(Italia/1947) di Luigi Zampa (92')
Regia: Luigi Zampa. Soggetto: Piero Tellini, Suso Cecchi D'Amico, Luigi Zampa. Sceneggiatura: Piero Tellini, Suso Cecchi D'Amico, Luigi Zampa, Anna Magnani. Fotografia: Mario Craveri. Montaggio: Eraldo Da Roma. Scenografia: Piero Filippone. Musica: Enzo Masetti. Interpreti: Anna Magnani (Angelina Bianchi), Nando Bruno (Pasquale Bianchi), Ave Ninchi (Carmela), Ernesto Almirante (Luigi), Agnese Dubbini (Cesira), Armando Migliari (Callisto Garrone), Maria Donati (signora Garrone), Maria Grazia Francia (Annetta Bianchi), Franco Zeffirelli (Filippo Garrone). Produzione: Lux Film, Ora Film di Vittorio Mottini. Durata: 92'
Copia proveniente da Luce Cinecittà per gentile concessione di Cristaldifilm
I soggetti buoni nascono sempre dalle cose vere. Anche L'onorevole Angelina. Era il momento in cui si stava riorganizzando la vita politica e intervistammo una donna che abitava a Città Giardino, una popolana che ci raccontò che il giorno in cui non avevano distribuito il pane con la tessera aveva capeggiato tutti per occupare i fabbricati, e che tutti ora volevano portarla in Parlamento, ma lei non voleva andarci perché sapeva appena leggere e scrivere. [...]
Con Anna Magnani ho avuto una collaborazione meravigliosa. Tante volte ho inteso parlare la gente, a vanvera, del suo caratteraccio... Ma per carità! Certo era una irruenta, ma nel migliore senso della parola. Era bravissima, di una simpatia enorme, trascinante. E non è affatto vero che avesse questo carattere difficile di cui tanto si è vociferato. Certo, tutte le persone che hanno un senso preciso della realtà possono apparire dure a chi non lo ha. Tanto quanto dura può sembrare una professionista a una non professionista. E lei era una professionista, parlava da professionista e la sua bravura era immensa, ed è falso che fosse dispotica, io ci ho sempre potuto parlare, abbiamo fatto Angelina assieme, abbiamo discusso tante scene, abbiamo scelto di comune accordo la gente presa dalla vita. Insomma, io ho un ricordo magnifico di lei donna e di lei collaboratrice.
Non ci volevano costumisti, truccatori, arzigogoli speciali per fare entrare la Magnani in un personaggio. Anna era un'attrice talmente straordinaria che stabiliva e si cercava da sola quello che le occorreva per renderlo meglio, senza tante prove e riprove. Per L'onorevole Angelina, scendemmo assieme in borgata e, naturalmente, fummo circondati da un gruppo di donne che l'avevano riconosciuta. Lei ne vide una che portava un abituccio. Disse: "È quello, voglio indossare quello!". Così glielo comprammo, se lo fece lavare a casa e quando comparve sul set era Angelina sputata, era entrata nella pelle di Angelina e delle borgatare di quel giorno.
(Luigi Zampa)
Zampa parte ancora una volta da un fatto di cronaca, da un aneddoto legato a moti di protesta nelle periferia romana. Ma rappresenta una realtà sociale molto meno accomodante dei film precedenti, e molto più bruciante. In una borgata le madri di famiglia esasperate decidono una serie di azioni drastiche, violente e non, per affermare i propri diritti: avere generi alimentari senza passare attraverso il mercato nero, spostare una fermata dell'autobus, avere acqua potabile, una mensa per i figli, un tetto sicuro sotto cui dormire evitandogli allagamenti cronici in caso di pioggia. [...] Anche se tra le popolane c'è una madre che ripete sempre "Ha da veni' baffone", Zampa evita ogni coloritura ideologica. Eppure l'adesione al ribellismo proletario è incondizionata, ispirata a un senso di giustizia primigenio e preideologico, che trova motivazione anche nelle origini proletarie del regista. Girando per la prima volta in una Roma di periferia, Zampa sente una sintonia, uno slancio sentimentale che va al di là della retorica letteraria dei film precedenti. Il suo populismo non è una posa o un dogma ideologico, ma un imperativo morale.
(Alberto Pezzotta)
Versione originale con sottotitoli inglesi
(USA/1999) di David Fincher (139')
Regia: David Fincher. Soggetto: dal romanzo omonimo di Chuck Palahniuk. Sceneggiatura: Jim Uhls. Fotografia: Jeff Cronenweth. Montaggio: James Haygood. Scenografia: Alex McDowell, Chris Gorak. Musica: The Dust Brothers. Interpreti: Brad Pitt (Tyler Durden), Edward Norton (Narratore), Helena Bonham Carter (Marla Singer), Meat Loaf Aday (Robert Paulsen), Jared Leto (Faccia d'angelo), Zach Grenier (Richard Chesler), David Andrews (Thomas). Produzione: Art Linson, Ross Grayson Bell, Ceán Chaffin per Fox 2000 Pictures, New Regency Productions. Durata: 139'
Ciò che rende indiscutibilmente affascinante questo ‘pericoloso lavoro' sono le implicazioni filosofìco-esistenziali che lo corroborano. E molte sono le tracce che verificano questa tesi. La crisi di identità parte con l'insonnia: il narratore, interpretato da Edward Norton, vive uno stato di eterna veglia, non riesce a chiudere occhio, vaga contro la sua volontà negli strati più desolanti dell'esistenza umana, frequentando gruppi di assistenza per malati terminali. Il suo ‘impensato' (dimensione che dimora sotto i piani dell'incoscio) preme garantendo i presupposti per una trasformazione tutta psicologica, tutta politica. Siamo già nell'alveo del genere fantascientifico, se permettete, fantapolitico, richiamando indirettamente la lezione che Don Siegel ha impartito, con spirito prometeico, in L'invasione degli ultracorpi, dove per restare uomini e non essere ‘occupati' dallo spirito degli invasori alieni, che riproducevano esseri innocui, era necessario restare svegli, non dormire (metafora lampante della necessità di mantenere alto il giudizio critico per evitare l'omologazione morale e culturale). Il suo impensato, dunque, gli lavora dentro fino a proiettare un'altra esistenza, un'altra possibilità, un'altra identità, diversa, alternativa che pesca nelle molteplicità dell'essere umano. Ed ecco che in un viaggio di lavoro il Norton/narratore incontra, non avendone consapevolezza, la proiezione di uno dei suoi mille ‘io' che lo attraversano: Brad Pitt, eccentrico, violento, rivoluzionario. Tutto l'opposto del mite Norton, comune impiegato che un giorno non si addormentò più. Si sa che i nostri illustri filosofi, o meglio alcuni di essi, provarono in prima persona, facendo del loro corpo l'oggetto dì nuove sperimentazioni, le teorie che andavano promuovendo. Mitico rimane il racconto del viaggio che Michel Foucault fece nella Valle della Morte assumendo una pillola di Lsd, dichiarando in cima alla vallata, ai margini del parcheggio di Zabriskie Point sotto l'effetto della droga: "il cielo è esploso e le stelle mi piovono adosso. So che non è vero, ma è la Verità". La stessa dicotomia, la stessa paradossale constatazione ospita il film di Fincher, così come è stato per The Game. Il mondo, la realtà per un uomo in collisione con se stesso, anche se inconsapevolmente, diventa una proiezione allucinata, un mondo di stelle che ti piovono addosso e solo questa è la Verità, mentre la vita comune si trasforma in un'insopportabile finzione. Siamo dalle parti, per chi non se ne fosse accorto, delle ‘distopie' di Matrix, altro film geniale sulla realtà sotto la superficie.
(Dario Zonta)
Il laureato è un buon parallelo. Parlava di quel momento della vita in cui hai di fronte infinite possibilità, aspettative, ma non sai chi devi diventare. E scegli una strada, Mrs. Robison, che si rivela sbagliata, ma è comunque parte della tua iniziazione, una prova del fuoco. E poi, scegliendo la strada sbagliata, trovi la via verso quella giusta, ma hai combinato un gran casino. Fight Club è l'esatto opposto anni Novanta: un ragazzo che non ha infinite possibilità dinnanzi a sé, non ne ha proprio, letteralmente non riesce a immaginare un modo per cambiare la propria vita.
(David Fincher)
Versione originale con sottotitoli italiani
(The Silence of the Lambs, USA/1991) di Jonathan Demme (118')
Introduce Giovanni Egidio ("La Repubblica")
Regia: Jonathan Demme. Soggetto: dal romanzo omonimo di Thomas Harris. Sceneggiatura: Ted Tally. Fotografia: Tak Fujimoto. Montaggio: Craig McKay. Scenografia: Kristi Zea. Musica: Howard Shore. Interpreti: Jodie Foster (Clarice Starling), Anthony Hopkins (Hannibal Lecter), Scott Glenn (Jack Crawford), Anthony Heald (Dr. Frederick Chilton), Ted Levine (Jame Gumb/Buffalo Bill), Diane Baker (senatrice Ruth Martin), Brooke Smith (Catherine Martin), Kasi Lemmons (Ardelia Mapp), Roger Corman (Hayden Burke). Produzione: Strong Heart Productions. Durata: 130'
L'idea di girare un film violento [...] non mi attirava particolarmente - in special modo la violenza che coinvolgeva le donne. Certo, è questo lo sfondo del film, ma il film in sé è in gran parte la lotta eroica da parte di Clarice Starling per cercare di salvare una vita, e questo mi prese subito. [...] Decidemmo di concentrarci sulla capacità della ripresa soggettiva di forzare l'identificazione con il personaggio. Usare il procedimento serviva non solo per creare un'enfasi particolare, ma per aggiungere quel tipo di enfasi a tutto quello che vedeva Clarice.
(Jonathan Demme)
Si esce inquieti da Il silenzio degli innocenti, inquieti e turbati. Come se un sottile bisturi affilato avesse tagliato qua e là il sistema di difese immunitarie del nostro sguardo. Come se uno sguardo magnetico e ‘malsano' ci avesse obbligato a un prolungato e devastante controcampo. O come se un moderno Baudelaire del cinema, alle prese con lo spleen della visione, ci avesse obbligato a riconoscerci, fino in fondo, hypocrites spectateurs: sedotti, ammaliati, complici. Affascinati, ma quasi a disagio per la fascinazione subita. [...] Tutto primi piani ravvicinati e soggettive sinuose, con inquadrature che sembrano volersi attaccare agli angoli degli occhi dei personaggi, Il silenzio degli innocenti regala salutari lezioni sul rapporto tra desiderio e sguardo, sulla follia di ogni manicheismo e sull'incontenibile fascino del male. [...] Demme fa del Silenzio degli innocenti un saggio ‘terminale' sulla miseria del nostro desiderare, sulla brutale meccanicità del rapporto tra desiderio e sguardo.
(Gianni Canova)
Gli occhi di Clarice e Lecter, nei campi/controcampi dei loro colloqui, sono pericolosamente vicini dal guardare in macchina, cioè dal guardare direttamente nei nostri occhi, dal coinvolgerci come parti in causa. [...] È ovvio che Demme lavori magnificamente su queste psicologie al confine e sui loro alter ego, sui poliziotti che risolvono i casi perché capaci di mettersi in sintonia, contro ogni regola del buon senso e dell'autoconservazione, con le menti che ormai hanno superato ogni limite. Tutto il suo cinema è costruito sulle esplosioni dell'inconscio, sul cambiamento repentino con il quale un personaggio si trova improvvisamente a fare i conti. [...] Diventa ovvia perciò anche l'attenzione riservata da tutti a Hannibal Lecter. Non si tratta solo di un pezzo di bravura stupefacente di Anthony Hopkins, o della solita attrazione catartica per il personaggio violento. Il fatto è che il dottor Lecter, analizzando Clarice, gli altri maniaci e i poliziotti, analizza anche noi, i nostri silenzi, i nostri compromessi, la rabbia che abbiamo in corpo, ma che, civilmente o opportunisticamente, non sfoghiamo. Lecter, Lilly Dillon, lo straripante e indistruttibile Albert Finney di Il crocevia della morte, e la furibonda Kathy Bates di Misery non sono proiezioni liberatorie (non sono Norman Bates di Psyco), ma gli unici eroi possibili di una civiltà feroce e silenziosa, dove ‘passare il limite' rischia di essere l'unica maniera di rivendicare la propria libertà morale.
(Emanuela Martini)
Versione originale con sottotitoli italiani
(Italia/1983) di Carlo Vanzina (94')
Precede un videomessaggio di Enrico Vanzina
Regia: Carlo Vanzina. Sceneggiatura: Carlo Vanzina, Enrico Vanzina. Fotografia: Beppe Maccari. Montaggio: Raimondo Crociani. Scenografia: Fiorenzo Senese. Musica: Edoardo Vianello, Mariano Perella. Interpreti: Virna Lisi (Adriana), Jerry Calà (Luca), Christian De Sica (Felicino), Marina Suma (Marina), Karina Huff (Susan), Angelo Cannavacciuolo (Paolo), Isabella Ferrari (Selvaggia), Enrico Antonelli (Morino, il bagnino), Ugo Bologna (signor Carraro), Edoardo Vianello (se stesso). Produzione: International Dean Film. Durata: 94'
Amori che vanno, amori che vengono su una spiaggia versiliana, nell'estate del 1963. Li tiene insieme una voce narrante che già sa come andranno a finire le cose, e sparge tutt'intorno "un gusto un po' amaro / di cose perdute". Quel gusto è ciò che colloca Sapore di mare così nettamente al di sopra di qualsiasi commedia vacanziera a venire, anche dei titoli ancora padroneggiati dalla regia di Carlo e dalle mai banali sceneggiature di Enrico Vanzina, prima insomma della sfiancante routine turistico-bassocomica degli ultimi vent'anni. Quel gusto è ciò che aggancia il "cult straclassico dei Vanzina" alla familiare nobiltà della commedia all'italiana: "Oggi siamo tutti costretti ad ammettere che era una commedia riuscita in perfetto stile risiano, con storie credibili e musiche perfette" (Marco Giusti).
Sapore di mare esce nel 1983 e lo strillo recita: "Ritornano i favolosi anni Sessanta". Dunque, è anche il nostro American Graffiti, e il confronto la dice lunga su chi siamo; forse quel che negli stessi anni, fustigando la nostra immaturità culturale, Arbasino chiamava "un paese senza": nel nostro caso, senza un tessuto mitologico di riferimento, e senza il Vietnam a fare da spartiacque generazionale. Però a questi ragazzi e ragazze (più un bel ritratto di signora) che s'incrociano, ricchi e poveri, timidi o sguaiati, lungo gli snodi di una sceneggiatura luminosa, e capace di voler bene ai suoi personaggi pur ridendo di loro, non sono negati i momenti di verità. Il finale ("vent'anni dopo") s'impone alla memoria per la malinconia quasi commovente. Ma è un'inquadratura soprattutto a meritarsi l'applauso. Sono tornati da una piccola bravata in mare, hanno corso qualche rischio. La cinepresa scorre i loro volti bagnati di pioggia, lo sguardo è in macchina, improvvisamente ogni risata è spenta, sembrano osservare con apprensione qualcosa che è forse è il loro futuro, scenario di modesti fallimenti o di risibili successi, e che tuttavia permetterà almeno una volta, ormai inutilmente, di trovare la cosa giusta da fare, la cosa giusta da dire ("sei sempre la più bella"). Intanto Mina canta Un anno d'amore.
Il songbook è formidabile, nulla da invidiare ad American Graffiti. Christian De Sica fa gustose prove generali d'un personaggio che poi replicherà infinite volte. Virna Lisi risplende nei suoi quarant'anni biondi e abbronzati. Uno dei due marchesini Pucci diventerà l'usciere di Bruno Vespa a Porta a Porta. E intanto Sapore di mare, pur rimanendo (e che sempre lo rimanga) un delizioso guilty pleasure, è diventato senza dar nell'occhio un piccolo classico della commedia italiana.
(Paola Cristalli)
Dopo i film comici con i Gatti di vicolo Miracoli, Pozzetto e Abatantuono, sentivo che avevo voglia di fare qualcosa di diverso, così con mio fratello decidemmo di raccontare in modo un po' autobiografico ma anche divertito le nostre vacanze degli anni Sessanta. Fu girato in economia, recuperando le vecchie magliette Fred Perry e Lacoste a via Sannio e ricostruendo la Versilia a Fregene. Il film rappresentò una svolta nella nostra carriera perché cominciammo a rappresentare i divertimenti, i riti, i vizi e le virtù della borghesia, trasformando la cosa in una costante del nostro cinema. Accanto allo spunto autobiografico, Sapore di mare nasce anche dalla voglia di rimpaginare il cinema dei giovani ‘poveri ma belli', di Racconti d'estate e Vacanze d'inverno, che a noi piaceva tanto. Un'anima cinefila, che voleva riproporre queste storie che avevano avuto grande successo vent'anni prima e che, stranamente, funzionarono ancora.
(Carlo Vanzina)
Versione originale con sottotitoli inglesi
(Italia-Francia/2018) di Matteo Garrone (103')
Introduce Matteo Garrone
Introduce Matteo Garrone
Regia: Matteo Garrone. Fotografia: Nicolaj Bruel. Montaggio: Marco Spoletini. Scenografia: Dimitri Capuani. Musica: Michele Braga. Interpreti: Marcello Fonte (Marcello), Edoardo Pesce (Simone), Alida Baldari Calabria (Alida), Nunzia Schiano (madre di Simone), Adamo Dionisi (Franco), Francesco Acquaroli (Francesco), Gianluca Gobbi (commerciante del quartiere), Aniello Arena (commissario di polizia). Produzione: Archimede, Le Pacte. Durata: 103'
Dogman è un film che si ispira liberamente ad un fatto di cronaca nera accaduto trent'anni fa, ma che non vuole in alcun modo ricostruire i fatti come si dice che siano avvenuti. Ho iniziato a lavorare alla sceneggiatura dodici anni fa: nel corso del tempo l'ho ripresa in mano tante volte, cercando di adattarla ai miei cambiamenti. Finalmente, un anno fa, l'incontro con il protagonista del film, Marcello Fonte, con la sua umanità, ha chiarito dentro di me come affrontare una materia così cupa e violenta, e il personaggio che volevo raccontare: un uomo che, nel tentativo di riscattarsi dopo una vita di umiliazioni, si illude di aver liberato non solo se stesso, ma anche il proprio quartiere e forse persino il mondo. Che invece rimane sempre uguale, e quasi indifferente.
(Matteo Garrone)
Chi cerca la morbosità resterà deluso. Dogman è una fiaba nera angosciante, cupissima, in cui il compiacimento è evitato grazie a una dote primaria, che Garrone possiede in sommo grado: il trasporto sensuale per ogni ambiente osservato, fosse pure il più abbrutito; la promiscuità con cui aderisce ai propri personaggi. La cosa sorprendente del film è proprio l'amore del regista per i suoi personaggi, mai guardati dall'alto in basso; a cominciare dal protagonista, che alla fine, nella sua miseria, è quasi un paradossale Cristo di oggi, capro espiatorio di colpe altrui che all'inizio fa in pratica resuscitare un cadavere (non diciamo altro), e che alla fine trascina sulle spalle un peso sovrumano in una specie di via crucis. [...] La regia inchioda in maniera quasi soffocante, aderendo perfettamente al racconto, senza una sola scelta banale e senza esibizionismi. Con il suo sorriso mite e quasi ebete, e con un romanesco parlato con accento calabrese, l'uomo dei cani Marcello Fonte è indimenticabile, è il film stesso. Intorno a lui un coro di personaggi definiti con pochi tocchi, grazie anche a un cast impeccabile: Garrone (non lo si dice mai) è anche un grande direttore d'attori.
(Emiliano Morreale)
Dogman è un film comico. Eppure non fa ridere, anzi ci lascia in uno stato di compassione e solitudine. Sosteniamo questa interpretazione per l'evidente parentela che Matteo Garrone e i suoi sceneggiatori hanno tracciato con la tradizione comica: non solo Marcello Fonte, lo strepitoso attore protagonista, ha il volto e la malinconia di Buster Keaton e Pierre Étaix, con qualche ombra di Jacques Tati, ma molte sequenze del film sembrano ribaltare i luoghi comuni della farsa in tragedia. [...] Da qui la profonda malinconia di Dogman. Questo raffinato accostamento artistico, invece che stridere o mettere in crisi lo spettatore con controsensi o straniamenti, altro non fa che rivelare la profonda umanità dei personaggi in scena, e del canaro in particolare.
Circondato da freak non meno pittoreschi di lui (il casting deve essere stato uno spasso, basti vedere la sequenza in galera), Marcello diventa sempre più solo, abbandonato anche dai pochi amici che aveva, e ormai circondato dalla sola compagnia dei cani e della figlia. Il comico nasconde sempre - come Chaplin insegna - un'anima melodrammatica basata sull'empatia e il compatimento, che Garrone dosa in maniera esemplare consegnando il film al suo attore principale.
Ne esce un racconto di emarginazione e pena assolute, che aveva bisogno di un timbro narrativo limpidissimo per non precipitare nel dimostrativo, nel morboso o nell'autocompiaciuto. Rischio sventato, grazie a una prova di cinema allo stato puro.
(Roy Menarini)
Versione originale con sottotitoli inglesi
(USA/1995) di Jim Jarmusch (121')
Regia, soggetto e sceneggiatura: Jim Jarmusch. Fotografia. Robby Müller. Montaggio: Jay Rabinowitz. Scenografia: Bob Ziembicki. Musica: Neil Young. Interpreti: Johnny Depp (William Blake), Gary Farmer (Nessuno), Robert Mitchum (John Dickinson), Lance Henriksen (Cole Wilson), Michael Wincott (Conway Twill), Mili Avital (Thel Russell), Iggy Pop (Salvatore ‘Sally' Jenko), Crispin Glover (il pompiere), Eugene Byrd (Johnny ‘The Kid' Pickett), Billy Bob Thornton (Big George Drakoulious), John Hurt (John Scholfield), Gabriel Byrne (Charlie Dickinson). Produzione: Demetra J. MacBride per Pandora Filmproduktion, JVC Entertainment Networks, Newmarket Capital Group, 12 Gauge Productions. Durata: 120'
Dead Man rappresenta un nuovo inizio per Jarmusch, un salto di qualità nello stile e nel contenuto. La visione dell'America che qui offre è più cupa e assai più spaventosa che nei suoi cinque film precedenti. Anche se il film è ambientato nel tardo Ottocento (è la prima incursione di Jarmusch nel film in costume), la critica all'America degli anni Novanta non potrebbe essere più acuta - e fosca, tanto da mettere a disagio alcuni spettatori. L'approccio meticolosamente documentato e sfaccettato di Jarmusch alla cultura dei nativi americani - che rispetta senza trattare con condiscendenza, senza idealizzare o semplificare - è messo in contrasto con il ritratto agghiacciante dell'America bianca, un mondo primitivo e anarchico di spietati cacciatori di taglie, folli cacciatori di pellicce, e in generale burberi individui che considerano ogni straniero come un'opportunità per fare soldi o un oggetto da spolpare. Quasi tutto quello che apprendiamo sulla vita di Nessuno deriva dalle acute ricerche di Jarmusch sulla cultura dei nativi americani, quello che vediamo dell'America bianca deriva dalla sua ricerca, dalla sua visione poetica e dal suo umorismo macabro [...]. Jarmusch ha affermato che il ritmo lento, bizzarro del film - ipnotico se ne siete catturati come me, probabilmente intollerabile se non lo siete - è stato influenzato dal cinema classico giapponese di Kenji Mizoguchi e Akira Kurosawa. Sembra riferirsi alla tendenza delle scene ad esistere separatamente le une dalle altre, come fossero unità complete, come perle su un filo, e non come elementi complementari uniti insieme per suggerire una continuità ininterrotta: in questo senso il nero tra le sequenze funziona come gli spazi vuoti tra le strofe di un poema epico. E i battiti intermittenti, tintinnati della musica di Neil Young - l'unico elemento inequivocabilmente novecentesco in una storia ottocentesca - a volte richiamano la musica e le percussioni giapponesi di alcuni film di Mizoguchi e Kurosawa. [...]
Per tanti motivi Dead Man può essere considerato il compimento di un sogno della controcultura, l'‘acid western'. [...] Stravolgendo le normali regole del western per mostrarci dove ci troviamo oggi, Dead Man è più emozionante e più importante di ogni altro film americano degli anni Novanta.
(Jonathan Rosenbaum)
Nel cinema americano ci sono sempre due modelli di indiano: quello assetato di sangue, che ti vuole scotennare col tomahawk. È il selvaggio che bisogna eliminare. Oppure quello di Piccolo grande uomo, vale a dire l'indiano in perfetta armonia con la natura, pacifista, umanista. Questi due modelli mi sembrano erronei. Io ho voluto fare di Nessuno, l'indiano, un essere umano complesso. È rifiutato dai suoi perché ha ricevuto un'educazione all'europea, e così erra smarrito alla stregua di Blake. Non volevo che la cultura degli indiani fosse mostrata in maniera tutta positiva o tutta negativa. È per questo che ho fatto di Nessuno un personaggio nevrotico e complicato. Gli indiani che ho potuto incontrare spiegano tale condizione con un'immagine: tenere un piede dentro a una canoa. È una situazione di squilibrio che li può far cadere in acqua in ogni momento. E non vi si possono sottrarre.
(Jim Jarmusch)
Versione originale con sottotitoli italiani
(Canada/2018) di Jennifer Baichwal, Edward Burtynsky e Nicolas de Pencier (87')
In collaborazione con MAST
Introducono il giornalista Michele Smargiassi e i distributori del film Michele Crocchiola (Fondazione Stensen) e Alessandro Tiberio (Valmyn)
In collaborazione con MAST
Sembra che i nostri film continuino ad avere ambizioni sempre più grandi. Non so se ciò sia dovuto al fatto che invecchiare porti naturalmente a una prospettiva più globale o se lo richieda l'urgenza dei problemi che affrontiamo. Per Anthropocene - L'epoca umana dovevamo essere in sei dei sette continenti, visitare venti paesi e quarantatré luoghi diversi. Ho imparato che questi "grandi affreschi" rischiano di andare in pezzi se non si trova un equilibrio tra guardare le cose in scala e avvicinarsi ai dettagli. A volte devi salire in cielo per abbracciare interamente e poter raccontare un luogo, ma se rimani lassù tutto il tempo rischi di allontanarti da ciò che è davvero importante. Penso che gli umani non siano fatti per rimanere a un livello onnisciente, anche se ci piace contemplare le cose dall'alto e la tecnologia (elicotteri, droni, immagini satellitari) ci consente di farlo. È nella relazione tra scala e dettaglio che il nostro lavoro e quello di Edward Burtynsky si incontrano.
Anthropocene - L'epoca umana è il terzo capitolo di una trilogia iniziata nel 2005. Il primo è stato Manufactured Landscapes e prendeva le mosse dal saggio fotografico di Burtynsky sulla rivoluzione industriale in Cina. [...] In Watermark abbiamo cercato di prendere l'idea dell'interazione umana con l'acqua ed esplorare ogni aspetto dell'utilizzo che ne facciamo: sopravvivenza e necessità quotidiane, industriali, ricreative, religiose. [...] Anthropocene - L'epoca umana fa già nella sua premessa un passo avanti rispetto agli altri due film, prendendo spunto dalla ricerca del gruppo di lavoro Anthropocene: secondo loro gli esseri umani cambiano la Terra e i suoi sistemi più di tutti i processi naturali. Il film ha richiesto una prospettiva globale per evidenziare il fatto che noi umani, che in realtà siamo attivi nella moderna civiltà da circa diecimila anni, dominiamo completamente un pianeta che esiste da oltre 4,5 miliardi di anni. Come trasmettere agli spettatori questa dominazione? Anche qui era allettante rimanere nel regno del grande; l'onnisciente. La prospettiva aerea - tramite elicottero e cineflix o droni - è presente lungo tutto il film, e talvolta è l'unico modo in cui vivi un luogo: le miniere di fosfato in Florida, per esempio, o le raffinerie di petrolio a Houston, in Texas. Ma quando tutto è grande o molto lontano e schematico, la scala diventa incomprensibile. Un timelapse di un piccolo pezzo di corallo sbiancato racconta la storia dell'acidificazione oceanica antropogenica e le zanne di settemila elefanti, ciascuna attentamente pesata e registrata, diventa il modo per comprendere l'estinzione diretta dall'uomo.
Abbiamo cercato di ottenere la massima risoluzione, anche in ambienti difficili, e utilizzato la più innovativa tecnologia disponibile con il nostro budget. Ma il film cerca anche momenti di vicinanza - il dettaglio necessario per rivelare, comprendere o incoraggiare l'empatia. È qui che l'etica del coinvolgimento è fondamentale, anzi di più, direi che l'etica è la dimensione più importante della nostra pratica cinematografica. Quando vai in tutto il mondo per il tuo progetto, è fondamentale cercare di farlo con umiltà e apertura a ciò che il contesto vuole dirti di se stesso, in particolare i suoi margini trascurati o angoli ignorati.
(Jennifer Baichwal)
Il film è parte del progetto multimediale Anthropocene (presso MAST, Bologna, fino al 6 ottobre 2019)
Versione originale con sottotitoli
Introduce Alice Rohrwacher
Regia, soggetto e sceneggiatura: Alice Rohrwacher. Fotografia. Hélène Louvart. Montaggio: Nelly Quettier. Scenografia: Emita Frigato. Musica: Piero Crucitti. Interpreti: Adriano Tardiolo (Lazzaro), Agnese Graziani (Antonia giovane), Alba Rohrwacher (Antonia adulta), Luca Chikovani (Tancredi giovane), Tommaso Ragno (Tancredi adulto), Sergi Lopez (Ultimo), Natalino Balasso (Nicola), Nicoletta Braschi (marchesa Alfonsina De Luna). Produzione: Tempesta Film, Amka Films Productions, Ad Vitam, Pola Pandora Film Produktion. Durata: 130'
Lazzaro Felice è la storia di una piccola santità senza miracoli, senza superpoteri o effetti speciali: la santità dello stare al mondo, e di non pensare male di nessuno, ma semplicemente di credere negli altri esseri umani. Racconta la possibilità della bontà, che gli uomini da sempre ignorano, ma che si ripresenta e li interroga con un sorriso, come qualcosa che poteva essere e non abbiamo voluto.
(Alice Rohrwacher)
Lazzaro Felice è uno dei film più belli e unici che abbia visto quest'anno, Alice Rohrwacher è una cineasta di raro talento che, con questo film, consolida la sua posizione nel mondo del cinema. Alice fonde magistralmente passato e presente, usando le pagine della storia per mostrarci le contraddizioni dell'umanità.
(Martin Scorsese)
La miseria porta miseria, l'abbandono porta violenza, l'assenza o improbabilità di proposte positive porta alla pervasività del male, alla sua esplosione [...] in un paese che non ha più una morale sociale e neanche individuale, né può più averne senza l'aiuto di una politica che sia anche pedagogia, una chiarificazione che nasce dalla rivolta dei veri buoni (lucidi, consapevoli, non ruffiani), non dall'accettazione delle regole del gioco capitalistico da parte dei finti.
Di tutto questo si rende ben conto Alice Rohrwacher in Lazzaro felice. Il suo film ci si presenta nella chiave di un realismo poetico che ha alle spalle una grande tradizione, il Tolstoj dei ‘libri di lettura' per bambini e per contadini. Al medioevo dello sfruttamento padronale, borghese e semischiavistico dei contadini - la maggioranza della popolazione italiana fino agli anni Sessanta del Novecento, gli anni che hanno cresciuto la generazione oggi al comando, la generazione miracolata - è seguito il nuovo medioevo della civiltà del benessere (e delle banche), come diceva Elsa Morante in polemica coi sogni pasoliniani del passato. Era, questo passato, quello per il quale Carlo Levi poteva parlare di "un volto che ci somiglia" (ci somigliava). Mentre oggi, troppo spesso, è difficile riconoscerci nei volti o non-volti o maschere prodotti dalla mutazione, frutto delle nuovissime manifestazioni del potere.
Tra ieri e oggi, Lazzaro è un diverso, ingenuo ma puro, che sa amare il prossimo e la natura, e sa infine reagire all'ingiustizia che lo circonda (le banche!), grazie all'esperienza che gli deriva dalla migrazione nella modernità o post-modernità. L'antica leggenda di Rip van Winkle o del pastore Aligi rivive nello spostamento temporale, nel disadattamento che ne consegue, ma il puro folle resta comunque il più saggio, anche se rischia spesso di diventare un capro espiatorio. La natura, sembra dirci il finale, è comunque più forte, la bestia sopravviverà.
(Goffedro Fofi)
Versione italiana con sottotitoli inglesi
concerto
Concerto di Siamak Guran, tambûr, setâr, voce; Marco Felicioni, flauto traverso, bansuri, dizi, mocseno, ney, pinquillo, quena, ryuteki, xiao, xun; Pino Petraccia, percussioni; Walter Gaeta, pianoforte.
Questo viaggio lungo le antiche sonorità delle terre attraversate dalle “vie della seta” nasce dall’incontro di tre grandi interpreti italiani delle musiche tradizionali dell’Asia Centrale con il musicista Siamak Guran, nato nal Kurdistan iraniano ma da diversi anni in esilio in Italia e virtuoso del tambûr, il liuto a tre corde tipico della tradizione pre-islamica dello Yarsan.
Da martedì 16 luglio è possibile prenotare i biglietti (con pagamento il giorno dell’evento) sul sito museibologna.it/musica.
Ingresso € 10,00 (€ 8,00 studenti universitari, minori di anni 18)
Dal 29 aprile al 15 settembre
Gli ingredienti della rassegna Corti, Chiese e Cortili, che quest’anno giunge alla 33esima edizione, sono semplici, ma potenti: proposte concertistiche di alto livello nei luoghi più suggestivi delle terre di mezzo tra Bologna e Modena insieme a percorsi guidati, aperitivi, degustazioni e conferenze che completano l’esperienza rendendola unica e appagante per tutti i sensi.
Il filo conduttore di questa stagione è il "dialogo": tra la musica antica e la musica contemporanea, tra musicisti e danzatori, tra autori affermati e giovani e, come sempre, tra musica e territorio.
Tante le nuove uscite discografiche presentate in cartellone: Massimo Volume (Il nuotatore, 5 luglio a Calcara), Dallahan (19 luglio a Crespellano), As Madalenas (Vai Menina, 24 agosto a Zola Predosa), Lisa Manara (L’urlo dell’africanità, 8 settembre a Bazzano), i concerti con brani inediti in prima esecuzione (Maria Irene Calamosca e Alicia Galli) e gli spettacoli in anteprima nazionale.
Come ormai da tradizione, andrà in scena un’opera antica di rara esecuzione eseguita dai vincitori del concorso "Corti chiese e cortili encore": La Catena di Adone di Domenico Mazzocchi, a Palazzo Stagni di Crespellano, il 6 settembre.
Una nuova produzione, invece, nel campo della musica contemporanea insieme al Papalam! ensemble e a DNA Compagnia di Danza contemporanea, il 12 luglio, a Ca’ La Ghironda (Zola Predosa).
Da un’idea del direttore artistico Enrico Bernardi, l’oratorio di San Francesco in Confortino di Crespellano il 21 luglio ospiterà PlayBach, un omaggio a Jacques Loussier, compositore e pianista francese, recentemente scomparso.
Tanti i concerti dedicati alla musica classica, come sempre, e grande spazio ai giovani artisti, con molti vincitori di prestigiosi concorsi musicali nazionali e internazionali.
Il territorio in cui quasi per più di quattro mesi viaggia la rassegna è, insieme alla musica, il pilastro di questa manifestazione fin dalle sue origini. Accanto al ritorno di molte storiche location, fanno il loro esordio sul cartellone il salone delle feste di Colle Ameno, a Sasso Marconi e la Chiesa di Oliveto
Ritornano dopo qualche anno di assenza il Teatro Comunale Laura Betti di Casalecchio e la Piazza XV agosto di Savigno.
Per godere al meglio dell’esperienza del concerto fuori porta tornano anche visite guidate, camminate, degustazioni. Si rinnova inoltre l’esperienza di Cib’Arie in collaborazione con i ristoratori e i produttori di ViviValsamoggia accanto anche a momenti di approfondimento e preparazione ai concerti per il pubblico a cura di Teresio Testa, storico ideatore e fondatore della rassegna.
L’ingresso ai concerti è a offerta libera ad accezione delle seguenti date: 29/4, 8/7, 12/7, 21/7, 23/8, 6/9.
PER INFO: Tel. 051 836426/05; email: cortichiesecortili@roccadeibentivoglio.it
(Italia/2017) di Gianni Amelio (108')
Introduce Gianni Amelio
Regia: Gianni Amelio. Soggetto: Gianni Amelio, Alberto Taraglio, Chiara Valerio, dal romanzo La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone. Sceneggiatura: Gianni Amelio, Alberto Taraglio. Fotografia: Luca Bigazzi. Montaggio: Simona Paggi. Scenografia: Giancarlo Basili. Musica: Franco Piersanti. Interpreti: Elio Germano (Fabio), Giovanna Mezzogiorno (Elena), Micaela Ramazzotti (Michela), Greta Scacchi (Aurora), Renato Carpentieri (Lorenzo), Arturo Muselli (Saverio), Giuseppe Zeno (Giulio), Maria Nazionale (Rossana). Produzione: Pepito Produzioni. Durata: 103'
Dopo tutta una carriera in cui si era confrontato con la realtà intorno a lui (le ultime regie erano addirittura documentari), Gianni Amelio si ripiega un po' a sorpresa sul privato, come alla ricerca di risposte (e di domande) che fino a poco tempo fa sembravano star fuori dal suo cinema. [...] Costruito intorno al volto austero e ispido di Renato Carpentieri, l'avvocato Lorenzo Bonsignore passa le sue giornate ‘consumando le scarpe' tra i vicoli della sua Napoli: ha abbandonato la professione (di cui scopriremo non è stato integerrimo rappresentante) e dopo la morte della moglie ha di fatto chiuso i ponti anche coi figli, Saverio (Arturo Muselli) e soprattutto Elena (Giovanna Mezzogiorno) [...]. A far capire che forse le cose possono cambiare sarà l'arrivo, nell'appartamento confinante a quello di Lorenzo, di una coppia del Nord, lui ingegnere navale controvoglia (Elio Germano), lei affettuosa madre di due bambini (Micaela Ramazzotti) che finirà per invadere e scardinare il muro difensivo che l'avvocato si è costruito intorno. [...] Le cose precipitano quando un tragico fatto mette Lorenzo di fronte alla morte, costringendolo a fare i conti con quel legame - di affetto? di protezione? di sostegno? - che legandolo ai vicini sembrava capace di riempigli la vita e le giornate. Ma è proprio qui che Amelio (che si è liberamente ispirato al romanzo La tentazione di essere felice di Lorenzo Marone, sceneggiato insieme a Alberto Taraglio) ci sorprende, perché neppure il dolore sembra capace di cambiare davvero il cuore di Lorenzo. Ci si poteva aspettare un melodramma, almeno a questo punto del film, e invece la tenerezza del titolo continua a essere qualcosa di irraggiungibile, comunque estranea all'animo del protagonista. Non è certo una scelta scontata, nemmeno dal punto di vista narrativo. [...] Il fascino e la forza del film sono soprattutto qui, nell'accettazione silenziosa di un'aridità che Lorenzo ha finito come per trovarsi addosso, forse senza sapere perché e che però accetta ineluttabilmente, come una condanna del destino.
(Paolo Mereghetti)
C'erano [nel romanzo di Marone] delle possibilità che mi sarebbe piaciuto sperimentare. La prima è ambientare un film a Napoli. Napoli come parte del racconto, non come cornice. Poi la voglia di parlare di un uomo della mia età e di mettermi in gioco con qualche stimolo privato. [...] Ma la cosa più importante è stata la possibilità di scegliermi gli attori giusti e mettere in atto la parte più interessante del mio lavoro, cioè dirigerli a modo mio, creando una complicità e un'intimità che coinvolge la persona, non solo l'interprete. [...] Il film è nato sugli attori prima ancora che sulla storia. Ho plasmato, se si può dire, i caratteri partendo da loro, dopo che li ho conosciuti.
(Gianni Amelio)
Versione originale con sottotitoli inglesi
(Italia/2017) di Gianni Amelio (108')
Introduce Gianni Amelio
Regia: Gianni Amelio. Soggetto: Gianni Amelio, Alberto Taraglio, Chiara Valerio, dal romanzo La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone. Sceneggiatura: Gianni Amelio, Alberto Taraglio. Fotografia: Luca Bigazzi. Montaggio: Simona Paggi. Scenografia: Giancarlo Basili. Musica: Franco Piersanti. Interpreti: Elio Germano (Fabio), Giovanna Mezzogiorno (Elena), Micaela Ramazzotti (Michela), Greta Scacchi (Aurora), Renato Carpentieri (Lorenzo), Arturo Muselli (Saverio), Giuseppe Zeno (Giulio), Maria Nazionale (Rossana). Produzione: Pepito Produzioni. Durata: 103'
Dopo tutta una carriera in cui si era confrontato con la realtà intorno a lui (le ultime regie erano addirittura documentari), Gianni Amelio si ripiega un po' a sorpresa sul privato, come alla ricerca di risposte (e di domande) che fino a poco tempo fa sembravano star fuori dal suo cinema. [...] Costruito intorno al volto austero e ispido di Renato Carpentieri, l'avvocato Lorenzo Bonsignore passa le sue giornate ‘consumando le scarpe' tra i vicoli della sua Napoli: ha abbandonato la professione (di cui scopriremo non è stato integerrimo rappresentante) e dopo la morte della moglie ha di fatto chiuso i ponti anche coi figli, Saverio (Arturo Muselli) e soprattutto Elena (Giovanna Mezzogiorno) [...]. A far capire che forse le cose possono cambiare sarà l'arrivo, nell'appartamento confinante a quello di Lorenzo, di una coppia del Nord, lui ingegnere navale controvoglia (Elio Germano), lei affettuosa madre di due bambini (Micaela Ramazzotti) che finirà per invadere e scardinare il muro difensivo che l'avvocato si è costruito intorno. [...] Le cose precipitano quando un tragico fatto mette Lorenzo di fronte alla morte, costringendolo a fare i conti con quel legame - di affetto? di protezione? di sostegno? - che legandolo ai vicini sembrava capace di riempigli la vita e le giornate. Ma è proprio qui che Amelio (che si è liberamente ispirato al romanzo La tentazione di essere felice di Lorenzo Marone, sceneggiato insieme a Alberto Taraglio) ci sorprende, perché neppure il dolore sembra capace di cambiare davvero il cuore di Lorenzo. Ci si poteva aspettare un melodramma, almeno a questo punto del film, e invece la tenerezza del titolo continua a essere qualcosa di irraggiungibile, comunque estranea all'animo del protagonista. Non è certo una scelta scontata, nemmeno dal punto di vista narrativo. [...] Il fascino e la forza del film sono soprattutto qui, nell'accettazione silenziosa di un'aridità che Lorenzo ha finito come per trovarsi addosso, forse senza sapere perché e che però accetta ineluttabilmente, come una condanna del destino.
(Paolo Mereghetti)
C'erano [nel romanzo di Marone] delle possibilità che mi sarebbe piaciuto sperimentare. La prima è ambientare un film a Napoli. Napoli come parte del racconto, non come cornice. Poi la voglia di parlare di un uomo della mia età e di mettermi in gioco con qualche stimolo privato. [...] Ma la cosa più importante è stata la possibilità di scegliermi gli attori giusti e mettere in atto la parte più interessante del mio lavoro, cioè dirigerli a modo mio, creando una complicità e un'intimità che coinvolge la persona, non solo l'interprete. [...] Il film è nato sugli attori prima ancora che sulla storia. Ho plasmato, se si può dire, i caratteri partendo da loro, dopo che li ho conosciuti.
(Gianni Amelio)
Versione originale con sottotitoli inglesi
Versione originale con sottotitoli
(Italia/1993) di Pupi Avati (95')
Introducono Antonio e Pupi Avati
Introducono Antonio e Pupi Avati
Regia, soggetto e sceneggiatura: Pupi Avati. Fotografia: Cesare Bastelli. Montaggio: Amedeo Salfa. Scenografia: Giuseppe Pirrotta. Musica: Riz Ortolani. Interpreti: Luigi Diberti (Signore di Malfole), Arnaldo Ninchi (Folco), Massimo Bellinzoni (Baino), Dalia Lahav (Roza), Lorella Morlotti (Venturina), Massimo Sarchielli (padre di Margherita), Brizio Montinaro (Signore di Campodose), Vincenzo Crocitti (Agnello), Nando Gazzolo (voce narrante). Produzione: DueA Film, Istituto Luce-Italnoleggio Cinematografico, Penta Film. Durata: 95'
A un certo punto della mia vita mi sono sentito pronto per realizzare un film che ponesse al centro del racconto proprio la trascendenza. Leggevo da anni testi, soprattutto di storici francesi, sull'Alto Medioevo, trovandovi non solo un sentire religioso e un'idea del sacro straordinariamente simili ai miei, ma anche inaspettati dettagli del vivere quotidiano, delle pratiche di guerra, del costume, dell'arte... Mi documento con voracità e lo faccio con un approccio che mi verrebbe da definire ‘rosselliniano', pensando a quel Rossellini che ha dedicato gli ultimi decenni della sua vita alla didattica: si acculturava, scopriva una cosa e doveva subito condividerla... Con lo stesso spirito, io nel 1993 scrivo Magnificat.
(Pupi Avati)
Storie dell'anno Mille, "del 926° anno dalla nascita del Cristo" per la precisione, accompagnate da un'ossessione racchiusa in una domanda e nell'assenza di una risposta. L'ossessione è sempre contenuta nel mistero della scomparsa di una persona cara. In questo Alto Medioevo rappresentato, evocato in Magnificat, risuona l'eco di quella frase pronunciata da un oste-attore, soprattutto amico, Ferdinando Orlandi, gravemente malato: "Stai attento, perché io, quando sarò morto, tornerò e ti farò un segnale". Possono cambiare i tempi del racconto, gli aggettivi, le virgole, ma il senso rimane quello. Nell'arco di Magnificat la frase ricorre, si propaga di valle in valle, supera le montagne e scavalca i fiumi, diventa il mantra di popolazioni che vivono immerse nella violenza, nella brutalità, nella povertà alla ricerca costante - che sia più o meno razionale - di una risposta sul mistero della morte, nell'attesa di un segnale che possa giungere dall'aldilà. Lo pronunciano i Signori o i condannati a morte, i boia e le pazze che si aggirano nei boschi. Rossellini sembra diventare la luce del faro per interpretare Magnificat. [...] Appurato Rossellini, perché non citare anche Pasolini? Quei volti di contadini bruciati dal sole, quelle comparse trovate per strada e calate in panni medievali, quegli sguardi di vecchie e bambini (i costumi creati da Sissi Parravicini portano a casa il Ciak d'Oro), quel corteo che conduce Roza al monastero e che sembra uscito dalla Medea, quell'unione tra sacro e profano, tra paganesimo e cristianesimo sembrano andare, perlomeno visivamente, in quella direzione.
(Andrea Maioli)
Precede il film la presentazione del libro Pupi Avati. Sogni incubi visioni, nuovo e aggiornatissimo studio di Andrea Maioli, che da anni segue con acutezza e passione il lavoro della ‘banda' Avati. La lunga carriera del cineasta bolognese (ottant'anni - cinquanta di cinema - festeggiati nel 2018 e un nuovo film, Il Signor Diavolo, in uscita ad agosto) viene ripercorsa attraverso un'analisi dei singoli film considerati all'interno di più ampie sezioni storiche e tematiche. Ogni capitolo è preceduto da un'introduzione originale dello stesso Avati.
Andrea Maioli
PUPI AVATI. SOGNI INCUBI VISIONI
Edizioni Cineteca di Bologna, 2019, 20 euro
Versione originale con sottotitoli inglesi
(Italia/1978) di Pupi Avati (100') | Introducono Antonio e Pupi Avati
LE STRELLE NEL FOSSO
(Italia/1978) di Pupi Avati (100')
Introducono Antonio e Pupi Avati
Regia: Pupi Avati
Soggetto: Pupi Avati, Maurizio Costanzo, Antonio Avati
Sceneggiatura: Pupi Avati, Cesare Bornazzini
Fotografia: Franco Delli Colli
Montaggio: Maurizio Tedesco
Scenografia e costumi: Luciana Morosetti
Musiche: Amedeo Tommasi
Interpreti: Lino Capolicchio (Silvano), Gianni Cavina (Marione), Carlo Delle Piane (Bracco), Giulio Pizzirani (Marzio), Roberta Paladini (Olimpia), Adolfo Belletti (Giove), Ferdinando Orlandi (narratore)
Produzione: A.M.A. Film. Durata: 100'
Come ho visto e amato l'Emilia-Romagna in questo film, non sono più stato in grado di vederla, amarla e fotografarla. [...] Le strelle è un film anomalo, totalmente suggerito dal luogo. Siamo partiti sapendo che dovevamo trovare una casa nell'acqua, con uno script racchiuso in una mezza pagina che esigeva non solo gli attori giusti, ma anche la casa. E una sera, ormai avviliti, la vedemmo. Ed era quella. Attraverso una sorta di trance, la storia l'ho immaginata scrivendola mentre giravamo... E alla fine, quando abbiamo abbandonato quel luogo, io sono rimasto da solo e ho baciato il muro di quella casa, riconoscente, perché è stato quel posto a suggerirmi quella storia.
(Pupi Avati)
Versione originale con sottotitoli inglesi
(Italia/1984) di Pupi Avati (88') | Introducono Antonio Avati, Pupi Avati e Andrea Maioli
NOI TRE
(Italia/1984) di Pupi Avati (88')
Introducono Antonio Avati, Pupi Avati e Andrea Maioli
Regia: Pupi Avati
Soggetto e sceneggiatura: Pupi Avati, Antonio Avati
Collaborazione ai dialoghi: Cesare Bornazzini
Fotografia: Pasquale Rachini
Montaggio: Amedeo Salfa
Scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa
Musica: Riz Ortolani
Interpreti: Christopher Davidson (Wolfgang Amadeus Mozart), Lino Capolicchio (Leopoldo Mozart), Gianni Cavina (cugino), Carlo Delle Piane (conte Pallavicini), Ida Di Benedetto (Maria Caterina), Dario Parisini (Giuseppe Pallavicini), Barbara Robeschini (Antonia Leda), Giulio Pizzirani (padre Martini), Davide Celli (Davide), Leonardo Sottani [Nik Novecento] (Nicola), Ferdinando Orlandi (dottore)
Produzione: DueA Film, Istituto Luce. Durata: 88'
Questo è un film su Mozart ragazzo, non su Mozart musicista. Non è sul momento in cui è solo con carta, penna e tastiera o su come questa geniale precocità sia potuta accadere. Non sono interessato a fornire immagini per una colonna sonora, piuttosto sono interessato all'estate di un adolescente.
(Pupi Avati)
Precede il film la presentazione del libro
Andrea Maioli
PUPI AVATI. SOGNI INCUBI VISIONI
Edizioni Cineteca di Bologna, 2019
In vendita nelle librerie di Bologna e al Bookshop della Cineteca (Voltone di Palazzo Re Enzo)
Nuovo e aggiornatissimo studio di Andrea Maioli, che da anni segue con acutezza e passione il lavoro della 'banda' Avati. La lunga carriera del cineasta bolognese (ottant'anni - cinquanta di cinema - festeggiati nel 2018 e un nuovo film, Il Signor Diavolo, in uscita ad agosto) viene ripercorsa attraverso un'analisi dei singoli film considerati all'interno di più ampie sezioni storiche e tematiche. Ogni capitolo è preceduto da un'introduzione originale dello stesso Avati.
Versione originale con sottotitoli inglesi
(The Usual Suspects, USA/1995) di Bryan Singer (106') | Introduce Giacomo Manzoli
I SOLITI SOSPETTI
(The Usual Suspects, USA/1995) di Bryan Singer (106')
Introduce Giacomo Manzoli
Regia: Bryan Singer
Soggetto e sceneggiatura: Christopher McQuarrie
Fotografia: Newton Thomas Sigel
Montaggio: John Ottman
Scenografia: Howard Cummings
Musica: John Ottman
Interpreti: Gabriel Byrne (Dean Keaton), Kevin Spacey (‘Verbal' Kint), Chazz Palminteri (David Kujan), Stephen Baldwin (McManus), Kevin Pollak (Todd Hockney), Pete Postlethwaite (Kobayashi), Benicio Del Toro (Fenster), Suzy Amis (Edie Finneran), Giancarlo Esposito (Jack Baer)
Produzione: Michael McDonnell, Bryan Singer per Blue Parrot. Durata: 106'
Quello che mi interessa è vincere le aspettative dei pubblico, spiazzarlo in continuazione invitandolo ad una più radicale forma di partecipazione. I film con sceneggiature scritte con lo stampino, incapaci di sorprendere e turbare, non mi interessano, finiscono per essere dimenticati al termine della proiezione, i grandi thriller invece sono sempre stati beffardi e controcorrente, poco inclini alle categorie e agli stereotipi. Quante verità ci sono? Una, dieci, cento? La realtà che ci sta di fronte è multiforme, noi possiamo osservarla, studiarla ma finiamo inevitabilmente per conoscere solo ciò che parzialmente appare. Quello che manca è lo sguardo di insieme, siamo distratti da schegge che attraversano la nostra vita, non riusciamo a metterle assieme per dar loro un senso. Nel film ci sono tre personaggi che solo alla fine intravedono la soluzione dell'enigma perché troppo impegnati a ragionare unicamente su singoli elementi del puzzle, senza invece comporre le varie informazioni. Nessuno riesce a vedere il quadro completo.
(Bryan Singer)
Versione originale con sottotitoli italiani
(Italia/2019) di Giulia Giapponesi (57').
A seguire: “Felix Pedro - Se solo si potesse immaginare”
(Italia/2018) di Paolo Muran (62')
CARRACCI - LA RIVOLUZIONE SILENZIOSA
(Italia/2019) di Giulia Giapponesi (57')
Regia: Giulia Giapponesi
Sceneggiatura: Giulia Giapponesi, Marco Riccòmini
Fotografia: Salvo Lucchese
Montaggio: Paolo Marzoni, Giulia Giapponesi
Musica: The Trouble Notes
Interpreti: Marco Riccòmini, The Trouble Notes, Catherine Loisel, Jacqueline Thalman, Keith Christiansen, Francis Russel, Eugenio Riccòmini, David Ekserdjian, Nancy Edwards, Massimo Pulini, Aidan Weston-Lewis, Silvia Evangelisti, Leonardo Piccinini
Produttore esecutivo: Anna Scandola
Produzione: Codalunga. Durata: 57'
Sovversivi ma disciplinati, tradizionali ma dissacratori: i Carracci - i fratelli Agostino e Annibale e il loro cugino Ludovico, vissuti tra Cinquecento e Seicento - hanno rivoluzionato il modo di fare pittura cambiando per sempre il corso della storia dell'arte moderna. Il film narra l'essenza dell'arte dei Carracci, le dinamiche del lavoro di gruppo - i Carracci sono il primo collettivo artistico della storia - e l'eredità lasciata dalle opere che i tre artisti hanno prodotto. I Carracci erano più che semplici pittori. A Bologna fondarono l'Accademia degli Incamminati, una vera e propria scuola di arte e di vita, dove gli allievi imparavano a concentrarsi sulla riproduzione del reale anziché del verosimile: abbandonando cioè lo stile codificato della maniera e insegnando ai giovani artisti a istruire la mano e la mente. Marco Riccòmini, art advisor di fama internazionale, si muove alla ricerca della chiave per comprendere le vite, le opere e la magia dei tre artisti. Nel suo viaggio costruito come un vero e proprio road-mentary, accompagnato dalle parole di Felsina Pittrice, Vite de' pittori bolognesi, scritto da Carlo Cesare Malvasia nel 1678, Riccòmini ricerca i luoghi dove i Carracci o le loro opere sono approdati. Così la storia si svolge, come una caccia al tesoro, nei grandi musei del mondo, alla ricerca di opere come la Piccola Macelleria al Kimbell Museum di Fort Worth (Texas) e la Grande Macelleria alla Christ Church Gallery di Oxford che assieme al Mangiafagioli (Roma, Galleria Colonna) sono considerate pietre miliari della storia dell'arte e testimoniano fin da subito, in maniera rivoluzionaria, la perizia e il coraggio della pittura dal vero. Il confronto con gli straordinari affreschi di Palazzo Fava e Palazzo Magnani a Bologna è punto di passaggio obbligato che testimonia non solo la ricerca del reale, ma la capacità dei tre artisti di essere complementari nell'esecuzione, e allo stesso tempo differenti per temperamento e talento. Durante il viaggio Marco tesse le fila di una ricerca mai fatta prima d'ora, incontrando studiosi, curatori d'arte, direttori di musei, e perfino comuni turisti in contemplazione delle opere dei Carracci. New York, Londra, Parigi sono solo alcune delle tappe dove vengono raccontati frammenti delle vite dei tre pittori, dalle personalità apparentemente tranquille ma animate da un temperamento libero e anticonvenzionale, che hanno conquistato la vetta del loro mondo e cambiato radicalmente il modo di fare pittura. Giulia Giapponesi racconta le vicende dei tre pittori seguendo Marco Riccòmini da un capo all'altro del mondo, in un viaggio fatto di incontri speciali, di scoperte, e soprattutto di sguardo. Uno sguardo che desta meraviglia in tutti: appassionati d'arte, addetti ai lavori e comuni osservatori.
A seguire
FELIX PEDRO... SE SOLO SI POTESSE IMMAGINARE
(Italia/2018) di Paolo Muran (62')
Regia: Paolo Muran
Sceneggiatura: Giorgio Comaschi, Paolo Muran
Ricerca storica: Claudio Busi, Giorgio Comaschi, Massimo Turchi
Fotografia e montaggio: Fabrizio Pizzulo
Collaborazione tecnica: Wild Lab Multimedia
Musica: Paolo Fresu
Interpreti: Giorgio Comaschi, Claudio Busi, Massimo Turchi
Produzione: Doc Lab, Paolo Muran Doc, Pierrot e la Rosa, con Accademia del Frignano ‘Lo Scotenna'. Durata: 62'
Felix Pedro - Se solo si potesse immaginare è una storia di oltre un secolo fa che diventa attuale poiché narra il tentativo dell'uomo di migliorare le proprie condizioni emigrando, andando alla ricerca di fortuna in altri paesi. Molti hanno compiuto e continuano a compiere la stessa impresa, in molti sono morti e in molti continuano a morire, solo pochi hanno avuto o hanno la fortuna di trovare quello che cercano. Se un uomo dell'Appennino modenese nato a metà dell'Ottocento che si chiama Felice Pedroni fugge dalla miseria, prende una nave per l'America, diventa Felix Pedro e nel 1902 in Alaska scopre l'oro in un torrente e fonda la città di Fairbanks, la storia prende subito i contorni del romanzo d'avventura. Ma l'avventura decolla e giunge ai confini dell'‘incredibile' quando Pedro torna in Italia con le pepite al posto dei proiettili nel cinturone, cerca una donna del suo paese da sposare senza trovarla, riparte per l'Alaska, sposa una donna irlandese senza scrupoli, muore in circostanze misteriose e il suo corpo sparisce e viene ritrovato in California sessant'anni dopo. Il fatto che il corpo di Pedro sia stato riportato a Fanano alla fine degli anni Settanta da un notaio di Pavullo è solo uno dei tanti affascinanti risvolti di una vicenda dagli epiloghi sempre diversi. [...]
(Felix Pedro)
Versione originale con sottotitoli
(USA/2014) di Cristopher Nolan (169')
In collaborazione con INAF-OAS
INTERSTELLAR
(USA/2014) di Cristopher Nolan (169')
In collaborazione con INAF-OAS
Regia: Christopher Nolan
Sceneggiatura: Christopher Nolan, Jonathan Nolan
Fotografia: Hoyte Van Hoytema
Montaggio: Lee Smith
Scenografia: Nathan Crowley
Musica: Hans Zimmer
Interpreti: Matthew McConaughey (Cooper), Jessica Chastain (Murph), John Lithgow (Donald), Matt Damon (Mann), Casey Affleck (Tom), Michael Caine (professor Brand), Anne Hathaway (Amelia Brand), Mackenzie Foy (Murph bambina), Ellen Burstyn (Murph anziana)
Produzione: Christopher Nolan, Lynda Obst, Emma Thomas per Legendary Pictures, Lynda Obst Production, Paramount Pictures, Syncopy, Warner Bros. Durata: 169'
Precedono alcuni filmati d'epoca dedicati all'allunaggio del 20 luglio 1969, mentre la cantante Cristina Zavalloni si esibirà in un repertorio dedicato alla Luna.
La cosa più importante è divertire la gente, seguire il viaggio emotivo dei personaggi. Ci sono tanti passaggi complicati nel film, alcune delle cose di cui parliamo non le capisco nemmeno io, abbiamo avuto bravissimi consulenti e cercato di essere più vicini possibile alla realtà astrofisica, ma alla fine quello che conta è divertire. Lasciare il pubblico confuso era un rischio. Ma penso che se coinvolgi la gente emotivamente ci sono più probabilità che segua l'arco della storia, mentre se punti tutto sul livello intellettivo la perdi. Un padre che deve lasciare i figli conferisce l'aspetto emotivo. A differenza di molti altri film di fantascienza, volevo che il film contemplasse la fine dell'umanità. Sono cresciuto nell'epoca d'oro dei blockbuster di quel genere, a partire da Incontri ravvicinati del terzo tipo, ed è quella la fantascienza che mi affascina, quella che parla di ottimismo, spirito umano, sopravvivenza, viaggi che ci possono portare in posti straordinari. Il film parla della fine del mondo, ma dice che possiamo vivere dopo la fine del pianeta. Deve essere ottimista perché la storia funzioni.
(Christopher Nolan)
Versione originale con sottotitoli italiani
(USA/1994) di Quentin Tarantino (154')
PULP FICTION
(USA/1994) di Quentin Tarantino (154')
Regia: Quentin Tarantino.
Soggetto: Roger Avary, Quentin Tarantino.
Sceneggiatura: Quentin Tarantino.
Fotografia: Andrzej Sekula.
Montaggio: Sally Menke.
Scenografia: David Wasco.
Interpreti: John Travolta (Vincent Vega), Samuel L. Jackson (Jules Winnfield), Uma Thurman (Mia Wallace), Harvey Keitel (Mr. Wolf), Tim Roth (Pumpkin), Amanda Plummer (Honey Bunny), Bruce Willis (Butch), Ving Rhames (Marsellus Wallace), Maria de Medeiros (Fabienne), Rosanna Arquette (Jody), Eric Stoltz (Lance), Steve Buscemi (Buddy Holly), Christopher Walken (Koons), Quentin Tarantino (Jimmie).
Produzione: Lawrence Bender per A Band Apart, Jersey Films. Durata: 154'
In generale, i soggetti che scrivo si basano su situazioni molto classiche. Partendo proprio da qui tutto il mio lavoro (e il mio gran divertimento) consiste nel dare a queste situazioni un nuovo spirito, introducendo quello che chiamo ‘un tempo a velocità reale' e cioè di dare allo spettatore l'impressione che l'azione si svolga come nella vita. Nei film solitamente tutto si compie in maniera perfetta, ci si interessa solo ai fatti essenziali, come se i dettagli della vita quotidiana non avessero importanza. Invece sono proprio questi dettagli che mi interessano particolarmente ed è precisamente su questi che si inciampano i miei personaggi. Nei miei film infatti, sono i piccoli ostacoli e non quelli grandi che creano più difficoltà, perché nella realtà è proprio così che capita. Nella finzione cinematografica i gangster arrivano sempre puntuali ai loro appuntamenti, a volte persino in ritardo. In Pulp Fiction, arrivano in anticipo. Allora, cosa fanno? Come tutti si mettono a parlare nel corridoio per fare passare il tempo: arrivando così a confrontare le loro teorie sui massaggi ai piedi. L'idea insomma è quella di prendere dei personaggi di genere e di porli in situazioni della vita reale e farli vivere secondo le regole della vita vera. I film normali sono troppo occupati a raccontare la storia perché possano spuntare fuori per errore delle pistole che uccidono qualcuno che non c'entra niente. Ma accade, perciò noi seguiamo questa pista. E non è un piccolo forellino nel petto, ma un'enorme ferita che si deve affrontare. Lo humour secondo me viene fuori da queste situazioni realistiche.
(Quentin Tarantino)
Versione originale con sottotitoli italiani