In occasione del sessantesimo anniversario della sconfitta del nazifascismo
e della fine della seconda guerra mondiale, l’editore Fernandel pubblica
questa antologia di racconti dedicati al tema della lotta partigiana (Resistenza60,
a cura di Sergio Rotino, 12 euro). I sedici autori presentati sono tutti
nati dopo il ’45 e appartengono a diverse generazioni. A tutti è
stato chiesto di partire dal presente e di raccontare la Resistenza dal
loro punto di vista, con il loro stile, esprimendosi in piena libertà.
Ad aprire l’antologia, c’è un racconto bello e struggente di
Carlo Lucarelli sul dovere di difendere la verità e la memoria:
un partigiano ormai ottantenne rimane solo a “resistere” contro la solita
amministrazione di centrodestra che vuole dedicare una piazza ad un noto
brigatista nero.
L’imperativo morale di resistere alla vigliaccheria e all’arroganza
fascista è un tema che ritorna in molti racconti. In alcuni, si
presenta come una sorta di riflesso obbligato, una necessità che
irrompe nel quotidiano dei protagonisti, in alcuni casi, malgrado il loro
stesso volere.
Nel racconto di Gianluca Di Dio, il figlio di un eroe partigiano tenta
di prendere le distanze dalla propria storia familiare ed elabora una visione
cinica e disillusa di sé stesso e della propria esistenza: “io non
risolvo problemi, io faccio solo circolare soldi. Un vigile urbano del
benessere. Sto col benessere. Questo è il mercato no? Perché
dovrei essere diverso dal mondo che mi gira attorno?”. In realtà,
quando un ricco cliente gli confida le sue convinzioni razziste, con un
sorprendente scatto di
orgoglio trova il coraggio di rispondergli no e riaffermare quegli
stessi valori di giustizia e dignità che credeva ormai essere desueti
e dimenticati. Molto più amaro e cinico è il racconto di
Piersandro Pallavicini: in un albergo di montagna, uno scabroso scambio
di coppie va a monte a causa di una lite sui partigiani: “Sì, certo.
Gli stessi che hanno ucciso il nonno di mio cugino”. La situazione descritta
da Pallavicini è forte ed emblematica e la frustrazione provata
dal protagonista, incapace persino di spiegare il significato della parola
Resistenza ad un giovane africano, diventa una metafora inquietante dell’epoca
in cui viviamo. Agghiacciante nella sua semplicità espositiva risulta
anche il testo di Michele Rossi dove un ragazzo raccoglie la confessione
di un anziano appena accompagnato in ospedale. Lì, in un’atroce
epifania dell’orrore, ascolta il vecchio che ricorda una rappresaglia contro
i partigiani: “Così prendemmo le donne e i bambini e poi bruciammo
le case, bruciammo tutto. Poi stuprammo le donne. Poi donne e bambini li
abbiamo mandanti col treno su a Trieste, al campo”.
Tra gli spunti di maggior interesse c’è il continuo scarto di
stili, sensibilità e generi che caratterizza i racconti proposti
nell’antologia. Non è un caso che Francesco Pacifico costruisca
una finta storia di spionaggio, in cui i travestimenti e le messe in scena
dei protagonisti rappresentano il disperato tentativo di dare un senso
alla Storia e alle loro storie individuali. Ma è soprattutto in
“Progetto Grande Scimmia” che Laura Pugno osa e riesce nell’ambientare
un tipica ghost story in uno degli
appartamenti di via Tasso, dove le scritte di sangue che ogni notte
ritornano sui muri della casa assumono il significato di una straziante
metafora del dolore e della sofferenza.
In alcuni racconti si avverte infine tutta la necessità di trasmettere
ai giovani il significato e la memoria della Resistenza. Sono questi, forse,
i racconti più consapevolmente politici perché è proprio
nell’urgenza del dialogo tra generazioni che le istanze di quella lotta
in qualche modo rivivono, recuperano senso e vincono ancora. E se nei racconti
di Caliceti, Cacciapuoti e Ambrosecchio il campo di azione si sposta tra
i banchi di scuola, gli strumenti e le armi per “resistere” non sono tanto
i libri o la scrittura ma la stessa sensibilità, la spontaneità
e l’entusiasmo incontenibile dei ragazzi.
Un racconto di Gianluca Morozzi chiude l’antologia ed è abbastanza
sintomatico che su sedici racconti presentati sia solo questo l’unico in
cui compare un gruppo organizzato di militanti: anche loro resistono al
conformismo dei tempi e all’arroganza dei “nuovi politici. Dopo aver scovato
l’ultimo partigiano rimasto in vita, i ragazzi decidono, in modo folle
e geniale, di imparare a memoria tutti i suoi ricordi: “Capisce? Noi tre
ci stiamo imparando a memoria un pezzo del suo racconto, a turno. Così
che la sua memoria continui a vivere nella nostra memoria, e in quella
delle persone a cui racconteremo tutte queste storie”.
In ultimo, nonostante i numerosi e significativi spunti di interesse
presenti nell’antologia, segnalo alcuni motivi di perplessità. Innanzitutto,
c’è una deriva verso situazioni che veramente poco hanno in comune
con il tema della Resistenza. Nel racconto di Michele Governatori si apprende
che il protagonista ha deciso di “resistere” alla “cicciona” che ogni giorno
gli occupa il posto auto. E purtroppo non si tratta di uno svarione isolato:
Davide Bregola, con un certa vena di melanconia, racconta la storia di
un amico burattinaio che si ritrova a “resistere” contro la vita soffocante
di un matrimonio ormai fallito. S’intenda, il problema va oltre le intenzioni
dei due autori appena citati. Ma viviamo in tempi particolari, di grandi
e piccole ambiguità, e se il messaggio è che tutto si può
considerare resistenza, dalla lite condominiale ai problemi del quotidiano,
allora l’operazione proposta da Fernandel diventa piuttosto confusa, sicuramente
difficile da decifrare.
Forse sarebbe stato il caso di aggiungere una prefazione o una postfazione,
giusto per spiegare, chiarire e condividere con i lettori tutte le scelte
fatte. Sarebbe bastato poco.
Francesco Scalone, "Carmilla on line", 15 giugno 2005