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Una nuova aria per
Farinelli
Aperta a
Bologna la tomba del leggendario
cantore evirato
‘Archeomusicologia
biomedica’: principii di una scienza nuova?
di Carlo Vitali
BOLOGNA,
12 luglio. Sono suonate da poco le sei del mattino quando Don Fiorenzo Facchini,
sacerdote cattolico e professore del Dipartimento di Biologia evoluzionistica e
sperimentale dell’Università di Bologna, recita una breve preghiera sulla
stretta volta a botte già affiorante dallo scavo preliminare. Due operatori
cimiteriali iniziano a rimuovere con cautela le file dei mattoni debolmente
cementati; in pochi istanti il contenuto della fossa si svela agli occhi della
piccola schiera di studiosi, giornalisti e invitati che hanno affrontato la
levataccia. Scattano i flash; un senso
di sollievo si diffonde fra gli astanti quando la professoressa Maria Giovanna
Belcastro, dello stesso dipartimento universitario, dichiara: “uno scheletro
maschile ed uno femminile”. Il contenuto della tomba, non particolarmente
cospicua fra le tantissime accumulatesi nel corso di oltre quattro secoli entro
lo storico cimitero della Certosa bolognese, corrisponde esattamente a quanto
dichiarato dall’elegante stele neoclassica: “Carolo Broschio Farinellio” e
“Carolotta Pisania”. Ossia Farinelli, il leggendario cantore evirato,
beniamino di re e imperatori, e la sua pronipote Maria Carlotta Pisani-Broschi
in Tadolini, da lui stesso tenuta a battesimo nel 1769. Morendo ultraottantenne
nel 1850, la veneranda signora, consorte di un ufficiale dell’esercito
pontificio, dispose di essere riunita nel sepolcro a quel prozio la cui fama era
ormai un pallido ricordo nell’Italia affascinata dal giovane Verdi, ma che lei
continuava ad amare come uomo buono e generoso. A differenza, occorre
aggiungere, degli altri eredi ex sorore che ne avevano dilapidato in breve tempo la fortuna,
inclusa una cospicua collezione di opere pittoriche, strumenti musicali,
partiture e libretti.
Particolarmente amara è la
vicenda della villa che il cantante si era fatto costruire a nord della città
dall’architetto ticinese Giuseppe Lanfranchini, in un distretto suburbano che
già ospitava diversi suoi compatrioti: Gian Ludovico Quadri e la famiglia
Albertolli di Mendrisio, oltre a numerosi altri di minore fama, probabilmente
mercanti, maestri comacini e mercenari papalini dei quali la toponomastica
ricorda a tutt’oggi la presenza con una strada e un “casino” degli
Svizzeri. Accanto a quegli immigrati d’oltre Chiasso, il castrato
pugliese, naturalizzato bolognese fin dal 1732, visse l’ultimo ventennio della
sua dorata esistenza di pensionato, venerato come un’icona da visitatori
venuti dai quattro angoli d’Europa. Alla sua porta bussarono aristocratici e
dotti, semplici turisti, il ragazzo prodigio di Salisburgo accompagnato dal
padre Leopold. Per tutti aveva pronto un rinfresco, un ricordo, un’arietta
eseguita accompagnandosi da solo sulla viola da gamba o su uno dei suoi mirabili
cembali. Degradato e svuotato dagli arredi, l’edificio rimase comunque in
piedi, leggibile e facilmente restaurabile, sino al 1949, quando fu raso al
suolo in una notte per improvvida iniziativa di un industriale e nella
sostanziale inerzia delle autorità competenti.
Peggio
ancora andò all’aerea dimora collinare che Farinelli s’era scelto per il
riposo eterno: il convento dei Cappuccini di
Santa Croce, a sud della città, secolarizzato e demolito già nel 1796
all’arrivo delle truppe francesi. Per molto tempo anche il sepolcro fu dato
per disperso nella catastrofe, finché il giornalista Claudio Santini annunciò
sul “Resto del Carlino” (30 marzo 1995) che una seconda tomba sorgeva
ignorata da tutti nel cimitero comunale della Certosa. Simili traslazioni non
furono rare nell’era rivoluzionaria e napoleonica, a seguito dei nuovi
regolamenti cimiteriali imposti dall’editto di Saint-Cloud (si veda l’ode
foscoliana I Sepolcri).
Per iniziativa di Carlotta Pisani la salma ridiscese dunque il colle nel
1810, come documentato dagli atti archivistici del cimitero nonché, con
evidenza davvero marmorea, dall’epigrafe che il curioso giornalista seppe
vedere prima di tanti storici ex professo.
Nell’ultimo
decennio l’epigrafe è stata più volte trascritta e pubblicata; nel 2000 subì
un accurato restauro a cura di un pool
di soggetti pubblici e privati coordinati dal Centro Studi Farinelli, privata
società di studiosi costituitasi a Bologna solo due anni prima, ma presto
incrementata dall’adesione di soggetti francesi, tedeschi, spagnoli,
statunitensi, australiani. Ed ora, con l’ingresso in scena di un mecenate come
l’editore fiorentino Alberto Bruschi, già finanziatore dell’ambizioso
progetto di studio scientifico delle salme di 47 membri della dinastia medicea,
siamo ad un ulteriore salto di qualità. Dichiara
il professor Gino Fornaciari, direttore
della Divisione di Paleopatologia dell’Università
di Pisa
e capo dell’équipe che ha riaperto
i sepolcri granducali: “Il
tentativo di ricostruzione biologica globale, effettuato utilizzando le
tecnologie biomediche più moderne, mirerà ad ottenere il maggiore numero
possibile d’informazioni sull’ambiente, sullo stile di
vita
e sulle malattie che colpirono questo importante personaggio.
Il
primo intervento in situ, da
effettuarsi con apparecchiature portatili, prevede il rilevamento fotografico e
grafico della
deposizione,
mentre le indagini di laboratorio, da effettuarsi a Pisa, comprenderanno:
radiologia e
TAC,
istologia e, ovviamente, la paleopatologia.
Quanto
alla ricostruzione fisiognomica, tutto dipende dallo stato di conservazione del
cranio, per cui
potrà
essere presa in considerazione in un secondo tempo”.
Entro
la fine della mattinata tutti i resti sono rimossi, inventariati, racchiusi in
adeguati contenitori. Le analisi possono avere inizio. Il maestro Luigi Verdi,
segretario del Centro Studi Farinelli nonché anima organizzativa dell’evento,
può tranquillizzarsi dopo le incognite della vigilia. Lo scheletro del sublime
cantore è stato ritrovato sul lato ovest della fossa; abbastanza integro, benché
frettolosamente ammassato per far posto alla nuova inquilina. Un pezzo di
mandibola e due denti, qualche frammento cranico, ossa lunghe e inaspettatamente
poderose; si vedrà quanto ciò possa offrire sul triplice asse della ricerca
antropologica, biomedica ed archeologica. Fra le mani di Carlotta è stato
ritrovato un rosario in argento povero, forse di fattura settecentesca. Magari
un dono dello zio? Si vedrà. Oltre agli scienziati bolognesi e pisani, arriverà
anche
David Howard,
un ingegnere acustico dell’Università di York già impegnato in ricostruzioni
elettroniche della voce dei castrati. Passerà forse un anno prima che i
risultati definitivi di tante indagini siano resi noti.
E se non bastasse, ci rivela Luigi Verdi, lui ed il suo collaboratore Roberto
Martorelli tengono pronta un’altra pista: hanno da poco ritrovato la pietra
tombale di Antonio Bernacchi, castrato bolognese che di Farinelli fu prima
rivale poi buon amico, emigrò a Londra al soldo di Händel, formò una pleiade
di allievi non meno illustri fra cui il tenore mozartiano Anton Raaf, il primo
Idomeneo. Dopo lo scacco patito mesi or sono con la vana caccia al DNA
mozartiano nei tumuli di Saliburgo, questa nuova scienza, che chiameremo per
celia “archeomusicologia biomedica”, pare destinata a brillante avvenire.
Purché senza iperboli mediatiche e nel debito rispetto dei resti mortali di
fratelli e sorelle umani che tanto fecero per abbellire la nostra vita.
Da: “La
Regione Ticino”,
Bellinzona
(13.7.2006), p. 21
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