Segnalazioni: "Pulp" e dintorni


M. FRANZOSO, Westwood Dee-Jay, Milano, Baldini & Castoldi, 1998, pp. 138, £. 18.000.

Marco Franzoso, tra la ricca generazione di giovani autori "alla MTV" immersi fino al collo nel mondo dei mass-media, rispecchia in pieno i miti e gli stereotipi della contemporaneità col suo romanzo d'esordio, ma non nel segno di una ricezione passiva, di un abbandono sterile al bombardamento dei prodotti dell'oggi: tutto il ben di dio mass-mediale, trash o/e kitsch che sia, bene o male compete a tutti noi indistintamente, ce l'abbiamo ogni giorno sotto gli occhi, e magari, consapevoli o no, ne facciamo anche parte, o almeno ne avvertiamo le emanazioni in modo evidente, al punto che sentiamo perfino il piacere di misurarci con l'ondata attraente dell'artificio, anzi, per dirla con Labranca, dell' "estasi del pecoreccio". Ciò non vuol dire affatto soccombere a tutto quel "mare di oggettività": su di esso ognuno di noi può operare con i più svariati modi di intervento, con i mezzi che ammortizzino al meglio l'affluire indiscriminato di quei materiali, i quali, ormai, abbozzano per intero il nostro reticolo di vita, l'atmosfera di sofisticazione che respiriamo, la cappa d'aria, di immaterialità e «leggerezza» che, senza scandali, pregiudizi o esorcismi, faremmo meglio ad accettare come una seconda natura. I personaggi di Franzoso partono proprio dall'adesione convinta alla cultura del trito e ritrito, quella delle discoteche, che, facendo «tendensa», sono in grado di alimentare flashes di vitalità, di mandare in rete i circuiti del sesso e del piacere di sé, della realizzazione dei propri desideri. Non sono questi, forse, diritti che appartengono a tutti, senza distinzioni di classi, di ceti, di reddito? Anche la fauna del nord-est discotecaro non fa eccezione, e anzi, la tendenza alla «tendensa» si incarna in uno pseudo dialetto veneto che rende ancor più corporale il "basso" di Westwood, protagonista della storia, un buzzurro DJ di Mestre che veste clamorosamente trash in omaggio alla spazzatura-renaissance di oggi, il tipico contadinotto che è riuscito a crearsi un nome nella sua professione, e che, soprattutto, persegue la sua efficace filosofia, «... l'aspirazión personale e colletiva a la libertà, la bataglia contra tute le predeterminasión dei destini, la critica radicale contra gerarchie, valori, tradizioni...» (p. 40). Per quanto rozzo e grossolano, quello di Westwood è un simil-esistenzialismo democratico diffuso alle masse e promosso dai potenti mass-media della musica che fa laquo;tendensa», con un'attenzione particolare alla sfera dell'eros, il Leitmotiv di fondo del romanzo - com'è giusto che sia -, accennato in lungo e in largo tra ménage à trois, relazioni etero e omo. Anche Westwood, comunque, prima o poi deve patire il disagio del suo declino, professionale e sentimentale, visto che la sua carriera di DJ incomincia ad andare a rotoli, e così dicasi per il suo astruso rapporto con Katia, la giovane diventata di «tendensa» in seguito a un incidente che l'ha costretta a un lifting totale (e anche qui si noti l'ammicco all'artificio). Katia, per l'appunto, sale di rango (di «tendensa»...) infilando uno dietro l'altro un serie di successi nel mondo della cinematografia (tra i suoi successi hard di cassetta, A posteriori e Ti voglio), e non contenta delle inadeguate attenzioni di Westwood lo tradisce con la sua ex psicologa, l'improbabile Veronica O'Hara, altro omaggio al kitsch in un nome da colossal hollywoodiano; al povero Westwood, allora, non rimane che lo sconforto assoluto, il ricordo dei bei tempi che furono, magari continuando l'apnea totale nel suo personale universo trash, tra sunti di Nietzsche e biografie di Madonna, tra motociclette, cellulari e dubbi grottesco-esistenziali: nel suo piccolo e nelle sua possibilità, anche lui, come il Michele di Puerto Plata Market di Nove (e, perché no?, come l'indifferente Michele di Moravia...), è "X", è un personaggio multiforme «.... in contradizione e d'accordo con qualsiasi cosa» (p. 111), finché una laquo;alienazión» quanto mai stramba, provinciale ma a suo modo autentica e veritiera, comincia a farsi sentire.
Ultimo spassoso tributo agli aspetti basso-corporali alleati mondo dei mass-media, va notato il geniale inserto, da parte di Franzoso, del «CD in omaggio», ossia la campionatura a più variazioni del peto e della defecatio di una coppia, amorosamente e timorosamente reiterati tra i finestrini chiusi di un'automobile al ritmo di «ti g'ha peta'?». Non viene in mente nient'altro? Non salta agli occhi la flatulente coincidenza con il protagonista di L'esoterismo dell'aspirapolvere (vedi Marco Drago), anche lui immerso nella particolare privacy dei suoi borborigmi? Oramai lo sappiamo: le vicende della narrativa contemporanea la «leggerezza» la fiutano in tutte le sue sconce e molteplici risorse...[Fabriano Fabbri]


R. BUGARO, La buona e brava gente della nazione, Milano, Baldini & Castoldi, 1998, £. 24.000.

A Bugaro va riconosciuto un merito, il merito di aver tentato un espediente su cui, peccato, egli stesso non insiste più di tanto, solo qualche pagina tra le numerose altre che formano il suo romanzo: l'uso del «tu» accanto a quello ben collaudato dell'«io», preceduto su questa strada dal fortunato Le mille luci di New York di Jay McInernay. Che cosa vuol dire usare il «tu» nella narrativa contemporanea? Evidentemente, significa obbligare il lettore a collocarsi, a entrare per via diretta nella storia, assumendo in toto, quasi indossasse una tuta o una guaina, la posizione di chi lo chiama in causa, spingendolo a partecipare e a condividere necessariamente il suo punto di vista, che certo potrà essere accettabile o meno, ma in ogni caso sarà sperimentato senza un minimo di distanza rispetto all'autore, alla sua caparbia convocazione a "fare come me". Ecco, questo invito il «tu» di Bugaro lo lascia cadere, o almeno lo attenua leggermente in un «io», l'altro pronome-guaina che noi "ipocriti lettori" siamo incoraggiati a infilarci come un casco virtuale per provare direttamente l'angolo di visuale della voce narrante; ma tutto ciò può bastare a stringere un patto di alleanza e collaborazione, anche scomoda, con il protagonista della storia? In parte, sì, purché quell'«io» (o «tu») si faccia portatore di una visione del mondo in sintonia con la postmodernità, purché sia in «io» osmotico, poroso, una "X" aperta ad ogni forma di esperienza, e soprattutto che rinunci all'inaccettabile logica del possesso, di sé e degli altri, rifiutando di esercitare l'arroganza di accumulare, di «avere» in senso materiale, ma anche in senso psicologico, esistenziale, sessuale. Venendo ora ai personaggi de La buona e brava gente della nazione, ben difficilmente li si può promuovere in quanto ad etica postmoderna: nessuno di loro ha i requisiti per essere "X"; tutti indistintamente sono affaristi di prim'ordine, fanno della scaltrezza il loro punto di forza, scaltrezza professionale appunto nel concludere sempre la trattativa giusta, scaltrezza nella conquista erotica, da esibire come un trofeo, tanto nulla nella vita di Giovanni e Luca, i due avvocati protagonisti del romanzo, viene lasciato al caso, e perfino le loro scorribande tra Jack Daniel's, Benson, discoteche e festini notturni rispondono a un copione di esistenza meccanica, quasi behavioristica. Essi sono veramente tutti d'un pezzo, sono appunto personaggi troppo "integrali", troppo monolitici; in loro c'è proprio poco spazio per un'autenticità pura, Giovanni, Luca e gli ipocriti amici della compagnia ristagnano mummificati in una vita "meno di zero" tanto agiata quanto arida e annoiata, annacquata in una chiacchiera che Bugaro, volutamente, fa oscillare tra superficialità e snobismo, e che nasconde un'altra facciata di frustrazioni per matrimoni falliti, nel caso di Giovanni, o, questa volta per Luca, in via di esaurimento. Fatto sta che in una sterilità così dorata la giovane Sabine giunge come una meteora, lei che rappresenta l'unica "X" del romanzo, il solo personaggio debole senza istinto del possesso, ma pronto a lasciarsi trascinare dalle proprie pulsioni, a vivere con Luca il proprio trasporto sessuale, e non certo, a differenza delle altre ragazze della compagnia, per trovare una sistemazione economica, fiutando la disponibilità, la "roba" finanziaria del partner. Luca, dal canto suo, non solo fa fuori la ragazza all'amico Matteo con furbizia ipocrita, ma dà anche il colpo di grazia al suo matrimonio con Laura pur di rigenerare la propria vita, e aprirsi anima e corpo alla fluida, ingenua e sincera Sabine: Luca, però, è fatto di tutt'altra pasta, rimane sempre un calcolatore che non sa rinunciare all'avere e deve comunque finalizzare le sue scelte, e quindi, scaricata la moglie, proietta subito il suo diritto di proprietà sulla nuova amante, le ipoteca una vita, vuole accalappiarla con l'arma del matrimonio, e naturalmente l'asfissia con imbarazzanti scenate di gelosia, volte a tenerla lontana dagli uomini della sua stessa risma affaristica come Ebelmann, col quale Luca fa a pugni. Sabine non ci sta, ci tiene troppo alla sua libertà, e decide di interrompere la sua relazione con Luca, il quale non capisce le ragioni della giovane donna, avrebbe magari la possibilità di rendere elastici e comprensivi i propri comportamenti, come in effetti imporrebbe l'etica del postmoderno, e invece la sigilla del tutto con un gesto tragico e risolutorio, per niente gratuito, anzi, mirato a far "sua" la ragazza in modo definitivo: benché Luca intuisca e assaggi in Sabine il suo "altrove", alla fine si ritira, fa marcia indietro, ridiventa l'esecrabile uomo integrale di prima, in lui non troviamo traccia di cambiamento e con lui noi non riusciamo a instaurare alcuna affinità, non potendo intravedere il minimo barlume di vita genuina. A tutto ciò non contribuisce affatto la narrazione forse troppo avvocatesca di Giovanni, raffinata ma poco corporale, anch'essa "integrale", con parti che spesso girano a vuoto e appesantiscono il romanzo, quasi ponendosi al di fuori della trama generale come elementi aggiunti: Bugaro si muove bene in un registro sostenuto, ma dovrebbe minarlo con opportuni inserti di un linguaggio "basso", fisiologico, che qua e là provochino sbalzi di energia, cortocircuiti, come riesce magistralmente a un altro smascheratore dell'ipocrisia della "buona e brava gente della nazione", Aldo Busi. [Fabriano Fabbri]


A. NOVE, Puerto Plata Market, Torino, Einaudi, 1997, pp. 208, £. 14.000

Puerto Plata Market sembra il rovescio speculare e complementare del trashissimo Superwoobinda per due ragioni interrelate: prima di tutto, per il passaggio dal genere corto dello "spot-pourri"a quello lungo del romanzo, il che, e qui veniamo al secondo punto, implica una conseguenza fondamentale, l'inserimento del fattore "psicologico"che nel libro precedente compariva in minima misura, come se nei tempi cortissimi di quei microracconti, volutamente, proprio non ci fosse la possibilità materiale di dare consistenza ai personaggi, appiattiti a fumetto dal peso schiacciante dell'enorme profluvio di prodotti industriali e di icone mass-mediali; questi stereotipi da cultura Pop, o magari da "MTV", certo, nel romanzo ci sono eccome, ma appunto vengono a inframmezzarlo come inserti pubblicitari o messaggi promozionali. L'approfondimento psicologico, invece, è un passo non da poco compiuto da Nove, data l'intelligente invenzione di Michele, un "io"che in perfetta sintonia con la contemporaneità proprio ci va stretto stretto, un involucro che noi lettori dobbiamo indossare con non poche difficoltà, obbligandoci a un balsamico e significativo mutamento di rapporti con la realtà: si tratta di un personaggio fortemente ridotto, un semi-adulto dal linguaggio elementare e coprolalico al tempo stesso, con una percezione naïve, con reminiscenze e personali madelaines proustiane da supermarket, o da cartone animato, da telenovela, come se, a causa di questa regressione infantile, ogni forma di esperienza venisse ad assumere una dimensione enorme, costantemente straniata, da cosa "più bella del mondo"vista con gli occhi di un bambino; e quindi, caliamoci pure in quell'"io"piccolo piccolo magari scomodo e problematico, ma anche decisamente multiforme, "X", aperto a una percezione sempre "altra"e dunque sempre disposta a lasciar trapelare le energie così ingiustamente soppresse dalla dittatura degli adulti, quelli che hanno messo una pietra sopra al loro mitico paradiso dell'infanzia; e seguiamolo pure, questo Michele, nei suoi frequenti motti di spirito, nella restituzione semplificata e candida che ci dà degli eventi e della vita, sempre rapportati al suo mondo di corrispondenze infantili, ovvero i filtri a cui certo non possono sottrarsi i grandi avvenimenti della storia collettiva e personale, da Aldo Moro al muro di Berlino alle sue esperienze sessuali, sempre rivisitati da quella mente "candida & perversa"(... o «Confusa e felice», perfetto il CD di Carmen Consoli citato da Nove nel suo musical equipment). Ma in fondo, cos'altro non è, quella di Michele, se non la ricerca del suo paradiso perduto? I migliori personaggi della narrativa contemporanea si buttano a capofitto nel loro Eden, un Eden anch'esso a portata di mano, sia esso il paradiso artificiale di Demon e Davy (Santacroce), sia esso l'artificio paradisiaco di Michele, un Eden su scala industriale e mass-mediologica, tramutato nelle golose merci dell'Ikea e dei centri commerciali, nella Juve di Lippi, dei film porno, della Svizzera o di Beautiful. Anche Santo Domingo, l'isola ormai accessibile alle tasche di ognuno, luogo dello stereotipo e del piacere altrettanto stereotipato, diventa per Michele la terra promessa dei suoi desideri, a cominciare dai più dozzinali, ad esempio l'interminabile sfilza di prodotti del «Silverio Masson Supermarket», descritti per filo e per segno come solo una mente alterata e maniacale potrebbe fare, una mente "debole"dedicata anima e corpo a mansioni perfettamente inutili e perciò contemplative, quasi folgorate da una rivelazione epifanica; si arriva poi alle pulsioni sessuali, le risorse irrinunciabili di tutta la cultura contemporanea, tanto che Michele, coi suoi soliti mix di cartoons - non per nulla «I cartoni animati sono sempre la migliore spiegazione delle cose che non capisci ...» (p.138) -, ce ne elenca un resoconto ab origine, dalle prime armi, all'avventura con un transessuale, alla relazione con Marina, la sua ex ragazza, per finire con Francis, una ballerina del posto che si invaghisce della perversa innocenza di Michele. Diversamente dai racconti di Superwoobinda, questa volta il romanzo culmina in un rassicurante lieto fine nel matrimonio dei due e nel paradiso ritrovato dell'Ikea, ma, così come era avvenuto al DJ Westwood di Franzoso, non senza che qualche ombra di malessere esistenziale, di "nausea"sartriana in formato tascabile e finalmente abbordabile, faccia presa su Michele: di fronte all'inaspettata profferta sessuale di Francis, a quella inedita novità con cui la vita lo sorprende, Michele sarebbe tentato di rinchiudersi nel bozzolo del suo mondo conosciuto e tranquillizzante, quasi preso da un senso di vertigine, «Mi chiedo chi è lei, chi sono io» (p.182), sfociato nella mancata erezione della sua prima volta con la nuova compagna. Ma Michele, guarda caso perfetto omonimo del protagonista de L'indifferenza moraviana, è "X"fino in fondo, non può lesinarsi alla vita negandosi ai cambiamenti che questa gli riserva, e pertanto noi sempre "ipocriti lettori", stretta o non stretta dobbiamo infilarci in quella vitaminica postazione di ricambio percettivo, condividerne pienamente, se possibile, gesti e comportamenti, strambi e candidi che siano, così potenzialmente e intimamente nostri. [Fabriano Fabbri]


A. NOVE, Superwoobinda, Einaudi, Torino, 1998, £. 14.000

La misura del racconto sembra essere fin troppo fuori luogo se applicata a Superwoobinda, data la «brevità» che raccorda le cinquanta e passa storielle che lo compongono; semmai, per Nove il taglio giusto è quello dello spot o del cartellone pubblicitario (o del "lotto"da televendita, come preferisce lo scrittore), che si sanno perfettamente adatti a celebrare prodotti destinati a un consumo di massa, già bell'e pronti per essere distribuiti nei supermarket e nei centri commerciali con confezioni accattivanti, colorate, seducenti. Più in generale, tutti gli stereotipi che sgorgano a fiotti dal mondo della TV, del cinema, del fumetto, dei video-clips ecc. ammaliano con promesse di desideri, di fascino, tanto che proprio questo universo dei mass-media diventa il termine di confronto e di paragone di ciascun personaggio della bella raccolta di Nove: le merci "mass-mediano"la loro vita quotidiana, iconizzano ogni brano della loro esistenza, che per effetto di questo appiattimento viene ad assomigliare sempre più a un catalogo promozionale, a un successione di immagini stampate. Ma allora, siamo veramente sicuri di avere a che fare con personaggi in carne e ossa, dotati di una loro psicologia, di uno spessore reale, al punto da indurre addirittura, colpevoli i soliti critici benpensanti, le diagnosi rovinose di una umanità allo scatafascio? Possibile che non si vogliano leggere gli spots di Nove con quella «leggerezza», con quell'obbligo assoluto di essere disimpegnati, ironici, che oramai si è imposto come gusto dominante della narrativa "alla MTV"? Per dirla in parole povere, Nove capisce bene che la cultura contemporanea deve fare i conti con ogni prodotto inventato e divulgato dai mass-media, che l'artificio mitomodernista è diventato un fenomeno così straripante da apparire, alla fine, più naturale che mai, e dunque gli abitanti di "Spot-landia"non rientrano affatto nelle normali categorie di verosimiglianza, essendo a loro volta stilizzati a stereotipi, a figurine senza peso. Ognuna di quelle sagome, infatti, provvede immediatamente a svuotarsi di qualche tratto individualizzante presentandosi col segno zodiacale, e del resto qualsiasi loro gesto è giustificato solo in base a motivazioni esterne, tutte inderogabilmente legate a un programma televisivo, a un jingle, a una band musicale, all'infinita cosmogonia del "già fatto"industriale che si assiepano uno dietro l'altro. Tuttavia, quell'enorme massa di merci luccicanti necessita di un montaggio accelerato, che magari la riscatti da una neutralità troppo ripetitiva, perfino ossessionante nella sua banalità: di qui l'inserimento di una vena improntata allo splatter, in grado di controbilanciare l'interminabile sequenza di stereotipi con un'abile miscela di umori corporali, di liquami, di escrementi, di sangue, di smembramenti ingigantiti fino all'iperbole. Insomma, il carosello di storielle diventa appunto uno "spot-pourri"dove marciume e putrefazione da un lato, e kitsch immacolato dall'altro, convivono in un amalgama equilibrato nelle proporzioni, ma certo cortocircuitato in contenuti e in situazioni che provocano risate liberatorie, e noi ce ne stiamo lì ad aspettare che avvenga il patatrac, che lo spot arrivi al suo punto critico, che salti per aria in tutte le sue colate di informe. Intendiamoci, l'ondata di materiali organici viene anch'essa pressata a bidimensionalità, ogni circostanza sottostà a una flatness che tramuta in formato fumetto o pellicola ciò che tocca, pulsioni erotiche comprese: i personaggi di Superwoobinda l'eros non lo vivono in carne ed ossa, lo "mass-mediano"da qualche film o rivista porno, oppure lo immaginano dai posters di avvenenti icone/top-models. Ma può fermarsi al sesso il processo di stereotipizzazione comica e sadico-perversa del mondo? Certo che no: oltre a personaggi-figurine e a sesso-figurine, lo strapotere dell'icona andrà a colpire anche il campo del sapere, e avremo così una filosofia dello yogurt come sostanza che compone il mondo (Lo yogurt); neanche la morte sfugge alla macina dello "spot-pourri", come in Drammatico caso nel mondo dello sci, dove il cadavere di un atleta gareggia per rispettare il contratto dello sponsor; oppure Lettera commerciale, con la riduzione a cartolina e a gadgets della morte di Fellini per riattivare il mercato delle bocce di neve (il massimo del kitsch), a cui si aggregano numerose altre tragedie realmente accadute, subito degradate a cliché. Forse un barlume di psicologia alcuni personaggi di Supewoobinda la possiedono anche, ma inutilmente, come invece avviene in Puerto Plata Market, andremmo a cercare nella loro "anormalità"un ricambio percettivo, qualche possibilità di vita autentica, o una nuova visione del mondo che non sia quella sospesa, altamente artificiale dei miti d'oggi, dalle rockstars ai supereroi: valga su tutti Quando si spaventano sono fortissimo, con una Trieste simile a un «... cartone animato...» (p.106) e il solito demente che si crede Diabolik, e infine Un mondo bello come le Spice che ballano, di nuovo la realtà equiparata a icona, quella entusiasmante ed eccitante delle Spice Girls, contrapposto alla tristezza della vita, che purtroppo è un «... concerto delle All Saints» (p.192). La "generazione MTV"lo stereotipo di massa lo ha metabolizzato da tempo, non potrebbe più fare a meno di queste cornici di gioco alle figurine, di artificio sfrenato, divertito: dopotutto, nella narrativa e nella cultura contemporanea anche la «leggerezza» ha il suo peso. [Fabriano Fabbri]


A. REZZA, Non cogito ergo digito, Bompiani, Milano, 1998, pp. 112, £. 20.000

Davvero non si esagera a insistere su una tendenza della narrativa "alla MTV" altamente mass-mediale, o più precisamente sintonizzata sulla stessa linea d'onda di una cultura vorace, che remixa generi e immagini, li riplasma, li ricicla, li reimpasta in nuove combinazioni, poi li cambia ancora, li riprende in un vortice di gioco e ironia: dei salti d'orbita alla "MTV", la Music Television che appunto rappresenta nel più efficace e chiaro dei modi questa compressione di materiali disparati in un prodotto unico, campionato, era ora, fra cultura alta e cultura basso-popolare, Non cogito ergo digito ce ne dà una dimostrazione perfino esemplare. Tanto per cominciare, già dal titolo sappiamo bene che uno dei corollari fondamentali della narrativa dell'«assenza», la narrativa totalmente basata sull'azione e sull'infittirsi della trama, disinteressata alla proposta di una nuova etica di comportamento, viene rispettato in pieno: facciamo pure a meno di cercare un "io", tra quelle pagine, visto che non compare un minimo accenno a una coscienza e a un corpo reali, a un personaggio in carne e ossa, e tanto meno a situazioni possibili, anche lontanamente. Ogni cosa, in quel romanzo-videogame, in quella insolita play station, risponde interamente a dinamiche di «leggerezza», «rapidità», si dissolve all'istante, e ciò implica un susseguirsi incessante di eventi quanto mai iperbolici e imprevedibili; se l'autore non "cogita" ma "digita", allora la metafora del computer va benissimo a spiegare il movimento di apparizione/sparizione del romanzo, quasi che Rezza aprisse un numero sempre maggiore di personaggi/files, decidesse di accantonarli momentaneamente, ovvero di ridurli a icona, di ripristinarli in altri contesti, oppure di chiuderli definitivamente. Basta che la girandola degli avvenimenti continui a turbinare in modo strampalato e demenziale, senza rispettare logica o regole, oppure, sì, la catena delle vicende può anche snodarsi con andamento "a domino", magari facendo modo che la parola o il personaggio di una frase accenda la miccia della serie successiva, si ponga come anello di congiunzione tra due scene che comunque sfilano senza continuità. Accade pure che quelle veloci schermate di avventure avvengano in parallelo, «nel frattempo», alimentando una storia che cresce su se stessa, aperta a un ventaglio di direzioni in aumento progressivo, ma del resto un universo del genere, a più dimensioni, non ha certo bisogno né di un punto di vista centrale, né di giustificazioni verosimili: prevale invece un non-sense diffuso, altamente compiaciuto di congegnarsi nei suoi meccanismi, di autopresentarsi senza alcuna pretesa di "dire" qualcosa, di agglutinarsi in un messaggio compiuto, e di nuovo il riferimento alla straordinaria assurdità delle sigle di MTV - che hanno solo il compito di celebrarne il logo, magari al motto dello slogan «No sense makes sense» della Network musicale visto poco tempo fa nei cartelloni pubblicitari - ci sta tutto, così come non guasta neppure un accenno al Woody Allen della celebre trilogia (Saperla lunga, Citarsi addosso, Effetti collaterali). Ad ogni modo, non è detto che un qualche crocevia di raccordo non si intrometta a sbrogliare la matassa, più o meno come un "VJ" che spezza il flusso di tutta quella immaterialità trasbordante di special effects, ma solo per fornirci qualche indicazione, a ribadire che «... non c'è da sorprendersi di fronte a questo ammasso di vicende che cozzano tra di loro sprigionando scintille di rada intensità» (p.26), e dunque tanto vale lasciarsi andare alle innumerevoli scorribande di tutti quei personaggi stilizzati al massimo, smaterializzati in un evanescente Supermario Nintendo della letteratura. Perfino Carlo, la figurina più gettonata del romanzo, quella che riemerge più di frequente, è un'altra entità diafana e incorporea che ci naviga in un non-luogo sintetico fatto di fondali di carta, o meglio, di bits elettronici. Senza contare che questa scenografia da computer-graphic preconfezionata può avvalersi di un frasario altrettanto in linea con la citazione e il luogo comune: accanto alla stereotipia dei protagonisti, c'è posto anche per i ready-mades del linguaggio, frasi fatte e modi di dire, debitamente campionati e alterati, manomessi in qualche particolare, giusto la scintilla che li renda meno ovvi. Insomma, questo libro "a più pretese", come recita il sottotitolo, digita in multitasking, su più aspetti contemporaneamente, inserendosi a pieno merito in un filone narrativo che parte da lontano, da Queneau, a de Chirico, a Bontempelli, su su fino a Borges e a Calvino: eccolo qui, mutatis mutandis, ben iscritto nel codice genetico della cultura odierna, dal romanzo al fumetto al video-clip, a tutta la cultura del software. [Fabriano Fabbri]

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