Abbiamo rivolto alcune domande a Daniele Pascale Guidotti Magnani, architetto e ricercatore presso il Dipartimento di Architettura dell'Università di Bologna, che ha recentemente scritto un volume su Coriolano Monti.
Chi è Coriolano Monti e perché è così importante per Bologna?
Coriolano Monti è un personaggio chiave per la storia urbana di Bologna e anche per aver traghettato il tema architettonico dei portici nella contemporaneità. La sua opera fu fondamentale negli anni immediatamente seguenti l’Unità d’Italia perché ricoprì l’incarico di ingegnere capo della città dal 1860 al 1866. In questo ruolo ebbe la responsabilità di condurre una serie di opere di modernizzazione urbana rese necessarie dalle nuove necessità trasportistiche e in alcuni casi da non troppo nascosti motivi speculativi: tra queste si ricordano soprattutto la nuova via Farini e piazza Cavour, il cosiddetto Falansterio di via Saragozza e il palazzo per uffici e appartamenti del Canton de’ Fiori (forse il primo esempio di condominio borghese a Bologna, sul modello torinese o parigino). La sua formazione era piuttosto tradizionale: si era formato nelle accademie di belle arti della nativa Perugia e di Roma; a Roma si era poi impegnato politicamente negli esaltanti momenti della Repubblica Romana (1848-49). Questa vicenda, sfortunata in sé, fu però foriera di proficue opportunità per Monti, che in quell’occasione strinse amicizia con Marco Minghetti; fu proprio il grande statista bolognese a ricordarsi di lui al momento dell’annessione di Bologna al regno di Sardegna e a insediarlo come ingegnere capo nella sua città natale. Curiosamente, il periodo che Monti passò a Bologna fu il più proficuo dal punto di vista professionale: si dimise infatti nel 1866 perché eletto deputato al Parlamento e da allora si dedicò quasi esclusivamente alla vita politica fino alle morte, sopraggiunta nel 1880. A Bologna la sua opera fu continuata soprattutto da Antonio Zannoni, poliedrico professionista che recuperò l’acquedotto romano riadattandolo alle esigenze della modernità e che completò diverse architetture nelle aree già interessate dai lavori di Monti.
Su quali nuovi materiali ha potuto contare la sua ricerca?
La ricerca storico-architettonica sugli anni bolognesi di Monti è stata grandemente facilitata dalla fortunata conservazione di un cospicuo patrimonio di suoi disegni autografi, conservati all’Archivio di Stato di Perugia. Fortunatamente, questi disegni (forse per le loro grandi dimensioni) furono ceduti dalla famiglia e nel corso del Novecento raccolti da uno storico perugino, Ottorino Gurrieri; alla morte di quest’ultimo, furono depositati in quella sede. Questi disegni non erano mai stati pubblicati su vasta scala. Erano però già noti per esempio a Giuliano Gresleri che ne fece esporre alcuni nel corso della mostra Norma e Arbitrio, organizzata per le celebrazioni di Bologna capitale della cultura del 2000. In occasione dei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia ho avuto la fortuna di consultarli per intero e di esporne diverse riproduzioni in una piccola mostra curata dall’Associazione Dimore Storiche Italiane. Se i disegni di Monti sono ancora consultabili (anche se in alcuni casi meriterebbero un lavoro di restauro), le carte più personali di Monti rimasero invece in mano alla famiglia e se ne sono perse le tracce alla morte improvvisa dell’ultima discendente, Rita Monti (che peraltro si era dedicata alla ricerca storica e allo studio del suo illustre antenato): si tratta di una perdita abbastanza grave, ma non dispero che in futuro questo ulteriore fondo di documenti possa riemergere. Naturalmente, è stato importante anche studiare la documentazione conservata presso l’Archivio Storico del Comune di Bologna, che per gli anni postunitari è particolarmente ricca in disegni, lettere, relazioni, verbali del consiglio comunale: tutto questo materiale permette di far emergere il pensiero progettuale di Monti e le sue idee di gestione urbana.
C'è un filo rosso che unisce le opere di Monti, secondo lei? Lo stile? La presenza del portico tutte le volte che può? Altro?
Le caratteristiche che uniscono le opere di Monti sono sia prettamente architettoniche, sia di altro genere. Da un lato si possono infatti riconoscere alcuni fili conduttori stilistici e spaziali: il portico è impiegato in ossequio al carattere urbano bolognese e in generale le facciate montiane non si discostano da un corretto stile neo-rinascimentale, ampiamente diffuso all’epoca come strumento di omologazione formale per uno Stato appena fondato. E dunque si possono riconoscere alcuni stilemi ricorrenti, quali l’uso di finestre a edicola con timpani triangolari e curvilinei, sovrapposizione di ordini, cornici bugnate.
Ma l’interesse per l’opera di Monti non si esaurisce al tema stilistico, che spesso conduce a risultati accademici ai limiti del pedante. Più interessante è forse comprendere che il suo operato si fondò su alcuni principi basilari, ribaditi spesso nelle sue relazioni e lettere, e fondamentali nell’estetica e nell’etica professionali di metà Ottocento: l’utile e il ritorno economico per il proprietario e per l’amministrazione pubblica, il decoro borghese immune da tentazioni di retorica appariscente, la convenienza intesa come spirito di adattamento alle profonde ragioni tipologiche, volumetriche, formali della fabbrica, l’economia e il senso di pragmatico risparmio che lo portarono sempre a preferire materiali poveri (e locali) come il mattone e la terracotta. Il risultato di questa prassi fu quello di una rassicurante medietas formale che, paradossalmente, può essere considerata uno dei successi di Monti: se infatti le sue opere architettoniche si conformano a una onesta elaborazione progettuale (con alcune punte di buona qualità), le sue capacità maggiori si esplicitano nel disegno urbano, che per Monti non è mai atto violento, ma generalmente azione di buon adattamento a un contesto esistente, senza stravolgimenti dettati da circostanze estranee alla reale funzionalità della trama cittadina.
Perché secondo lei è stato tanto dimenticato? Dobbiamo senz'altro ad Elena Gottarelli la riscoperta, cosa sappiamo in più ora?
Paradossalmente, la causa della dimenticanza di Monti sta nella sua capacità di adattarsi al contesto bolognese. Monti divenne ‘classico’ in pochissimi anni e, all’alba del nuovo secolo, con gli sventramenti del Mercato di Mezzo e poi, in epoca fascista, della via Roma, oggi via Marconi, l’opera di Monti doveva apparire talmente mite e delicata, al confronto con la mancanza di rispetto di queste operazioni più tarde, e ormai talmente integrata al tessuto storico da risultare senz’altro un’architettura rassicurante e ormai tipica dell’immagine urbana di Bologna. Un’altra ragione fu probabilmente l’opera pluri-decennale di Rubbiani e poi della Bologna Storico-Artistica, che tese a evidenziare e valorizzare un’epoca storica, quella medievale e bentivolesca, che Monti, per ragioni di formazione, non aveva mai pienamente apprezzato, né se ne era fatto ispirare. Le opere di Monti, in effetti, andavano benissimo per costruire quella Bologna borghese post-unitaria, ma non potevano certo ambire a rappresentare a dovere l’identità estetica cittadina che Rubbiani e i suoi avevano preteso di fondare sull’arte e sull'architettura degli anni dell’autonomia comunale e signorile. Si può dire che nei primissimi anni unitari predomina in tutte le città italiane un desiderio di omogeneità, una volontà di costruire uno stile nazionale, mentre verso la fine del secolo emergono linee di pensiero che tendono ad esaltare il ‘particolare’, le storie locali; si pensi ad esempio alla straordinaria collezione di stili e forme locali messa in campo nella Esposizione romana del 1911, per celebrare i 50 anni dell’Unità. In questo contesto così massicciamente plasmato dal pensiero e dall’opera di Rubbiani, il lavoro di Monti era destinato a non avere fortuna critica.
Gli studi di Elena Gottarelli sono stati fondamentali per la sua riscoperta: il suo Urbanistica e architettura a Bologna agli esordi dell’unità d’Italia, pubblicato nel 1978, rendeva finalmente giustizia a Monti. E al contempo, quest’importante opera storiografica rimaneva in parte isolata: gli anni ’70 sono quelli dello straordinario piano di rinnovamento del Centro Storico di Bologna — ma l’attenzione dei tecnici comunali era rivolta soprattutto al tessuto minuto della città storica, visto come emblema del carattere non solo architettonico ma soprattutto sociale della città. In quel contesto storico e politico, Elena Gottarelli aveva scelto un campo di indagine che guardava sì al centro storico di Bologna, ma che al contempo era in qualche modo fuori dal coro. Gli studi sul centro storico di Bologna, finalizzati al piano di recupero, si concentravano infatti sul tessuto antico, tralasciando quanto realizzato dal secondo Ottocento in avanti: a solo un secolo di distanza, l’opera di Monti non era ancora stata ben compresa (e qui sta l’acume di Gottarelli) e forse era ancora considerata emblema di una Bologna borghese, lontana da quello che si considerava il vero carattere della città. Eppure, Gottarelli aveva lucidamente compreso che «la conclamata integrità del centro storico di Bologna dovrebbe essere più realisticamente considerata una “integrità ottocentesca”», come affermava in apertura del suo libro. La narrazione della Bologna medievale fatta da Rubbiani, e della Bologna popolare dei tecnici comunali degli anni ’70 mal si adattava a spiegare una Bologna post-unitaria innervata degli ideali pragmatici e ‘moderni’ propugnati da Monti. Paradossalmente, i bolognesi si accorgono maggiormente di Monti oggi, in tempi di gentrificazione del centro storico, di ossessione per il decoro urbano, di estetica da social network: in questo caso, le eleganti enfilades dei portici di via Farini, ad esempio, sembrano rispondere meglio a un inconscio desiderio di ordine e decoro sviluppato anche, non ultimo, dal boom turistico che ha investito la città. Ma è questo un interesse che si ferma solo all’epidermide dell’opera montiana e in generale dell’estetica ottocentesca, senza considerarne le profonde ragioni socio-economiche e le implicazioni culturali, come avevano fatto Gottarelli, e dopo di lei Aurelio Alaimo e Axel Körner. Quando si parla oggi di modernizzazione delle reti infrastrutturali bolognesi, bisogna sempre sottolineare che Bologna non ha solo un passato medievale o rinascimentale, in qualche maniera pittoresco e a misura di turista, ma ha anche avuto nei secoli una continua aspirazione alla modernità, prima con l’età napoleonica, e poi appunto con l’operato di Coriolano Monti, che spese molte energie per il miglioramento delle strade cittadine e che fu il primo progettista dell’attuale via dell’Indipendenza, pensata come asse privilegiato per il progresso di Bologna.
Qual è il valore/i valori del lavoro di Monti a Bologna?
In generale, il valore di Monti, già riconosciuto da Gottarelli e da chi venne dopo di lei, è la capacità di adattarsi con garbo all’architettura preesistente: Monti adotta cromie vicine a quelle tradizionali bolognesi, non evita mai l’uso del portico, apprezza in generale la forma urbis di Bologna. Questo discorso va comunque calato nella realtà del secondo Ottocento: prima degli interventi rubbianeschi, Bologna non aveva ancora recuperato quell’immagine (vera o inventata che fosse) medievale e rinascimentale che oggi attribuiamo alla città, fatta di paramenti in mattoni a vista o sagramati, di cornici in terracotta, di merlature. La Bologna che poteva vedere Monti era una città in qualche modo più ‘liscia’, dove i decori tre-quattrocentecshi erano in gran parte stati abrasi e sostituiti da uniformi intonacature dall’invariabile cromia rossastra. In generale, Monti riuscì a rendere più moderna la città quasi senza scosse di carattere estetico: un esempio è dato dai suoi disegni per i negozi del portico della Morte o del Canton de’ Fiori: Monti innova decisamente il tipo del negozio introducendo a Bologna la vetrina commerciale che ancora oggi conosciamo e che fino ad allora non esisteva: si tratta di un caso magistrale nel quale l’innovazione tecnologica (in questo caso la possibilità di ottenere industrialmente lastre di vetro sempre più grandi) influisce direttamente (e brillantemente) sul modo di progettare.
Forse più interessante è però sottolineare l’abilità di disegno urbano dimostrata da Monti. Ciò è particolarmente evidente soprattutto nel caso di via Farini, dove Monti riuscì a introdurre una nuova strada borghese in un tessuto medievale, destreggiandosi con attenzione tra gli snodi preesistenti (notevole è la morbida curva di giunzione a via Santo Stefano, bello l’incrocio con la strada di San Mamolo) e dosando con maestria l’alternanza tra spazi più ristretti e più dilatati. Di grande effetto è poi lo slargo di piazza Cavour, vero cuore della nuova città borghese — un moderno ‘foro’ finanziario —, dove Monti riuscì a risolvere con pragmatismo il problema dell’innesto con via Farini di via Garibaldi, strada ereditata dal passato governo e che mostra invece, al contrario, tutti i problemi (soprattutto nel lato occidentale) dovuti alla totale assenza di una pianificazione efficace. Monti dedicò alla risoluzione dei problemi urbani una cura che pare quasi sempre assente nelle realizzazioni posteriori: si pensi all’anonimo slargo (poi nobilitato da un giardino) di piazza Minghetti, sul quale si affacciano i tronfi edifici (questi sì del tutto slegati dal contesto) della Cassa di Risparmio e delle Poste; o a via Rizzoli e via Ugo Bassi, dove la ricchezza dei materiali impiegati non nasconde la povertà di idee.
In definitiva, l’operato di Monti a Bologna fu imponente e pervasivo, e soprattutto capace di favorire positivi cambiamenti nella mentalità fino ad allora rigorosamente conservatrice della classe politica, amministrativa e padronale. La stagione di trasformazioni urbane bolognesi fu un’esperienza tutto sommato positiva, ma si pose come definitiva conclusione delle intenzioni maturate negli ultimi anni del potere papalino: come in altre città d’Italia, anche a Bologna si dovettero attendere gli anni ’70 e ’80 per nuovi e più grandiosi cantieri. Monti scomparve nel 1880, quando le picconate demolitrici stavano finalmente iniziando ad aprire la nuova via Indipendenza, progetto al quale aveva ambito per tutta la durata del suo mandato. Forse, se l’intreccio di politica e convenienze avesse permesso a Monti di iniziare i suoi lavori da qui, l’intera Bologna ne avrebbe beneficiato, proponendosi fin da subito, dal compimento del processo di unificazione nazionale, come città dotata di infrastrutture viabilistiche moderne e al servizio della ferrovia.
Nell'archivio privato, vi sono scritti che raccontino il côté personale del suo rapporto con la città o coi portici o coi bolognesi?
Nel suo approccio alla città, Monti si comportò in maniera indubbiamente decisionista, e ciò causò diversi malumori, anche all’interno dell’ufficio tecnico da lui stesso fondato e organizzato: se alcuni giovani progettisti come il sanguigno Zannoni o il diligente Priori erano fedelmente al suo fianco, altri, forse perché si ritenevano in qualche modo danneggiati dalla presenza di un tecnico ‘forestiero’, lavorarono sempre di malavoglia al suo fianco. Pochi furono i proprietari che si adattarono con benevolenza ai progetti dell’ingegnere capo, mentre molti furono i tentativi di lucrare a spese del pubblico o addirittura le proteste, come nel caso dei potenti marchesi Pizzardi o dei conti Tacconi: non è un caso che i loro palazzi siano stati completati solo dopo la partenza di Monti. Quasi continui furono poi gli scontri con la classe intellettuale bolognese e soprattutto con il collega Fortunato Lodi, professore di architettura presso l’Accademia di Belle Arti. Poco felici furono anche i rapporti con il giovane collega Giuseppe Mengoni: lo scontro tra i due a proposito della piazza di Porta Saragozza, per la verità innescato da Mengoni e gestito con diplomazia, finché fu possibile, da Monti, ci ha privato di una qualsiasi soluzione per l’area della piazza, che è rimasta un ampio spazio senza un vero disegno. In generale, il Monti che emerge dalla sua corrispondenza con l’amministrazione, dopo il 1864, è quello di un uomo conscio del valore della sua opera, ma in parte stanco dei continui attacchi che era costretto a subire: forse è anche questo il motivo che lo spinse a trasferirsi a Firenze e poi di nuovo nella natia Perugia.
Quanto ai portici, sicuramente Monti seppe adattarsi al genius loci bolognese, che vedeva in essi, ormai dal famoso editto del 1288, un elemento integrante della forma urbana; ciò è dimostrato anche dalla descrizione di uno dei progetti concorrenti a quello montiano per la strada della stazione, quello dell’ingegner Neri, che ritiene fondamentale la presenza dei portici anche nelle nuove costruzioni «per mantenere il carattere della nostra città». Monti riesce a cogliere l’importanza del portico per la città a livello funzionale. Va però notato che Monti, legato a uno stile accademico, tutto imbevuto dello studio dell’architettura del Rinascimento maturo, non è sempre benevolo nei confronti dei portici bolognesi, dal punto di vista stilistico: ne sono prova alcuni portici da lui progettati ex-novo, senza preesistenze, come quello lungo via Indipendenza dell’edificio ex-Vignoli, o quello lungo piazza Cavour del palazzo Guidotti, entrambi dotati di massicci pilastri, più che delle svelte colonne in stile tuscanico tipiche del contesto bolognese dalla metà del Cinquecento. Di questo atteggiamento sono testimonianze, in positivo e in negativo, due diversi episodi di ‘restauro’: nel 1865 Monti si trova a dover fronteggiare una caduta di materiale lapideo dal portico di S. Bartolomeo e il crollo di due arcate del portico dei Servi: mentre nel primo caso (un portico cinquecentesco nel quale gli archi inquadrati dall’ordine definiscono un bell’esempio di rinascimento maturo) non lesina apprezzamenti sul carattere formale dell’architettura, nel secondo lascia chiaramente trapelare un’insofferenza verso le forme tardo-gotiche, che pure stavano diventando ‘alla moda’.
Per saperne di più:
Daniele Pascale Guidotti Magnani, L'opera di Coriolano Monti a Bologna 1859-1866. "La saggia architettura" negli anni dell'Unità d'Italia, Milano, Silvana Editoriale, 2023.
Il volume verrà presentato mercoledì 22 gennaio alle 17.00 presso la Sala dello Stabat Mater https://www.bibliotechebologna.it/events/l-opera-di-coriolano-monti-a-bologna-1859-1866
Si ringrazia l'Archivio Storico Comunale per la concessione d'uso delle immagini.