da "Il Carlone" luglio 1985
E così il Pci si prepara ad un congresso che se non sarà
straordinario nei modi di indizione, lo sarà certamente per il tipo
di dibattito e di scontro che vi si verificherà.
Il Pci è uno strano partito, certamente molto diverso dagli
altri. Ma non sempre queste diversità sono positive.
Il principale limite che si trascina dietro, a nostro avviso (parliamo
qui non di linea politica ma di metodologia di lavoro) è il continuismo
ad ogni costo. E' il continuismo per il quale non si è mai perduta
alcuna battaglia, ogni svolta di linea politica è sempre in continuità
con la linea precedente, non si sono mai commessi errori, se non secondari,
il Segretario non sbaglia mai e quindi non può essere sostituito.
Sarebbe interessante fare un parallelo con la Chiesa cattolica. Si
vedrebbe come per certi versi il meccanismo è lo stesso ed è
un meccanismo infernale perché porta con sé gravissime conseguenze.
Anzitutto la lentezza nei cambiamenti. E poi l'oscurità del dibattito
interno, spesso incomprensibile a chi non è dentro il linguaggio
e i meccanismi dell'apparato.
Siamo molto lontani dalla tradizione leninista dove il "centralismo
democratico" era uno strumento agile di dibattito, dove i dirigenti venivano
sostituiti, gli errori ammessi, le svolte frequenti. E siamo egualmente
lontani dalle necessità di un moderno partito di massa.
E' vero che le cose sono cambiate in questi anni: il dibattito si è
fatto più aperto, le divergenze sono più chiare, i dirigenti
(compreso il segretario) non sono più tabù. Si è arrivati
addirittura a votare. Tutto ciò lascia sperare che questo congresso
sia finalmente privo di ritualità e quindi diventi un momento in
cui il Pci definisce una linea politica. Le premesse ci sono.
E questo è un fatto positivo che riguarda non solo il Pci. Infatti
in questi anni le incertezze, le non scelte, il continuo oscillare tra
ipotesi diverse hanno condotto il Pci a pesanti sconfitte, ma hanno anche
pesantemente danneggiato l'insieme del movimento operaio e compromesso
gravemente le forze della sinistra.
Si scontrano due scelte di fondo, che se possono apparire ideologiche
hanno in realtà infiniti risvolti pratici. E il non scegliere tra
queste due opzioni generali (o meglio il loro continuo sovrapporsi) ha
determinato le incertezze, gli sbandamenti e le sconfitte (ultima quella
sul referendum).
Il Pci deve decidere se il suo orizzonte è quello del capitalismo,
magari migliorato, magari depurato da corrotti e inetti, magari accompagnato
da una buona legislazione sociale.
E' questa una scelta di fare del Pci una forza pienamente socialdemocratica
e riformista (socialdemocratico non è un insulto, come Pietro Longo,
Preti e Martoni potrebbero far pensare). E' questa posizione che viene
definita dai giornali "migliorista", cioè tesa a migliorare nel
senso di una maggior giustizia, accettandolo, questo sistema economico,
l'economia di mercato, le attuali alleanze internazionali (in primis la
Nato), l'attuale sistema politico, ecc.
Oppure il Pci deve dirci se vuole superare il capitalismo, al sue economia,
il suo sistema politico, andando quindi a momenti di rottura e di costruzione
di una società dai presupposti diversi che, superando i limiti e
gli errori delle esperienze storiche, sia però una società
socialista.
Solo questa opzione giustifica il mantenere il nome comunista, come
ha detto Ingrao ad una assemblea della Fgci.
E' uno scontro che esiste da molto tempo. Amendola, teorico della prima
ipotesi, la enunciò ancora negli anni '60. Oggi esistono però
le condizioni di un dibattito vero su questi temi.
Che non sono, come dicevamo, solo ideologici. Hanno infiniti riflessi
pratici.
Pensiamo alla gestione del referendum, pensiamo alle alleanze sociali
e alle classi di riferimento: è chiaro che in un caso sono i lavoratori
dipendenti, i disoccupati, i pensionati, le casalinghe, il principale punto
di riferimento, nell'altro diventano fondamentali gli imprenditori produttivi
e disponibili al dialogo.
In un caso si tratta di costruire un blocco politico di sinistra rivendicando
l'alternativa e lavorando sui tempi lunghi e suscitando movimenti sociali
e di massa. Nell'altro caso è il rapporto con i partiti, la ricerca
di condizioni, l'interazione con associazioni di categoria l'elemento più
importante.
In un caso l'andare al governo diventa una necessità immediata,
nell'altro è più importante ricostruire una opposizione che
non si pone nell'immediato il problema del governo e soprattutto si pone
come alternativa.
Si possono fare esempi infiniti. Ad esempio a Bologna la differenza
passa tra il fare (come si è fatto) una giunta monocolore per necessità
che governerà con un programma concordato con il Psi (che in cambio
non ha dato nulla se non vaghe promesse) e il fare un monocolore come scelta
caratterizzato da un forte programma di sinistra e di sostegno ai ceti
deboli e sfruttati di questa città.
Non facciamo previsioni su questo congresso, anche se sappiamo che
la destra è molto, molto più forte della sinistra e controlla
alcuni settori chiave del partito (i gruppi parlamentari ad esempio). Ma
possiamo dire, con molta tranquillità, che la soluzione peggiore
sarebbe la mediazione, il continuare con l'ambiguità, con le non
scelte, con i comportamenti contraddittori, con i referendum indetti e
poi persi, con la minaccia di occupare la Fiat e subito dopo gli accordi
su 40.000 licenziamenti, con gli autoconvocati e subito dopo gli accordi
sindacali.
E speriamo in futuro di non dover assistere alla vergogna (dovuta alla
fregola di dover "stare nel gioco", di "non essere isolati") di un Pci
che, senza fare una piega, vota il candidato Dc alla Presidenza della Repubblica,
il famigerato Kossiga e, addirittura, subito dopo l'ex fascista e razzista
Fanfani alla Presidenza del Senato.
Qui si è passato ogni limite e, altro che "migliorismo", si
è arrivati alla svendita pura e semplice di un patrimonio che i
lavoratori avevano costruito con le loro lotte.
E il voto a Kossiga e a Fanfani dimostra quanto in là possa
portare una logica, priva di principi e di strategia, di mera gestione
dell'esistente.