Matteo Meschiari e Francesco Benozzo
Permafrost (organum glaciale)
1. Fondamenti
Il permafrost è, in terre di grande freddo, il suolo permanentemente ghiacciato anche in
profondità. La Letteratura di Paesaggio (o letteratura imramica) è invece simile al terriccio che durante una breve estate sgela in superficie, favorendo la rinascita vegetale.
Scrivere paesaggi significa individuare in essi, con delicata empiria, un intreccio struttu-
rale, quindi, con lavoro di mimesi, narrare l'intreccio, rinunciando a rappresentare i luoghi come vedute tradizionali. Ogni paesaggio costituisce un problema di scrittura unico e irripetibile, come unica e irripetibile è la sua struttura. Quando lo scrittore di paesaggio vuole narrare una storia glaciale, anzitutto può individuare tre motivi, o flussi dinamici nello spazio e nel tempo: la roccia [B] e le dinamiche d'orogenesi e morfogeologia; il ghiaccio [A] e le dinamiche delle masse glaciali; i vegetali [C] e le dinamiche di spostamento delle specie. Ogni fascia di racconto va poi intrecciata alle altre, ma, anche nel continuum narrativo, deve essere autonomamente riconoscibile.
Questo per consentire una lettura tanto complessiva quanto tematica del testo, seguendo ora la generale polifonia (coesione), ora singoli motivi o punti di vista (molteplicità). Per visualizzare un testo imramico si utilizzano rientri di margine, che formano lemmi o 'stanze': roccia [B], margine rientrante a destra; ghiaccio [A], a tutta pagina; vegetali [C], margine rientrante a sinistra. Altre piste eventuali [D], margine rientrante a destra e a sinistra. Dove il flusso muta i rientri, il lettore è informato di un mutamento tematico; dove il flusso è interrotto da uno stacco grafico, il lettore è informato di un trapasso di prospettiva inerente allo stesso tema [A1, C1]. Nel primo caso si ha un mutamento del motivo internamente al punto di vista epico (uso dell'imperfetto). Nel secondo caso si ha un trapasso dall'epico al lirico, dove con lirico si intende una focalizzazione su elementi impermanenti come luce, suono, colore (uso del presente). A una voce narrativa autonoma [D], si può invece affidare una prospettiva ulteriore, che getta uno sguardo 'sonoro' su tutto l'intreccio, riallacciando in modo unitario, trascendendoli, motivi, connessioni, tempi (uso dell'aoristo). La struttura polifonica dell'organum glaciale qui sotto è la seguente:
I Prologo [DBCC1BAC] II Epopea [A1ABDBAA1] III Epilogo [CABC1CBD]
Permafrost narra la vicenda del glacialismo appenninico in età würmiana (20.000 anni
fa). Nel Prologo pre-glaciale si incontrano le vicende dei vegetali tropicali distrutti dall'irrigidirsi del clima. L'Epopea glaciale mediana è la storia dei ghacciai. L'Epilogo post-glaciale racconta il ritorno dei vegetali dopo il ritirarsi dei ghiacci. Sullo sfondo, e per tutto il racconto, restano le vicende di modellamento geologico ad opera di acqua e gelo. Come accade nei paesaggi reali, il lettore può decidere di viaggiare o indugiare solo in alcuni luoghi del racconto.
2. Palinsesti
Differenti sostrati epici 'marcano' in modo vischioso ciascuno dei tre motivi. La crudez-
za guerriera del germanesimo norreno (Carmi eddici, Snorra Edda, Landn mabĒk) nutre lo stile della vicenda glaciale [A, A1]; l'umbratile malinconia delle letterature celtiche (Lebor Gabala Erenn, Mabinogion, Kat Goddeu) connota gli impermanenti destini vegetali [C]; l'epica biblica (Esodo, Salmi) e quella romanza (Chansons de geste) permeano le dinamiche d'orogenesi e le battaglie morfogeologiche sullo sfondo [B]. Le focalizzazioni liriche sui vegetali [C1] passano attraverso il repertorio bardico vetero-irlandese (Dindsenchas), mentre la ricomposizione dell'unità polifonica [D] è strictu sensu imramica (Frammento di storia glaciale, Racconti di Monte Giovo).
3. Testo
I. Sulla contrada dei rigogli vegetali raffiche di venti piovosi giun-
sero da Nord, gonfiando i fruscii in sonorità più inquiete. Le ombre dei
boschi si accorciarono in correnti rade e meno cangianti, finché il viola
della penombra terrosa prese ad avvicendarsi al verde. Caddero nevi
sulle bordure inviolate, sul perdurare più statico dei sedimenti
d'orogenesi. Dapprima per rapide comparse, dopo il sole del mattino,
brevi quanto i fugaci pomeriggi. Poi anche d'estate, persistenti, impo-
nendo nuove durate. Fluttuanze di volumi si sollevarono come presenti-
menti sopra le anse digradanti, e il freddo si addensò nei vuoti dell'aria.
L'azzurro informe si avvicendò al bianco. Il crepitìo sommesso delle ul-
time piante, i loro fruscii pulviscolari furono coperti. Anche più lontano,
presso le distese bluastre dei nuovi acquitrini, l'unico suono udibile restò
quello coriaceo del ghiaccio in crescita. Stavano le valli in grande quiete, tagliate da
fiumi, con aspri declivi. Anguste, spoglie, erano tagliate da acque, scorrevano tumul-
tuose, a salti. Le pareti erano spoglie, taglienti, franavano da parte a parte, sul pietri-
sco. Sul pietrisco franavano, giacevano a strati. Lame e macigni ingombravano i salti, nel fondo dei burroni. Palme e sequoie vivevano, nell'età dei rigogli. Anche altre
specie lasciavano l'oriente. Proliferavano nell'asciutto fertile. Lottavano tra di loro,
alberi contro alberi, nella contrada tropicale. Magnoglie, lecci, palme nane ai mar-
gini. Fichi carichi di frutti. Arboscelli di lauro. Il vento andava, tra sottoboschi di cedri,
muovendo filamenti di liane. Nella stagione temperata fiorivano i dumeti. Il rosa
brilla raro nel verde. La copertura è profonda. Scura dove graffia le nubi. Ombrosa
nelle grotte mediane, dove vivono insetti. Ampia e aggrovigliata nei fondali senza lu-
ce. Sui tronchi lisci del cedro si avvinghiano rivi verdechiaro, dall'alto. Radici aeree
ondeggiano tra petali bianchi e gialli. Profumano i fiori carnosi, nei riflessi viola
dell'ebano. Stavano le valli in attesa solitaria, con pareti scabre, tagliate da
fiumi. Le pareti digradavano a salti, a gradini. Sul fondo scorrevano i fiumi, con
acque tumultuose. I torrenti scavavano, tagliavano, e da parte a parte rodevano
i declivi. I cumuli scivolavano in basso. Le lame, i macigni, il pietrisco si ada-
giavano a strati, nel fondo dei burroni. La brina cominciava a tornare, e tornava la neve, con inverni più freddi; cadeva a primavera, in autunno, e indugiava più a lungo, senza andarsene. La brina, l'acqua di superficie, cominciava a farsi spessa, a cristalli; cadeva la neve per lunghi tempi dell'anno, resisteva a macchie lungo le fasce d'ombra. Nevai allungati, tagliati dai torrenti, dentro, macchiavano i rilievi.
Le conche si riempivano lente, e la neve induriva, induriva la pioggia. I destini si rinnovavano a fatica. Cadevano fiori, si rattrappivano i germogli. Sulle bordure, le
prime schiere soccombevano. Sequoie. Palme. Magnoglie. Le stirpi del lauro muove-
vano verso l'alto. Dapprima si riducevano a erbe, e poi bruciavano, nel vento gelato.
Le piante arboree, invece, scendevano alle conche. Ma vi incontravano il freddo, che
stava addensandosi in alburni. E non c'erano pianure in cui migrare. Scorrazzavano
senza meta. Si rattrappivano all'interno, in modo lento. Prosciugavano. Si macerava-
no. Imputridivano, senza che l'aria le percorresse. Incenerite, quelle vite si avvolge-
vano di invisibilità, abbarbicandosi a sabbie, a granelli. In pochi licheni isolati, si
raccoglievano regni un tempo vasti fino ai due mari.
II. Nella tarda estate, al risveglio del ghiaccio, la luce del sole illumina i crepacci, la lu-
ce penetra nei reticoli azzurri, accende di verde i volumi dell'aria. La tensione del ghiaccio, i
moti di discesa, aprono a tagli le fredde superfici. Il vento le percorre in lungo e in largo. Le acque vi scorrono dentro. Molte luci e venti e acque corrono i crepacci, sui dorsi ingrigiti dei
ghiacciai. Cascate solide svaporano a valle; a valle, rochi, tuonano i seracchi. La brina gelava sulle fredde superfici, sopra le nevi dell'estate trascorsa; i cristalli arrotondati erano sabbia granulosa, ma al di sotto era tutto più saldo. Di stagione in stagione la neve hiacciava, si induriva, più compatta e vetrosa; e quando si colmava di ghiaccio, ogni conca, scivolavano in basso lingue sinuose. Il ghiaccio, il freddo minerale, si spostava, si spostava dall'alto verso il basso, da monte verso valle; instabile scivolava sui suoli, all'interno lo rodevano torrenti. Le colate di gelo circondavano i monti, diramate cingevano i rilievi; ad anello, attorno alle cime, macchiavano vaste i rilievi sommersi. Stavano le
valli sotto coltri striscianti, le masse in movimento, lente. I ciottoli scorrevano,
scavavano solchi, maceravano in sabbie i macigni. Le arenarie fini erano
incise. I profili scabri, aspri, si arrotondavano, le forme si scioglievano in
pietrisco, in sabbie, sul fondo dei burroni. E il ghiacciaio perdurò. Dal
profondo, dove le venature si allagavano di oscurità, l'eco atona del
suo solidificarsi percorse gli strati descrivendo durate. Un tempo lento,
vasto, unitario si impose, modellato da espansioni e assestamenti, da
silenzi azzurri. Le increspature effimere dei vegetali furono assorbite
nel suo abbacinante presente. Sfumarono. Le durate rocciose, ormai
permeate di solidi ruscellamenti, rallentarono, adeguandosi al suono
coriaceo, e talora sfrangiandolo in scricchiolii. E in quella diuturna
compensazione, vita e morte fluttuarono di continuo, trasfigurando
in gelo i cicli di vita. Fin ché la compattezza sonora non cominciò
a farsi più liquida; e in superficie, sulle coltri frastagliate, il fruscio
dei rivi di scioglimento divenne fragoroso. Stavano le valli contro masse
striscianti, abrase dal continuo fluire. Le coltri in movimento scavavano
circhi contro i fianchi dei monti, di pareti spogliate. Abrase, levigate, le
creste si facevano acute, con guglie, con denti, con aghi sottili. Spiccavano
selle strette, forme dentellate. L'erosione ammorbidiva i contorni dei fondi
dei burroni. Il freddo minerale, il ghiaccio, scorreva lentamente; tra com-
pressioni e distensioni, scorreva verso valle. Dove, più veloce, assot-
tigliava i suoi strati, si allungavano fenditure e crepacci. Il freddo minerale, i ghiacciai, scorrevano più lenti, so- vrascorrevano a strati inferiori; sotto cascate di ghiaccio, alte seraccate, sotto parti più ripide, aumentavano gli spessori. E al mutare del clima, con stagioni più calde, le lingue glaciali cominciavano ad arretrare; per gli alvei scavati nel tempo salivano a ritroso; scomparivano le colate, ritirandosi a monte. Il ghiaccio rimaneva, ormai, nei bacini originari, nei bacini d'accumulo il ghiaccio si scioglieva. La massa gelata diminuiva sotto i raggi del sole, venti più caldi dissolvevano i ghiacciai. Nella tarda estate, al risveglio del ghiaccio, fasce scure e chiare si alternano; con bande incurvate, dove si muove il flusso, le lingue dei ghiacciai alternano colori. Le fasce chiare sono traccia degli inverni, dell'estate lasciano tracce le scure. Così, chiaro e scuro si alternano, a strisce, a ghiacci variamente invecchiati. Il sole li illumina, li nasconde la notte stagionale, le coltri dell'inverno. Con scricchiolii nel tempo, con gemiti lenti, ripetono figure che si sciolgono.
III. Germogliavano verdi braci. Il vento le alimentava, spingendole in alto. Sui
licheni scivolava l'aria. Sotto le piogge frequenti, le braci generavano foglie nuove,
sottili, crenate, alterne sui ramoscelli. Le avanguardie risalivano. Soccombevano, ma
erano sostenute. Arbusteti di bacche rosse e nere. Si spostavano sui margini, rinno-
vandosi continuamente. Morivano e nascevano, con cicli veloci. Si adeguavano alla
stagione, come in attesa. La brina era spessa, sulle coltri nevose, le lingue dei nevai resistevano. Da primavera a autunno resistevano, i nevai, ma i nòccioli di ghiaccio venivan meno. La brina, l'acqua di superficie, cominciava a farsi sottile, a piccoli cristalli; cadeva la neve per periodi meno lunghi, si scioglieva a macchie sotto le fasce d'ombra. Poi, un mese sull'altro, gli ultimi nevai si disgregavano, tagliati dai torrenti, all'interno; e le conche di un tempo si svuotavano delle antiche che presenze. Stavano le valli in una
nuova quiete. I dossi sporgevano arrotondati, striati da vecchi passaggi,
abrasi. Incisi dai detriti riemergevano all'aria, levigati dai frammenti di
passaggio, dai sassi. Sradicati da vecchi movimenti, i ciottoli riappari-
vano alla luce, dopo piste nel buio, riammassandosi, adesso, in depositi
brulli, sul fondo dei burroni. Nella nebbia covano i verdi barlumi. Forme nuove pulsano accanto al bianco. Gusci al posto dei petali. Rami al posto delle liane. Foglie dentate e chiare tremano nel vento. Nascono nuove penombre sui movimenti di fondali più bassi. Trasparenze accese di germogli, pollini grigiastri. Nella nebbia si radunano le
schiere. Ramaglie e radici si ingrossano. Ai margini, le verdi schiere di cespugli si
ingrossavano. Come a ondate, ma prima per gocciolii, salivano le pendenze. Grappoli
di sassifraghe, erbe, fiori di cardo. E mirtilleti, ginepri immersi in essi, felci. Dalle
conche insediate, sempre più numerosi drappelli si muovevano. Ampie sedi si libera-
vano. E riprendevano a lottare, alberi contro alberi. Boschi di castagni, querce
dall'ampia chioma, piante dai tronchi chiari. Si disponevano sulle pendenze, spartendosi
la contrada. Nasceva una terra di faggi. Stavano le valli in un silenzio
diverso, costellate da forme diverse. I vecchi passaggi avevano raccolto,
e ora, ritirati, avevano abbandonato: curvi festoni di detriti, e morene.
Cordoni serpeggianti segnavano le valli. Depositi brulli, arricciati, lontani
dai siti di partenza, giacevano nel fondo dei burroni. Il tempo unitario si
dissolse. Strisciò a ritroso sui versanti, si schiacciò contro le rocce, poi
smise di pulsare. Sulle impronte quaternarie le durate dell'aria tornarono
a lambire quelle del suolo. E nuovi palpiti germogliarono, sopra i fondali
inclinati in movimento. Negli epiloghi di quiete del ghiacciaio strisciarono
fruscii di nuovi preludi. Sospinti in alto, inondarono le vite di arenaria, si
intrecciarono ai loro destini. La solitudine strenua degli ultimi nevai fu
accerchiata da dilagamenti verdi, dal suono simile a un'eco in crescita.
Il sole brillò sui detriti silenziosi, sopra la terra glaciale dei faggi.