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"La pianura dei Portici"

In dialogo con gli autori

Abbiamo rivolto alcune domande agli autori di La pianura dei portici, Simone Terzi, Giacomo Cecchin, Fabio Veneri e Massimiliano Boschini e all’illustratore Giuseppe Vitale

Le iniziali riportate tra parantesi indicano chi ha risposto a ogni singolo quesito.

Come nasce il volume che, come recita il sottotitolo, evoca un incontro sentimentale con i portici?

Siamo un gruppo di autori di testi, immagini e pubblicazioni con base tra la provincia di Mantova e quella di Reggio Emilia. Avevamo già collaborato assieme per vari libri e iniziative e siamo anche un gruppo di amici. Tutti noi siamo fortemente interessati al racconto del territorio, cercando prospettive diverse e originali. 

Il portico è una delle consuetudini urbane più caratteristiche della Pianura Padana. Esiste un’espressione dialettale in area emiliana (ôc ed pôrtegh, ma la grafia varia a seconda delle zone) che significa appunto occhio di portico, ossia le singole arcate che si susseguono una dopo l’altra. È un’espressione che troviamo in alcuni vocabolari dialettali già nell’Ottocento e, tra gli altri autori, l’ha utilizzata anche Antonio Delfini. Ecco, noi abbiamo utilizzato proprio quest’occhio come strumento e opportunità di uno sguardo diverso: una prospettiva originale per ricreare il racconto dei luoghi di tutta una vita. 

Personalmente, l’elemento sentimentale legato al portico deriva dal fatto che a Bologna ho fatto l’Università. Come racconto nel libro, i chilometri di portici che camminavo ogni giorno per andare in Università rappresentavano per me un importante spazio del pensiero e della creatività. A quel tempo, scrivevo le mie prime poesie che nascevano tutte sotto le arcate dei passaggi coperti del capoluogo emiliano. E quindi, dopo tanti anni, questo libro, per quanto mi riguarda, ha rappresentato anche un modo per pagare un debito sentimentale con un luogo molto caro.

In ogni caso, aggiungo anche che ognuno degli autori di questo libro ha uno o più portici del cuore e quindi per ognuno di noi il portico evoca itinerari sentimentali.

(FV)


Segnalo che nel colophon c’è un ringraziamento speciale all’ “inventore dei portici che, come per tutte le cose semplici, belle ed essenziali, non gli ha messo sopra un copyright ma li ha regalati all’umanità per renderla più felice e creativa”: un modo geniale per personalizzare e umanizzare l’archetipo architettonico più confortevole di sempre, il percorso coperto, il riparo per eccellenza. Secondo voi di dove era questo anonimo inventore? Più seriamente, c’è una connessione fra portico e genius loci?

Ma chi lo sa di dov’era l’anonimo inventore dei portici. Io penso che fosse in ogni caso un uomo di pianura. Di quelli che guardando l’orizzonte infinito hanno due alternative: o si inventano qualcosa e si divertono o diventano matti e si divertono in ogni caso. Aggiungo solo che i portici sono una di quelle invenzioni che una volta inventate diventa facile dire che sono una cosa banale, che sono ovvie. Eppure sono proprio le invenzioni più semplici quelle più difficili da realizzare perché sono essenziali, normali, non dei fenomeni da circo. Sono quelle cose che una volta che ci sono non te ne accorgi ma basta fare una domanda: “Provate a vivere senza…” e allora… 

(GC)


Simone Terzi, introducendo il volume si ispira a Perec e opera un illuminante “Tentativo di esaurimento di un portico”, un esperimento di osservazione dello spazio consueto. Si evidenziano, contro ogni previsione, elementi mai notati in un paesaggio urbano che diamo troppo per scontato, l’obiettivo è riaprirci alla meraviglia e allo stupore. Per fare questo, Terzi regala un esercizio, vera traccia da impiegare in future esperienze didattiche:

“Descrivete il vostro portico. Descrivetene un altro. Fate il confronto
Quanti passi occorrono per percorrere il portico del vostro paese?
Interrogatevi sulla storia, l’uso e il divenire dei portici che avete camminato
Esaminatene le colonne
Perché sotto i portici le ragazze ridono più volentieri? Perché?
Perché sotto le arcate di un portico le parole non fuggono via?
È vero che in pianura si gira senza ombrello?

 

E dunque: perché sotto i portici le ragazze ridono più volentieri? Perché?

La domanda, che si inserisce in una “lista” di domande, è un omaggio all’autore più significativo di questo genere, appunto il Georges Perec a cui si ispira l’introduzione. Autore che predilige l’ironia, l’esplorazione attenta e minuziosa della superficie delle cose, il quale è stato anche un teorico della classificazione, dell’enumerazione.

Riprende una citazione inserita nel testo di Fabio Veneri, ripresa a sua volta dalla prefazione di Cesare Zavattini all’indagine fotografica di Gianni Berengo Gardin, Un paese vent'anni dopo, uscito per Einaudi nel 1976. Questo testo propone un lungo flusso di motivi e ricordi autobiografici, quasi una confessione, una messa a nudo di fronte al proprio paese natale. La scrittura è densa e carica eppure non mancano le illuminazioni brevi, i motti aforismatici, eccolo: «Ignoro il perché, ma sotto i portici le ragazze ridono più volentieri». 

Boutade meravigliosa che si apre a decine di interpretazioni possibili e che per un momento poteva assurgere al ruolo di epigramma massimo di questo nostro lavoro. 

Un lampo che chiude una bellissima riflessione-ricordo che qui riporto (e che aprirebbe un’altra storia, quella del Fondo Zavattini e della nascita della Biblioteca):

“Tra le buone notizie, la Biblioteca locale coi suoi volumi (io ne ho mandati anche con le care dediche a me degli autori, ho fatto male?) da una via troppo solitaria si dovrebbe trasferire nel centro storico, il più frequentato, e i giovani vi potranno ballare cantare amare, questi verbi cresceranno insieme con il leggere. Quello che si chiama il centro storico sta in una bracciata, con due corte file di portici rimaste intatte, e le ultime leve, sempre in corsa verso chissà dove con le moto e le auto, vi ritornano quasi di soppiatto a ripercorrerli a piedi come fecero e fanno i padri. Ignoro il perché, ma sotto i portici le ragazze ridono più volentieri.” 

(ST)

 

Giacomo Cecchin, ha il compito di inquadrare in modo sistematico, ma di certo non noioso, il tema dei portici da un punto di vista tipologico e storico. La forma è sostanza in questo testo ed anche il respiro dei paragrafi ricalca l’incedere ritmato dei portici.

Una frase, anzi due mi hanno colpito: “se un paese è senza portici sembra avere qualcosa in meno rispetto agli altri, è semplicemente un aggregato di case”: il portico quindi elemento di civiltà urbana, ma anche profondo legante: è per questo che nascono e sopravvivono nel tempo?

Ancora: ‘i portici sono cose da verbi, da movimento, e non da aggettivi’. Ma non potrebbero essere anche elementi connettori, tipo un ‘dunque’ o un ‘tuttavia’?

Essendo un itinerario sentimentale la scelta degli esempi concreti – Mantova, Sabbioneta, Bologna, Gazzuolo, ma soprattutto Luzzara… - ricalca un’affezione o una consuetudine, è così?

I portici verbi era un modo di distinguere questo segno del territorio da quelle architetture che sono aggettivi. Un nome senza un aggettivo ci sta. Un aggettivo senza un nome non ci sta. E poi i nomi sono pietre miliari che segnano i confini e non vanno da nessuna parte. I verbi invece invitano all’azione e i portici sono così. Ci passi di fianco, sotto, sopra, li attraversi e anche se ti fermi ad un tavolino senza muoverti osservi (che è comunque un’azione anche se stai fermo). Poi sicuramente sono dei connettori e come questi elementi della punteggiatura vengono dati per scontati ma provate a parlare senza connettori, provate a vivere senza portici.

Aggiungo un’ultima osservazione sull’itinerario sentimentale. Sì, i portici per me sono un’affezione o una consuetudine. A partire da quello del paese che ha visto la mia infanzia, che era di pochi metri ma che per me era fondamentale fino ad arrivare agli altri che ho citato e in particolar modo a Correggio. Ecco se dovessi scegliere dei portici che mi vestono a pennello sono quelli di Correggio, che non si danno un tono ma sono lì quando ti servono, senza pretese e accoglienti, come la mamma. 

(GC)

 

Fabio Veneri compie un viaggio attraverso le testimonianze di personalità della letteratura e della cultura in senso ampio che hanno trovato nel portico un elemento di ispirazione. In questa utilissima rassegna c’è qualcuno che lei apprezza più di altri? Con cui si sia trovato in particolare consonanza?

L’immaginario del portico valpadano è davvero molto ricco. Figure fondamentali della nostra cultura lo hanno popolato di citazioni, riferimenti, immagini, suoni. Nella mia parte del libro parlo esattamente di questa mitologia alimentata da autori quali Pasolini, Tondelli, Guccini, Delfini

Per questo libro ho anche creato un divertissement in forma di poesia che gioca con la ricchezza di questo immaginario. Ve lo ripropongo anche qui:

 

Sonetto dell’amore sotto i portici

Tondelli da Correggio e Gianni Brera.

Pazienza, Luigi Ghirri e Zavattini.

Ricordo: era Bologna, era una sera

una ragazza e poi Barilli e poi Delfini.

 

Gli Offlaga, la fisa e la balera.

Le Dame, Radio Alice e Prampolini.

Lei sosteneva cosa affatto vera:

Sei come tutti gli altri libertini.

 

Guccini, Dalla, Lolli: ecco la troika.

S’udiva tra la folla il nostro credo:

Anna di Francia o Emilia Paranoica.


La piazza era un Pellizza da Volpedo.

Io la tua libertà, mi disse eroica,

sarò, ma poi sparì. Colpa d’Alfredo.

(FV)


Al di là delle funzioni di riparo, socialità, di richiamo all’identità urbana, ha ravvisato un ulteriore possibile elemento diverso da questi in qualche centro preso in esame dal volume?

Io credo che i portici rappresentino emozioni, sensazioni, ricordi. Tendiamo ad attribuire, questa è la tesi del libro, valore affettivo a queste care chimere dello spazio urbano: con una doppia natura pubblica e privata, aperti e chiusi al contempo, imponenti o angusti in base al contesto, limitati o quasi infiniti a seconda delle città.

I porticati urbani possono essere, ad esempio, il luogo della felicità. Penso, in questo senso, a un gustoso aneddoto pasoliniano. Dopo l’uscita del suo primo libro di poesie, poco più che ventenne, ricevette dal critico Gianfranco Contini una cartolina con un giudizio estremamente lusinghiero. Così il poeta descrisse la sua reazione di inebriante entusiasmo: ”Chi potrà mai descrivere la mia gioia? Ho saltato e ballato per i portici di Bologna”.

(FV)


Massimiliano Boschini, in un’altra possibile versione di osservatore, restituisce lo sguardo più sociale della vita sotto i portici, ne racconta la verace carica umana, i personaggi caratteristici da un punto di vista privilegiato: l’immancabile bar o osteria. Ormai il people watching è diventato – pure questo – una tecnica contemplativa: osservare il prossimo per capire meglio se stessi. Ha avuto lo stesso effetto anche su di lei?

Durante le numerose presentazioni del libro ho più volte dichiarato che l'ispirazione, la scintilla che ha dato vita ai racconti veri e propri, è nata proprio dall'osservazione sul campo degli altri. Naturalmente, questo da solo non basta, perché per scrivere è comunque necessaria una certa introspezione personale. E questo, necessariamente, porta a fare i conti con se stessi e i fantasmi che ci abitano. Credo di averlo fatto fin da subito, nel racconto ambientato a Bologna e che mi vede impegnato in prima persona.

(MB)

 

Il suo intervento ci lascia in sospeso, sull’ “abisso dell’ignoto”: cosa l’attendeva, sotto quel portico?

Ecco, tornando a quanto dicevo sopra e allargando il campo non solo al racconto su Bologna, nel libro ce ne sono altri nei quali, oltre ai portici e ai “normali” protagonisti che vi ho inserito, tra i presenti ci sono anche io. Magari non così alla luce del sole, ma i sogni, le paure e talune idiosincrasie sono proprio le mie. D’altro canto i portici servono proprio a questo: proteggono e al tempo stesso ci lasciano in sospeso, ci consentono di osservare il panorama con le dovute protezioni. Vediamo e osserviamo ciò che c’è oltre le colonne, senza il rischio di farsi del male. Troppo forti questi portici ;-) 

(MB)

 

Infine, come si dice, last but not least, i disegni, di mano di Giuseppe Vitale, il giusto contrappunto vivace e colorato a testi che, pur provenendo da penne diverse che parlano di cose anche serissime, sono accomunati dal tono ironico e immaginifico che caratterizza chi vive sotto i portici. Si ritrova in questa descrizione? 

Decisamente sì e ne sono felice, perché era tra i miei intenti rimanere ironico, ispirare immagini e ricordi.
Un pizzico di malinconia e "scanzonatezza" che per me raccontano i paesi dei portici, la pianura con i suoi colori, la sua gente e le sue zanzare.

Il bianco è sempre presente sullo sfondo quasi a ricordarmi la nebbia, la prima cosa che mi ha colpito da quando incontrai la bassa.

Bella anche la definizione dei disegni come "contrappunto", immagini che dialogano con le parole, qualcosa che sfami la parte desiderosa di icone dentro tutti noi. 

(GV)

 

Il portico è ritmo e ripetizione, a volte può essere noioso disegnarlo, lei invece ha trovato la
chiave giusta, che trovo perfettamente coerente con i testi, come si è posto davanti a questo tema?

Grazie... devo ammettere che amo la ripetizione, quando mi interessa un tema lo sviscero finché non esaurisco le possibilità, fino ai limiti.

In questo caso, per mantenere la freschezza vitale dei portici, ho cercato di usare un segno che imiti la scrittura in corsivo, vivace e imperfetto come la scrittura di un diario. 

(GV)


Il volume è edito da Sometti, 2023.

Avevamo già recensito il volume qui: https://www.comune.bologna.it/portici-patrimonio-mondiale/notizie/letti-voi-la-pianura-dei-portici

 

disegno di Giuseppe Vitale
Illustrazione di Giuseppe Vitale
disegno di Giuseppe Vitale a tema portici
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