Salta al contenuto principale Skip to footer content

Letti per voi | i portici in pillole

Andrea Santucci, Il mirabile artificio

Il volume si apre con una introduzione di Pierluigi Cervellati. Se ad un primo sguardo appare fuori tema - parla infatti dei chiostri catalani di San Cugat e di Gerona - in verità fornisce la chiave di lettura dell’opera di Santucci, storico dell’arte e fotografo scomparso nel 2014. Cervellati riporta, infatti, la teoria del musicologo Marius Schneider secondo la quale le decorazioni dei capitelli dei monumenti citati non sarebbero altro che uno spartito musicale in cui ad ogni figura corrisponde una nota o una pausa1. A questo punto la provocazione: e se anche i portici bolognesi nascondessero, in un linguaggio cifrato per pochi, melodie segrete e accordi ineffabili?

Le decorazioni, dipinte o scolpite, come note musicali hanno da sempre sottolineato quell’armonia che già l’architettura possiede nel suo ampio spartito, tutta composta sul metro delle proporzioni e ripartita nella magia dei numeri...” (p. 19). 

A Bologna tutto questo si sostanzia nella medietas, ovvero, sottolinea Santucci, “il lessico minuto e continuo che accompagna la forma plastica della città” lungo i secoli e che trova nel capitello e dunque nel portico la sua unità minima. Il capitello, 

groviglio o natura morta che sia, è il metronomo che scandisce il passo di chi percorre la città, il piede ritmico di una visione dinamica che proprio dal portico, corridoio di instabilità prospettica plasmato dalla luce, apprende ad essere illusorio e scenografico”. (p. 34).

Il portico si mostra anche elemento di mediazione fra la dimensione pubblica della strada e quella privata delle logge, degli androni e dei cortili, ma è anche garante di continuità, oltre che nello spazio, offrendo riparo per i tanti chilometri della sua estensione, anche nel tempo. Ogni epoca, infatti, ha lasciato la sua interpretazione del portico: dagli sporti ancora privi di appoggio a terra, agli esempi in legno, attraverso le mille varianti di pietra e laterizio, fino al cemento dei nostri giorni nelle periferie, che, proprio grazie a questa tipologia architettonica tipica, cercano di recuperare un po’ di identità.

Aspetto tutt’altro che secondario, il volume è illustrato da un apparato fotografico di grande impatto, soprattutto in bianco e nero. Ciò consente di focalizzare lo sguardo su dettagli che spesso passano inosservati portando in primo piano, anche letteralmente, la insospettata ricchezza decorativa dei capitelli e delle cornici che adornano portali e finestre.

L’autore procede con un excursus storico attento all’evoluzione decorativa dei capitelli messi in relazione con la temperie culturale e artistica da cui sono influenzati, in un rimando continuo dal particolare al generale e viceversa che dà il senso di un quadro culturale compiuto e coerente. 

Un esempio per tutti, a proposito del periodo bentivolesco e del rapporto in esso innescato fra umanisti e mondo antico, si rileva come questo si manifesti e qualifichi 

“nel costante confronto tra cultura e vita della città, facendo abilmente convivere in esso un carattere antiaccademico che si appropria della cultura classica integrandola nella stessa, ancor viva, tradizione medioevale, per calarla poi nella vita di tutti i giorni ed abbinarla, infine, ad una raffinata dialettica tutta imperniata sul dialogo ‘uomo-natura’. Una dialettica che, a differenza di quella che si praticava a Firenze, si discostava da una pura visione armonica di questo dialogo, riconducendo piuttosto le origini di questa stessa dialettica alla tradizione aristotelica, imperante nello Studio bolognese. In Bologna come in tutta la Padania, questo portava ad un rapporto fra l’uomo e la natura che ne era una libera interpretazione, spesso trascinante ed emozionante. Ciò aveva una forte emergenza negli esiti più formali, comprendendo fra questi, anche la decorazione, intesa qui come una parte, pares inter pares, di tutte le arti...” (p. 87-89)

La narrazione storica, pur nel rigore scientifico a cui è ispirata, è documentata da un ricco apparato di note e si avvale di uno stile piano, accattivante, senza specialismi che, di tanto in tanto, mostra anche una vena poetica. Interessante in Santucci è il piglio critico che non manca di sottolineare nodi problematici che la disciplina ufficiale, ancora una ventina di anni fa, non aveva, e spesso non ha, ancora sciolto.

Riallacciandosi all’incipit di Cervellati, Santucci sottolinea come le migliaia di capitelli che punteggiano i passaggi porticati abbiano un ruolo che va oltre quello di semplice decorazione 

un ruolo alto e nobile, delegato a sottolineare i ritmi dell’architettura, a caratterizzarla ed a personalizzarla: un ruolo che da secondario diviene primario”. (p. 145)


Lo spazio porticato si arricchisce poi delle edicole e delle lunette dipinte, in una percezione spaziale dove il colore riveste le superfici assai più di adesso: “artifici ed illusioni cromatiche rendevano nobili anche i materiali più umili”, si dice,

colonne in cotto intonacate e dipinte in finto marmo o color macigno, intere facciate, anch’esse in cotto, intonacate e trasformate in luminoso travertino, gessi e stucchi che diventano porfidi, malachiti o rosso di Verona […] In una città così costruita e soprattutto colorata, il valore funzionale e di immagine della decorazione scolpita si aggiungeva a quello della decorazione dipinta integrandosi con essa, facendole da eco e da vera cassa di risonanza, abbandonando ogni ruolo, attribuitole peraltro a posteriori, di arte meccanica, sottomessa alle altre arti liberali...” (p. 146-147)

In conclusione, il volume, che sembra caduto nell’oblio della storiografia bolognese, è invece un testo chiave sul tema dei portici e della loro decorazione. Di più: fornisce anche una base ricca di spunti originali per proseguire il discorso verso una sempre maggiore consapevolezza del nostro patrimonio, condizione necessaria per la sua sopravvivenza. 


 


 


 


 

 

1Pietre che cantano: studi sul ritmo di tre chiostri catalani di stile romanico, trad. di Augusto Menduni, Milano, Archè, 1976; Parma, Guanda, 1982, prefazione di Elémire Zolla; Milano, SE, 2005

Ultimo aggiornamento: