finita?). Risposta spudorata: Avän vént nó dû a żêro, mo s’an i êra mé... (abbiamo vinto noi due a zero, ma se non c’ero io...). Crudele il baléssta aveva fatto vincere l’Italia cancellando anche l’iniziale rete di svantaggio.
I tifosi di oggi preferirebbero successi non raccontati ma reali e un Bologna stabilmente in serie A. Una speranza che forse a Varini verrebbe da dire: Sperèr int al bèl quand a se stänta int al brótt, l é al sulîv di puvrétt (sperare nel bello quando si stenta nel brutto, è il sollievo dei poveri). Forza Bologna.
Inzäns e strótt
Avete presente la festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio), comunemente chiamato Sant Antòni dal ninén. Il santo, infatti, eremita egiziano vissuto nel IV secolo (da non confondere con l’omonimo di Padova), è oggi ricordato come il protettore della campagna e degli animali, tant’è che l’iconografia tradizionale lo vuole raffigurato con un bastone munito di campanello e con il fido maiale al suo fianco.
Tale rappresentazione prende spunto dall’agiografia: si narra infatti che, in seguito alla vittoria del santo nella lotta contro il Demonio, il Maligno fosse condannato a seguire ovunque l’eremita sotto le sembianze di un maiale.
Il legame tra il santo e gli animali domestici è rafforzato anche dalle tradizioni popolari: nella notte che precede la festa del santo, gli animali erano tenuti lontani dai padroni. Si credeva, infatti, che in quella ricorrenza fosse loro concesso l’uso della parola, e si raccontava di un ragazzo che, al solo sentire äl bîsti a dscårrer int la stâla (le mucche che parlavano nella stalla) morì dallo spavento.
Chiunque avrà poi nella memoria al lunèri ed Sant Antòni, che era appeso in ogni cucina di campagna: questa commistione di sacro e profano, di santi e di maiali, rende appieno il fascino del nostro dialetto, che spesso tende a sdrammatizzare le situazioni anche più scabrose, illuminandole con un sorriso.
Proprio l’altra sera, mî nôna Âlfa, sentendo una delle solite notizie di gossip, ha commentato: “Sant Antòni al s inamuré int un ninén!” (Sant’Antonio si innamorò di un maiale); l’espressione è grosso modo l’equivalente dell’italiano “l’amore è cieco”, ma lo stesso significato è raggiunto in quel modo tragicomico di affrontare l’esistenza, proprio del bolognese. Crediamo che Sant’Antonio non si scandalizzerà di questo detto, anzi, lo immaginiamo a fèr båcca da rédder, cioè a sorridere.
Quello stesso sorriso che forse farà quando, nelle sagre che in suo onore si tengono nei villaggi, in chiesa vengono benedetti e distribuiti i panén ed Sant Antòni, ossia piccole pagnottine da dare da mangiare agli animali (anc a quî a dåu zanp!); o quando il profumo dell’incenso si confonde con quall dal strótt e däl carsintén che attendono il popolo appena fuori dalla chiesa, ossia con il grasso di maiale dove friggere le crescentine.
E speriamo che Sant’Antonio al fâga zriṡén alle famiglie italiane che lo invochino con la tradizionale preghiera: “Sant Antòni dal canpanén, an i é pan es an i é vén; an i é laggna int al granèr. Sant Antòni, cum avaggna da fèr?”. E se oltre che a Sant’Antonio questa preghiera fosse oggi rivolta a politici e amministratori?
[Da Bertén d Sèra]
Bologna grassa?
Nelle periodiche classifiche stilate da giornali specializzati, Bologna, continua a registrare uno dei redditi pro capite più alti d’Italia anche se queste graduatorie, presentando variazioni consistenti in tempi brevissimi, appaiono leggermente schizofreniche.
Viene comunque sempre confermata la tradizionale definizione di La grassa assegnata alla nostra città, riferita non soltanto ai tortellini. Qualcuno, però, afferma che, malgrado gli eccellenti dati statistici, la distribuzione del reddito ha creato bolognesi molto ricchi e altri molto poveri. Ricordiamo allora che la definizione “grassa” fa anche parte di un proverbio popolare che suona così: Bulaggna la grâsa par chi i stà, brîṡa par chi i pâsa (Bologna la grassa per chi ci abita, non per chi ci passa). E se ci guardiamo attorno forse scopriremo ancora una volta la validità dei nostri detti dialettali.
Già che ci siamo ricordiamone un altro, inconsueto, più che proverbio gioco di parole per canzonare i budriesi: Bononia docet, Bûdri sbdócet! (...Budrio spidòcchiati!). I simpatici budriesi, di fronte all’illazione secondo la quale sarebbero infestati dai pidocchi, rispondevano con un altro proverbio: I bulgnîṡ i én lûv, bécc e curiûṡ (i bolognesi sono ingordi, cornuti e curiosi).
Pare che un’altra bislacca ricerca statistica sia riuscita ad accertare che oltre ai Lûv esistono bolognesi frugali e sobri. E invece che essere Curiûṡ, molti sono timidi e riservati. Dal che si deduce che il proverbio avrebbe torto e non siamo tutti ingordi e curiosi. Arrivati però alla terza caratteristica è stata dura: nessun petroniano si è sentito di affermare con certezza di non essere Bacc. Bisognerà proseguire le indagini.
Sócc’mel
Quando a un bolognese succede di incontrare un connazionale di un’altra regione, prima o poi si sentirà dire, con malcelato e complice sorriso: Ah, sei di Bologna, sócc’mel! Ecco, quel sorriso furbetto carico di sottintesi, noi bolognesi lo troviamo del tutto fuori luogo. Perché, se è vero che in origine il vocabolo era decisamente scurrile, è altrettanto vero che da tempo non lo è più.
Per un esame privo di pregiudizi bisogna tralasciare il significato originale di questa esclamazione, di esclusiva coniugazione maschile, che è voce esortativa del verbo Sucèr (succhiare). Ricordiamo invece come, anche attraverso numerose mascherature, il suo uso frequente abbia disperso l’iniziale accezione triviale. Oggi va paragonato a interiezioni quali cribbio, diamine, càspita, acciderba, corbezzoli, per giove e così via. Il nostro Sócc’mel viene ormai usato quale espressione rivelatrice di diversi stati d’animo: stupore, furore, contrarietà, ammirazione, rifiuto, sorpresa, compiacimento. La sua neutralità semantica è provata dal fatto che anche le donne bolognesi lo usano spesso così com’è. Ma se volessero mantenerne il significato d’origine, dovrebbero pronunciare un femminile Sócc’mla, che però nel dialetto non esiste.
Vocabolo malizioso, dunque, ma usato dai petroniani senza malizia in veste di nostrano consueto intercalare. Esistono poi deformazioni nate in passato per occultare ingenuamente la scurrilità, come i famosi Sorbole e Sóccia. Ricordiamo Francesco Guccini, in veste di linguista, protagonista di un’indimenticabile “lezione” al sindaco Cofferati sulle modalità d’uso e sul reale odierno significato di questo nostro intercalare divenuto un autentico biglietto da visita della lingua bolognese. Possiamo dunque invitare tutti, bolognesi e non, ad usarlo in piena tranquillità pronunciando con noi un sonoro, inequivocabile, bolognesissimo Sócc’mel! (Luigi Lepri)
...e proseguire con una curiosità su quello che può definirsi il più sensuale piatto della nostra cucina...
Tortellino col pepe
Quando si mangiavano i tortellini soltanto nelle solennità, le famiglie bolognesi praticavano una curiosa usanza. Uno dei tortellini destinati al pranzo importante veniva riempito unicamente con del pepe al posto del tradizionale ripieno, poi si mischiava l’intruso ai confratelli “regolari”. Era un bonario scherzo familiare e, al pranzo, si aspettava di vedere a quale commensale sarebbe capitato di strabuzzare gli occhi, tossire, bere avidamente per placare il bruciore prodotto da tanto pepe. Dalla casuale destinazione si traevano anche auspici di buona o cattiva sorte per l’interessato. Deriva da qui il detto S’a i é al turtlén col påvver am tåcca a mé (se c’è il tortellino col pepe, capita a me) che è un’affermazione pessimistica per la propria sorte. La pronuncia chi si ritiene sfortunato, convinto che se deve succedere una disgrazia succederà proprio a lui.
Oggi, a Bologna ma anche altrove, i tortellini si possono mangiare tutto l’anno e l’usanza di confezionare quello col pepe è tramontata. Non è scomparso, però, l’uso figurato della frase alla quale potremmo accompagnare un’altra espressione dialettale che ha lo stesso valore: S’a vâg a una réffa ed dòn, a sån acsé sfighè ch’a vénz mî mujêr (se vado a una lotteria con delle donne in premio, sono tanto sfortunato che vinco mia moglie). Ovviamente l’ipotesi vale anche per le donne che faranno riferimento al marito o al moroso.
Purtroppo capita a tutti, metaforicamente, di dover inghiottire prima o poi un tortellino indigesto, che invece del normale ripieno di lombo, prosciutto, mortadella e parmigiano, si rivela inaspettatamente pieno di pepe. Senza voler essere pessimisti ad ogni costo, il rimedio, potremmo dire, non manca mai, almeno a tavola: basta bere molta acqua per spegnere l’irritante bruciore. Oppure, più prudentemente, si potrebbero evitare gli “Umbilichi sacri”, in questo caso insidiosi, e affidarsi alle più rassicuranti e altrettanto petroniane Tajadèl sótti (tagliatelle al ragù). Con le quali i pragmatici bolognesi hanno anche coniato il proverbio Äl ciâcher i én ciâcher e äl tajadèl i s mâgnen (le chiacchiere sono chiacchiere e le tagliatelle si mangiano, cioè contano i fatti e non le parole). Diciamolo ai tanti chiacchieroni e buon appetito. (Luigi Lepri)
A cura di Aldo Jani Noè, Luigi Lepri, Roberto Serra, Daniele Vitali. In collaborazione con la Redazione Iperbole
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Ultimo aggiornamento: 23 05 2011