Alex Carpani - lead & back vocals, keytar, sequenze
Gigi Cavalli Cocchi – batteria, Jacopo Rossi - basso
Blues a Balues 2019
Storica band bolognese capitanata da Federico Poggipollini, chitarrista da sempre di Ligabue, che danno una sferzata al programma blues proponendo genere Dark, new wave e post punk.
Inizio concerto: ore 21.00
Ingresso gratuito
Blues a Balues 2019
Trio capitanato da Mauro Gardella, chitarrista bolognese che vanta collaborazioni con Dalla, Carboni, Morandi e altri personaggi importanti della musica italiana. La musica che propone il trio è Blues Rock, andando dal blues raffinato di Robben Ford a quello più energico di Joe Bonamassa, passando dai classici di Tom Petty e tanti tanti altri.
Mauro Gardella (voce e chitarra)
Stefano Giuliani (batteria)
Alberto Giovannini (basso)
Inizio concerto: ore 21.00
Ingresso gratuito
Memorial | Blues a Balues 2019
Sabato 7 e domenica 8 settembre la manifestazione dedicata a Saverio Lanzarini, noto chitarrista bolognese prematuramente scomparso. Due giorni in cui sul palco di Blues a Balues si alternano tantissimi amici e colleghi di Saverio, ripercorrendo la sua carriera di chitarrista Blues e Funky.
Inizio concerto: ore 20.30
Ingresso gratuito
Jimi Hendrix Tribute Band | Blues a Balues 2019
La seconda serata dedicata a Jimi Hendrix e alla sua musica elettrizzante vede sul palco Trioladro, la band proveniente dalla Valtellina composta da Doriano Maccasini alla chitarra e voce, da Paolo Bonfadini alla batteria e da Roberto De Vittorio al basso e cori.
Inizio concerto: ore 21.00
Ingresso gratuito
Blues a Balues 2019
Prima delle due serate dedicate alla magia di Jimi Hendrix e alla musica elettrizzante del grandissimo chitarrista. Sul palco di Blues a Balues il trio Rainbow Bridge, la band pugliese nata nel 2006 per proporre una libera interpretazione del sound della Jimi Hendrix Experience.
Giuseppe "Jimi Ray" Piazzolla – voce, chitarra
Fabio Chiarazzo – basso
Paolo Ormas - batteria
Inizio concerto: ore 21.00
Ingresso gratuito
50 anni dopo | Blues a Balues 2019
Al 50° anno dalla storica manifestazione avvenuta in America, assieme a una associazione di Modena, Gli Avanzi di Balera, viene presentata una sintesi dei tre giorni, proponendo una ventina di band e il sound e l’atmosfera che regnò in quel tempo.
Inizio concerto: ore 21.00
Ingresso gratuito
Live in Serre
Due chitarre, basso e violino, un personalissimo sound che spazia dall’indie al folk caratterizzato dalla voce cavernosa di Jeremy.
A una scrittura solida e poetica che è figlia sia di Leonard Cohen che di Nick Drake, il musicista londinese accosta la forza visionaria del primo David Bowie e l’humour dark dei Tindersticks, senza altresì trascurare la versatilità del rock’n’roll, con frutti tanto intelligenti quanto intriganti.
Il nuovo disco Pink Mirror, uscito da pochi mesi, si sta già ritagliando un prestigioso spazio tra i più bei dischi del 2019.
Playtime
Archi, tasti, manopole, giochi. Crini di cavallo, corde vocali, carillon. Sturba, Puglisi e Sillato presentano con questa formazione inedita un concerto di improvvisazione libera e coinvolgente, esplorando i suoni e le poliritmie, le melodie e i rumori. Nei background musicali di questi tre musicisti si trova di tutto: musica classica, antica, contemporanea, jazz, afro, e chi più ne ha più ne metta. Nell’improvvisazione ci sguazzano e ci porteranno in mari imprevedibili e sconosciuti.
Valeria Sturba (voce, violino, theremin, elettronica) polistrumentista, cantante e compositrice – diplomata in violino- suona theremin, tastierine, minisynth, ed ama stropicciare in modo creativo effetti elettronici, looper e giocattoli sonori assortiti.
Fabrizio Puglisi (Arp Odyssey, synth, elettronica) Pianista, compositore ed improvvisatore. Membro storico del Collettivo Bassesfere, da sempre ama sconfinare nei territori di altri linguaggi artistici collaborando con attori, scrittori, poeti, registi ed artisti visivi. Insegna Pianoforte Jazz al Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna e alla Siena Jazz University.
Dimitri Sillato (violino, synth, elettronica) ha iniziato lo studio del violino a nove anni nei conservatori di Bologna e Parma. Ha collaborato con musicisti e formazioni di varia estrazione quali: Jay Rodriguez, Eviyn Kang, , Vinicio Capossela, Mike Patton, John de Leo e tanti altri, partecipando a numerosi festival nazionali ed internazionali. Da tempo si dedica alla scrittura di musica classica contemporanea.
Visionaria
Ospite di appuntamento di visionaria, la rassegna del giovedì dedicata a sonorizzazioni live e viaggi immaginari, Fabio Maltoni Kamajidj con il progetto Pink Floyd’s Atom Heart. Una monografia musicale mixata dedicata alla band britannica, che lega insieme la produzione che va dal primo album ‘barrettiano’ del 1967 (The Piper At The Gates Of Dawn) fino al 1979 (The Wall).
Una serata di sound floydiano senza soluzione di continuità accompagnato da immagini video autentiche tratte dalla videografia ufficiale dei Pink Floyd.
Luogo Comune
Selezioni musicali curate da Neu Radio – Nuova Emittente Urbana, la nuova web radio aggregatore culturale e musicale che con i suoi dj e le playlist accompagna le serate di Luogo Comune.
Ingresso libero
Apertura ‘Luogo Comune’: ore 19.00
di Pawel Pawlikowski, Polonia/2018, 85’
La storia d'amore tempestosa e sofferta tra due musicisti, una relazione ostacolata dalle scelte opposte e dai rovesci del destino. Sullo sfondo, la Polonia e l'Europa negli anni della Guerra fredda, riprese in 4/3 in un bianco e nero cristallino. "Una miniatura affascinante che evoca l'eponimo gelo geopolitico con tutta la complessa, delicata decadenza dell'autore polacco. Ma la guerra fredda al centro di questo film inquieto e pieno d'ellissi è quello tra i cuori, non tra i territori". (Variety)
Premio per la miglior regia al Festival di Cannes 2018
Premio come miglior film agli European Film Awards 2018
"Quindici anni di amore e di fughe per evocare la disperazione e la tragica bellezza, malgrado tutto, di un'epoca scomparsa. Quindici anni di canzoni folk, spesso bellissime, di spettacoli di regime, di bassezze e compromessi, per resuscitare un mondo sepolto dall'oblio e dai luoghi comuni. Il tutto attraverso un grande amore liberamente ispirato a quello dei genitori del regista polacco cresciuto in Occidente che torna allo smagliante bianco e nero di Ida per raccontare con ruvide ellissi e immagini taglienti come i dialoghi l'incontro, la passione, le incomprensioni, i tradimenti, di due amanti uniti e divisi dalla musica e dalla cortina di ferro. A riassumerlo il magnifico Cold War sembra una versione esteuropea di A Star is Born: musicista scopre giovane dalla voce sublime, ne è sedotto, la seduce, cerca di farne una stella... Solo che non siamo negli Usa ma in Polonia, nel 1949. La guerra è finita da poco, le campagne sono battute da esperti a caccia di musica popolare, come accadeva da noi e in America con Diego Carpitella e Allan Lomax. E soprattutto i sogni non luccicano per le strade ma oltrecortina, in Occidente. In patria fare carriera significa camuffarsi da contadina e cantare per il regime. La felicità è altrove. Questo almeno pensa Wiktor che al primo concerto a Berlino organizza la fuga. Solo che Zula non lo segue. Così dagli anni Cinquanta al 1964 sarà tutto un inseguirsi fra Parigi e Zagabria, locali jazz e star system socialista, tentazioni e umiliazioni. Tutto senza lungaggini o sentimentalismi ma con un taglio secco molto personale, e immagini sempre dense e sorprendenti, a volte incantevoli, soprattutto nel blocco orientale. Un blocco di ghiaccio forse. Ma ghiaccio bollente.
Fabio Ferzetti, "L'Espresso"
(USA/2018) di Bradley Cooper (135')
Per la quarta volta, è nata una stella... La storia è la stessa già portata sullo schermo da Wellman, Cukor e Pierson. Proprio a quest'ultima versione, con protagonista Barbara Streisand, s'è ispirato l'attore Bradley Cooper per il suo esordio alla regia. Jackson Maine, musicista interpretato dallo stesso Cooper, scopre e s'innamora d'una cantante di talento che fatica ad affermarsi, Ally. Nei panni che furono anche di Judy Garland c'è la popstar Lady Gaga, che insieme a Cooper è autrice e interprete di tutte le canzoni del film. Tra romanticismo e dramma, il racconto intimo delle difficoltà di un rapporto tra gli alti e i bassi del successo.
- Premio come Miglior canzone originale per Shallow agli Oscar 2019 e ai Golden Globe 2019
- Premio come Miglior colonna sonora ai BAFTA 2019
"Un concerto rock tutto ritmo ed energia e una struggente interpretazione segnata da rimpianto e dolore. La sequenza iniziale e quella conclusiva, che racchiudono la vicenda di A star is born, riassumono perfettamente l'identità del film, che è insieme un viaggio nell'autodistruzione, romanzo di formazione e un rutilante metà sentimentale. La trama è nota perché questa nuova versione, diretta da Bradley Cooper all'esordio in regia, é il terzo remake del film originario diretto da William A. Wellman nel 1937. (...) La maggiore curiosità di A star is born era la presenza di Lady Gaga nel ruolo che, nell'ordine, fu di Janet Gaynor, Judy Garland e Barbra Streisand. Bisogna riconoscere che, contrariamente alle aspettative, Lady Gaga non sfigura nel confronto, mostrando una versatilità interpretativa che va dalla fragilità alla determinazione, e soprattutto, assecondando le esigenze della trama, una capacità di trasformazione mimetica. (...) Il film, sostenuto da un'ottima colonna sonora, elemento determinante per un'opera di genere musical, raggiunge gli obiettivi che si era fissato."
Franco Montini, "La Repubblica"
di Jacques Audiard, Francia-Spagna-Romania-Belgio-USA/2018, 122’
Oregon, 1851. Due fratelli, Charlie ed Eli, il primo impulsivo, scontroso, amante di vino e donne, il secondo più riflessivo e sensibile, lavorano insieme. I Sisters sono pagati dal Commodoro dell'Oregon per eliminare i suoi nemici in modo veloce ed efficace: la loro fama li precede e sono temuti da tutti gli abitanti del West. L'ultimo lavoro consiste nel far sparire un chimico, accusato di aver rubato al loro capo e che sembra aver scoperto il metodo per scovare l'oro dai letti dei fiumi. Non tutto però va come previsto...
Leone d'Argento al 75° Festival del Cinema di Venezia
Premio César 2019 come miglior film
"Lo si capisce già dalla primissima scena: uno scontro a fuoco dove si distinguono, e molto in lontananza, solo le fiammate che escono dalle pistole, senza capire bene chi spara a chi. Siamo in un western (una didascalia all'inizio aiuta: Oregon, 1851) ma lo guardiamo come Fabrizio Del Dongo a Waterloo: abbiamo sempre l'impressione che il cuore delle cose ci sfugga. È come se avessimo una lente davanti ai nostri occhi, una strana lente che a volte dà l'impressione di deformare le immagini o a volte le avvicina e a volte le allontana. Non siamo in un western revisionista o crepuscolare o - Dio ne scampi - postmoderno. Siamo in un mondo che ha perso la sua innocenza ma non ne è ancora ben cosciente, dove le passioni guidano ancora le azioni degli uomini ma non sono così forti da farne degli eroi. E neppure il dovere di un compito ben fatto serve più a giustificare le proprie imprese. Gli anni sono gli stessi di tanti vecchi western, ma gli eroi sono irrimediabilmente cambiati. n effetti non ti aspetti John C. Reilly e Joaquin Phoenix con lo Stetson e la Colt, con quello strano cognome su cui Cyrano avrebbe intessuto rime e allusioni - Sisters, sorelle - nei panni di due infallibili killer, Charlie e Eli, in giro per il West a eliminare i nemici del misterioso Commodoro. E quasi non ci credono neppure loro, tanto gli ammazzamenti avvengono senza particolari difficoltà o pericoli. I rischi, semmai, vengono dalla facilità con cui Charlie si ubriaca e perde le staffe, costringendo il più assennato Eli a correre ai ripari. Per interesse professionale - lavorano in coppia - ma anche per un forte rapporto fraterno (l'unico vero sentimento di tutto il film), quello che spinge il giovane Charlie a occuparsi di Eli quando un ragno gli entra in bocca nel sonno e gli gonfia la faccia. Una scena su cui altri avrebbero potuto ricamare gag o riflessioni sulla Natura matrigna e che invece passa via senza conseguenze, solo un piccolo e insignificante ritardo sulla tabella di marcia. Perché il nocciolo di I fratelli Sisters l'inseguimento da parte di Charlie e Eli di uno strano chimico di origini (probabilmente) indiane, Hermann Kermit Warm, che il Commodoro vuole eliminare e sulle cui tracce ha già mandato l'investigatore privato John Morris; ui deve individuarlo e poi indicarlo ai due fratelli killer perché lo uccidano non prima di avergli strappato il suo segreto. Quale sia questo segreto lo si scoprirà più avanti nella storia, durante la quale Morris deciderà di cambiare casacca e Charlie e Eli ne saranno tentati a loro volta. Eppure, il senso del film non è certo quello di raccontare una storia di inseguimenti e tradimenti, altrimenti il regista francese Jacques Audiard non avrebbe probabilmente accettato la proposta che gli fece, addirittura sei anni fa, durante un festival di Toronto, John C. Reilly che aveva comprato con la moglie produttrice Alison Dickey i diritti del romanzo di Patrick deWitt (in italiano "Arrivano i Sisters", Neri Pozza). L'attore vi aveva visto la storia di una persona che intuisce dentro di sé un'altra strada e un'altra possibilità di vita, il regista poteva ritrovare il tema su cui aveva costruito la sua carriera d'autore e diretto alcuni grandi film: come non tradire se stessi di fronte alle contraddizioni e alle sfide della vita. Insieme al co sceneggiatore Thomas Bidegain, Audiard ha lavorato sull'umorismo del testo letterario, stemperandolo senza eliminarlo del tutto, ricostruendo un West canonico nei suoi riferimenti ma inedito nelle sue sfumature (la scoperta dello spazzolino da denti e come usarlo, la mascolinità della terribile Mayfield, (l'amore «segreto» di Eli per chi gli ha regalato una sciarpa), pronto a sorprendere lo spettatore con una nuova ripartenza (lo scontro finale col Commodoro) per toccare così i tanti temi del western - l'avidità e la violenza, la misoginia e la sfida ai padri, l'amicizia virile e l'utopia, l'amore e il conforto della famiglia - ma anche per «dimenticare» l'epica e trasformare il film in un inedito romanzo di formazione."
Paolo Mereghetti, "Il Corriere della Sera"
(USA/2018) di Peter Farrelly (130')
New York, anni '60. Tony Lip, un tempo rinomato buttafuori, finisce a fare l'autista di Don Shirley, giovane pianista afro-americano. Lip deve accompagnare il pianista prodigio in un lungo tour nel profondo sud degli Stati Uniti. Dopo alcune prime difficoltà, il viaggio nelle regioni razziste degli USA porta i due a stringere una forte e straordinaria amicizia.
Premio come miglior film agli Oscar 2019 e ai Golden Globe 2019
Premio come miglior attore non protagonista a Mahershala Ali agli Oscar 2019 e ai Golden Globe 2019
Premio per la miglior sceneggiatura originale a Nick Vallelonga, Brian Currie e Peter Farrelly agli Oscar 2019 e ai Golden Globe 2019
"La trama si basa su un vecchio episodio dell'America razzista, per la verità ancora attuale in un paese che ne continua a subire le drammatiche conseguenze, permeato, però, da un senso liberal di ripulsa che non assomiglia allo stile urlato caro a Spike Lee: per il regista Farrelly, stavolta separato dal fratello Bobby, lo spunto diventa esemplare non tanto per l'accuratezza dei costumi, le scenografie e, in particolare, le poliedriche musiche, quanto per l'acclusa metafora dei più nobili sentimenti umani che dovrebbero essere e purtroppo non sono universali e trasversali. Basta rilevare, al proposito, che lo spedito e scorrevole racconto si svolge nel corso della tournée intrapresa all'alba degli anni 60 a bordo di un'elegante Cadillac azzurra da un raffinato pianista e jazzista nero e dal suo occasionale e rozzo autista italoamericano negli stati sudisti più discriminatori nei confronti degli afroamericani. Sul filo di situazioni picaresche e tragicomiche si capisce subito che dall'odioso contesto si sprigionerà il calore di un'amicizia in barba ai doppi e tripli pregiudizi, ma il meglio del film sta nel ritmo pressoché sinfonico con cui Ali e Mortensen si palleggiano i rispettivi minishow sull'ordito di dialoghi cronometrici, battute sarcastiche e qualche scaltrita mozione degli affetti."
Valerio Caprara, "Il Mattino"
di Pedro Almodovar, Spagna/2019, 113’
Il racconto di una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo, regista cinematografico oramai sul viale del tramonto. Alcuni sono fisici, altri ricordati: la sua infanzia negli anni '60 quando emigrò con i suoi genitori a Paterna; il suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni '80; il dolore della rottura di questo amore quando era ancora vivo e palpitante; la scrittura come unica terapia per dimenticare l'indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il senso del vuoto, l'incommensurabile vuoto causato dall'impossibilità di continuare a girare film...
Premio al miglior attore protagonista al Festival di Cannes
"Salvador Mallo ha il volto di Antonio Banderas ma per il resto è 100% Almodóvar. Sono di Almodóvar la malinconia e i capelli dritti in testa, sua la casa in cui vive, che riproduce la vera casa del regista, suoi i mille dolori fisici e mentali acuiti dall'età. Salvador Mallo, protagonista quietamente alla deriva di Dolor y Gloria, è insomma un perfetto alter ego di Almodóvar, e come tutti gli alter ego è anche un luogo di reinvenzione e fantasia. L'ideale per un film che è una galleria di fantasmi a cavallo tra presente e passato, immaginazione e memoria, intimità segreta e immagine pubblica, con il fatale impasto di verità e menzogna su cui ogni immagine pubblica si fonda. Ecco dunque riaffacciarsi il protagonista di un successo di trent'anni prima con cui aveva litigato a morte (Asier Etxeandia), ecco le luci e i colori accesi di un'infanzia povera solo materialmente, ecco l'immagine di sua madre e quella del suo primissimo, inconsapevole amore, in cui già desiderio e capacità di creare immagini si mescolano, si alimentano, si confondono. Mentre nel suo opaco presente Mallo si lascia andare, aggiunge ai tanti farmaci l'eroina, accetta a malincuore l'invito della Cineteca per la presentazione di un suo film pensando di andarci con l'attore ritrovato, anche se poi tutto si svolgerà al telefono in uno dei non pochi momenti memorabili di un film che ha la cadenza ondivaga del "trip" e gli improvvisi affondi emotivi cui ci ha abituato il regista di Parla con lei. Uno dei suoi tanti film convocati, più che citati, per l'occasione (quello spettatore che piange in platea...), in un continuo processo di rielaborazione e trasformazione del passato, anche cinematografico, che è forse il vero soggetto dello smaltato, visivamente magnifico Dolor y Gloria. Non tutto magari raggiunge la stessa temperatura. Non sempre il "tempo ritrovato" di Mallo/Almodóvar, con tutti gli amori e gli errori che riaffiorano dal passato, diventa anche il nostro. Ma il colloquio con la madre anziana, in sottofinale, lo scarto che improvvisamente porta il film in una zona ancora inesplorata, il cocktail acrobatico di pathos e umorismo con cui evoca e insieme tiene a bada il dolore più acuto («Non fare quella faccia da narratore!»), sono la firma di un regista tornato grandissimo dopo lo sfocato Julieta."
Fabio Ferzetti, "L'Espresso"
di Bryan Singer, GB-USA/2018, 134’
Prende il titolo da uno dei brani più celebri dei Queen l'atteso biopic dedicato a Freddie Mercury e alla band inglese, che ripercorre la storia del gruppo dalla formazione al concerto per il Live Aid del 1985 (esibizione interamente e fedelmente riprodotta), qualche anno prima della morte di Mercury. Travagliata la lavorazione, che ha visto il regista Bryan Singer licenziato prima del termine delle riprese, ma l'attore Rami Malek incarna il carismatico e anticonvenzionale frontman con un altissimo tasso di mimetismo - che si rafforza nel cantato, con le voci dell'attore e dello stesso Mercury combinate digitalmente per garantire la massima fedeltà all'originale. Una performance trascinante quanto le canzoni che punteggiano il film, da We Are the Champions a We Will Rock You.
Premio Oscar 2019 per il miglior attore protagonista, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro Golden Globe per il miglior film drammatico e miglior attore in film drammatico
"L'opera di Bryan Singer riesce a rendere omaggio a una star come Freddie Mercury senza santificarne né profanarne il mito. Mischiando musica e dramma, va in scena non solo il ritratto di un artista unico ma è mostrata la genesi di brani eterni. Siamo di fronte a uno spettacolo trascinante come pochi altri, capace di coinvolgere anche chi non sia un fan dei Queen e di trasmettere quasi fisicamente cosa sia il potere della musica. E' soprattutto un superlativo e mimetico Rami Malek a rendere palpabile la magia scenica che fu di Freddie Mercury. Di quest'ultimo Bohemian Rhapsody ripercorre la giovinezza in un sobborgo londinese, le incomprensioni con la famiglia d'origine, zoroastriana praticante e originaria di Zanzibar, l'incontro con il primo grande amore, Mary Austin e con gli altri che con lui formeranno i Queen: Roger Taylor alla batteria, Brian May alla chitarra solista e John Deacon al basso. Vediamo Mercury, forte di un'estensione vocale non comune e di una personalità straripante, sfidare gli stereotipi e trasformarsi in icona, portando i suoi compagni d'avventura a scalare le vette della musica mondiale col trionfo nel celebre concerto Live Aid del 1985. Ci sono, inoltre, la scoperta dell'omosessualità, la caduta nei vizi, i problemi con i discografici e l'arrivo della malattia. Bohemian Rhapsody è un'esperienza potente, in grado di destare emozioni contrastanti, quasi una sorta di gioia dolorosa: ogni volta che tocchiamo entusiasti l'infinito sulle ali di quella vocalità eccezionale, inevitabilmente ci rammentiamo che il custode di tale dono non è più tra noi." Serena Nannelli, "Il Giornale"
con Rami Malek, Lucy Boynton, Gwilym Lee, Ben Hardy
di Claudio Giovannesi, Italia/2019, 111’ | Accadde domani
Napoli 2018. Sei quindicenni vogliono fare soldi, comprare vestiti firmati e motorini nuovi. Giocano con le armi e corrono in scooter alla conquista del potere nel Rione Sanità. Con l'illusione di portare giustizia nel quartiere inseguono il bene attraverso il male. Sono come fratelli, non temono il carcere né la morte, e sanno che l'unica possibilità è giocarsi tutto, subito. Nell'incoscienza della loro età vivono in guerra e la vita criminale li porterà ad una scelta irreversibile: il sacrificio dell'amore e dell'amicizia.
Orso d'Argento per la miglior sceneggiatura al festival di Berlino 2019
"I ragazzi, la camorra: difficile schivare la retorica, il patetismo, il compiacimento, difficilissimo evitare il già visto, il già detto, lo sciacallaggio. Giovannesi, autore dell'apprezzato Fiore, ha adattato il libro di Roberto Saviano (con lo scrittore e Maurizio Braucci) prendendosi molte libertà, e avendo cura di evitare i rischi di spettacolarizzazione, le scorciatoie e le ambiguità. L'esperienza come regista di vari episodi della serie Gomorra sembra averlo vaccinato, e il suo modello sembra essere l'opposto: cioè il film di Garrone. La storia, ispirata a fatti di cronaca, racconta la scalata di una banda di adolescenti nel quartiere Sanità. La regia si mantiene nel solco di un realismo piano, senza volgarità e senza estetismi, assumendo una prospettiva interna all'ambiente, con un alone inevitabile di compassione per i ragazzi. Se in fondo non dice niente di nuovo rispetto a quanto non facesse già, la pulizia e l'onestà dello sguardo sono esemplari. Il meglio, come nei film precedenti, Giovannesi lo dà nei dettagli precisi, rivelatori, messi lì quasi senza farsene accorgere. Esemplare l'uso dei giovanissimi attori, scelti con un accorto casting, e sui quali il film sembra a tratti cucito."
Emiliano Morreale, "La Repubblica"
Vietato ai minori di 14 anni
(Italia/2019) di Marco Bellocchio (135') | Accadde domani
Un film di vendette e tradimenti su Tommaso Buscetta, "boss dei due mondi". La storia inizia con il carismatico personaggio di Cosa Nostra braccato in Brasile dai "corleonesi" di Riina e passa attraverso l'amicizia con il giudice Giovanni Falcone e la testimonianza al maxiprocesso che mise in ginocchio l'organizzazione mafiosa per concludersi, dopo le accuse al processo Andreotti, con la sua scomparsa nel 2000 a Miami, dove Buscetta morì per malattia e non per mano della mafia.
"Né eroe né mostro. Né epico né empatico. Il Buscetta che Marco Bellocchio ci ha restituito con Il traditore è il protagonista di vent'anni di storia d'Italia, quella della lotta di mafia tra Bontade e Riina e poi del processo istruito da Giovanni Falcone contro Cosa Nostra, specie di spioncino aperto su un mondo più chiacchierato che davvero conosciuto e che il regista ci restituisce con la precisione della cronaca e la forza del cinema. Affidato a un Pierfrancesco Favino di rara perfezione, unico non siciliano in un cast esemplare, capace di restituire anche nel portamento quelle origini contadine che i vestiti eleganti non potevano nascondere (e la scena in sartoria è davvero magistrale), Tommaso Buscetta non diventa mai l'ipotetico eroe che passa dai «cattivi» ai «buoni». Così come la guerra tra corleonesi e palermitani diventa solo una enumerazione di morti ammazzati, senza mai un vero squarcio di tragedia, nemmeno per chi viene ucciso senza grandi colpe.
Bellocchio evita anche di ipotizzare possibili tormenti psicologici o riflessioni moralistiche: nella sceneggiatura che ha scritto con Ludovica Rampoldi, Valia Santella e Francesco Piccolo, gli concede solo un paio di incubi a occhi aperti per concentrarsi poi sulla sua scelta di sopravvivenza. Buscetta non parla quando è arrestato in Brasile (era «il boss dei due mondi») e vogliono sapere il suo coinvolgimento nel traffico di droga, parla invece quando viene estradato in Italia perché sa che solo così può assicurarsi la protezione per sé e la sua nuova famiglia. È a questo punto che Bellocchio svela le sue vere intenzioni: raccontare prima gli incontri con Falcone (Fausto Russo Alessi) e poi le sedute del maxiprocesso come un ininterrotto gioco delle parti, una vera e propria recita teatrale dove ognuno indossa la sua maschera. Nel confronto tra Buscetta e Pippo Calò (Fabrizio Ferracane) o nelle dichiarazioni spontanee di Totuccio Contorno (Luigi Lo Cascio) al regista non interessa scegliere tra chi dice la verità e chi mente ma piuttosto osservare - evitando anche l'empatia di cui si diceva sopra - come ognuno reciti solo una parte. Senza cadere nella tentazione del pirandellismo dove tutti sembrano mentire, ma piuttosto ricostruendo una partita dove ognuno pensa di aver in mano la carta vincente (e che invece per una volta sarà solo dello Stato).
Certo, la storia dell'Italia ha dovuto attraversare altri momenti - tragici come l'attentato di Capaci, vittoriosi come l'arresto di Totò Riina, ambigui come il processo Andreotti - e Bellocchio li ricorda e li enumera. Specie nel confronto con l'avvocato Coppi (Bebo Storti), difensore di Andeotti, Buscetta perde la sicurezza e l'energia dimostrata in passato e la sua immagine ne esce molto ridimensionata, ma è proprio questo che interessava a Bellocchio: raccontare un traditore senza farne un eroe e ricordare un Paese dove i segreti da scoprire sono ancora molti."
Paolo Mereghetti, "Il Corriere della Sera"
(The Mule, USA/2018) di Clint Eastwood (116')
Earl Stone, ottantenne senza un soldo, costretto ad affrontare la chiusura anticipata della sua impresa, accetta un lavoro apparentemente semplice: deve solo guidare. Peccato che a sua insaputa l'uomo diventi un corriere della droga per un cartello messicano.
"Pubblicata dal giornalista Sam Dolnick sul New York Times Magazine del giugno 2014, la storia vera ha ispirato una sceneggiatura affidata al Nick Schenk di Gran Torino che è poi finita sulla scrivania di Clint Eastwood. Il quale a un'età (88 anni) in cui (con l'eccezione di Manoel De Oliveira) un cineasta vive di ricordi, si è assunto il doppio compito di regista (37a) e attore (70a interpretazione). Proponendosi in un ruolo di gran vecchio che molto gli somiglia per le anarchiche scelte esistenziali, a scapito degli affetti famigliari; e nel piglio politicamente scorretto. Vedi la tranquillità con cui il suo personaggio si infila nel giro della droga; vedi battute del tipo: «Mi fa piacere aiutare voi negri» o (rivolto agli scagnozzi messicani) «sembrate tutti uguali». Frasi che in bocca a un altro suonerebbero razziste; e proferite da lui fanno sorridere noi fan, forse a torto convinti che «Dirty Harry» in realtà un suo codice etico lo ha. Molto personale sebbene ispirato alla realtà, The Mule non è Gli Spietati o Million Dollar Baby; semmai è una versione minore di quell'ironico autoritratto che è Gran Torino. Parliamo di una pellicola di dieci anni fa, e però - anche se il fisico li denuncia e la tenuta del film a tratti ne risente - The Mule conserva la lineare fluidità narrativa che Clint ha ereditato dal cinema classico americano; e ogni attore, a partire dell'agente DEA Bradley Cooper, si intona con naturalezza al suo quieto e sicuro registro di regia. Curata dal trombettista cubano Arturo Sandoval, la colonna sonora è un delizioso mix di jazz e pop."
Alessandra Levantesi Kezich, "La Stampa"