Mettiamo in guardia gli osservatori maschili a fare di noi materia
di studio. Ci è indifferente sia il consenso che la polemica. Gli
suggeriamo che è più dignitoso per loro non intromettersi.
Mentre le giovani donne degli anni Settanta militavano nei
gruppi e nei collettivi non pensavano che la politica potesse diventare
la loro professione, la carriera da costruire. La loro esperienza consistette
nel “costruire gruppi effimeri, fragili, organizzativamente poveri e vacillanti,
scarsamente strutturati”. Più che l’impulso tradizionale dell’emancipazione
le muoveva il bisogno di liberazione, a cominciare dal vecchio lessico
usato per descrivere tipi di rapporti e ruoli sociali ricoperti da uomini
e donne (fidanzati, fidanzamento, matrimonio, concubini, sistemarsi, è
la mia signora, sono impegnata, sono libera, è zitella, è
scapolo, è signorina, è giovane, si è accasata, la
mia metà, mettere su casa, amo, non amo). Esso fu sostituito, nel
parlato e nello scritto, da nuovi modi di dire: il mio ragazzo, il mio
compagno, il mio uomo, si è messa insieme, ha o non ha il ragazzo,
è incastrato, non ha l’uomo fisso, ha tanti ragazzi, è
imbranata, mi piace, non mi piace.
La rivoluzione e la rivolta femminile degli anni sessanta e settanta
che operano questo mutamento lessicale sono il risultato del fatto che
le donne, soprattutto quelle più giovani, non vollero più
essere come le loro madri e nonne che avevano sostanzialmente accettato
il mito della maternità, della famiglia, dell’uomo, del compagno
o marito, della specificità della loro condizione diversa e diseguale
da quella dell’uomo. Questo fatto della rivolta è l’oggetto dell’indagine
storica che scava lungo diverse direzioni: dalla rivoluzione sessuale alla
sessualità al femminile, dalla rivoluzione clitoridea all’autocoscienza
delle femministe in movimento, dal compagno-marito-operaio alle giovani
donne in doppia militanza.
Il libro ricostruisce le vicende e i diversi livelli di consapevolezza
della problematica nel momento espansivo e ascendente del movimento delle
donne, che sfidava un sistema sociale ben radicato. L’orizzonte del femminismo
è irto di difficoltà “la liberazione della donna non può
essere opera altro che della donna stessa. Solamente lottando contro la
società e contro se stessa, la donna può conquistare dignità
umana e quindi trasformare l’atteggiamento dell’uomo in rispetto, solidarietà,
eguaglianza” (p.199); non esistendo “sul nostro pianeta altri oppressi
che vadano a letto con gli oppressori, li desiderino, li amino, ci facciano
insieme dei figli, ne condividano la condizione sociale, la miseria o i
privilegi, i ricordi, le speranze, i timori e i linguaggi… le donne erano
costrette a ricercare e inventare un possibile rapporto con l’uomo completamente
nuovo, una felicità inedita”. Spesso quelle donne ponevano più
problemi che soluzioni, in un contesto, tra il ’68 e il ’77, in cui il
ritorno a Marx si accompagnava a una nascente e insidiosa crisi del marxismo.
Si vorrà scusare questo susseguirsi di citazioni, ma era necessario
al fine di ricostruire la cornice del quadro della situazione di allora,
perché la situazione attuale non lascia trapelare le lotte che ci
sono state e lo storico deve ricostruire lo spirito del tempo. L’autore
esplora quel mondo con fonti scarsamente considerate: le canzoni di musica
leggera, la posta delle lettrici dei settimanali femminili, i documenti
dei gruppi femministi, i sondaggi e le inchieste Doxa, che fungono
da tessere di un mosaico estremamente complesso, in cui si intrecciano
demistificazione intellettuale, azione collettiva militante e liberazione
individuale.
Agli inizi dei anni sessanta una lettrice chiede: “Quando
bacio colui che amo devo mettergli anch’io la lingua in bocca?... Posso
toccarlo anch’io?”. Nel febbraio del 1976 fu coniato il termine “femministine”
per indicare le sedicenni che organizzarono il loro primo sciopero nelle
scuole romane, erano ipercritiche verso coloro che avevano spianato la
strada: “ l’autocoscienza non basta, è un mezzo per conoscerti e
per conoscere la realtà, ma bisogna trovare degli sbocchi fuori”,
oppure “non ho problemi pratici nel senso che posso uscire, posso prendere
la pillola, i miei genitori me l’ho concedono (pp. 215-216)”; sono testimonianze
che da un lato indicano la strada percorsa nel costume e nella mentalità
dal femminismo e dall’altro il depotenziamento della sua carica dirompente.
Occorre considerare che la spinta verso una sessualità libera
e consapevole si avvantaggiò della comparsa di un nuovo anticoncezionale
come la pillola e dalla regressione pressoché totale delle malattie
trasmesse per via sessuale. Nel Novecento, il periodo che va dagli anni
quaranta agli ottanta, dalla pennicillina alla comparsa dell’Aids, è
l’unico dell’intera storia umana, in cui la sessualità fu libera
dalla malattia.
Contestualmente le donne, per liberarsi dall’asservimento economico
del lavoro domestico al servizio dell’istituzione famiglia, hanno cercato
il lavoro remunerato. Sono entrate nel mercato del lavoro sommando il lavoro
produttivo al lavoro riproduttivo, dove, però, anziché trovare
la conquista della libertà di scelta e l’indipendenza della propria
soggettività, hanno trovato il conflitto di classe e il conflitto
di genere.
Che la rivoluzione sessuale fosse necessaria lo attesta un’inchiesta
Doxa del 1973 da cui emerge che “più del 45% riteneva imperdonabile
l’infedeltà femminile mentre meno del 19% giudicava allo stesso
modo quella maschile, nel 1977 ben il 58% delle mogli intervistate dichiarava
di avere rapporti extraconiugali; egualmente il desiderio di trovare marito,
che nel 1962 era l’aspirazione dell’82% delle donne, scendeva nel 1973
a meno del 29%” e nello stesso tempo “una persona su dieci non aveva mai
avuto rapporti sessuali, le donne sopra i cinquant’anni non ne avevano
quasi più, mentre i loro maschi si accoppiavano con ragazze o con
prostitute e l’orgasmo femminile era ancora tutto da conquistare” (p. 70).
Il materiale infiammabile era tale che, con la scoperta e la
rivendicazione dell’orgasmo clitorideo rispetto a quello vaginale
e con la possibilità di separare il piacere femminile dall’atto
riproduttivo, inevitabilmente il conflitto divenne incandescente, “politicizzando”
il coito.
Questo per le rose. Per il pane le rivendicazioni erano altrettanto
radicali, rese possibili dal protagonismo delle giovani operaie e stendesse
che metteva in discussione la specifica divisione del lavoro del modo di
produzione capitalistico, imputando ai compagni maschi di non vedere la
portata dell’emarginazione della donna, funzionale ai rapporti di dominio
su cui si fonda il sistema sociale: non solo la riduzione dell’orario
di lavoro per rendere possibile anche agli uomini di occuparsi della casa
e dei figli, la depenalizzazione e la gratuità dell’aborto e della
sterilizzazione, l’autogestione del corpo, l’accesso gratuito all’asilo
nido e il salario domestico, ma anche, peculiarità di “Lotta femminista”,
un’indennità per la donna costretta ad abortire, in quanto “restare
incinta è un incidente sul lavoro. Fare l’amore, infatti, è
un prolungamento notturno del lavoro domestico a cui siamo costrette
senza nessun dispositivo di sicurezza adeguato”.
In questo contesto emerge l’originale elaborazione teorica di Carla
Lonzi che, diffidente verso la contestazione giovanile e la rivoluzione
sessuale, afferma: “Contraccettivi, aborto, sterilizzazione, rivelano un’incongruenza
del mondo patriarcale che, invece di porre in discussione il modello
sessuale procreativo come modello “naturale”, lo riconferma mobilitando
una serie di misure che rendono l’atto procreativo non-procreativo”.
Le carenze e l’immaturità teorica della nuova sinistra hanno
impedito che questa impostazione attraversasse proficuamente lo scenario
sociale dispiegando il suo potenziale di trasformazione politica. Tuttavia
se oggi un’artista o una manager può liberamente dire di essere
lesbica è anche grazie alle lotte e alla militanza di tante femministe.
Non si deve dimenticare che il loro orizzonte era più ampio
e merito del libro è di ricordalo oggi, storiograficamente
e politicamente. Dopo gli esiti degli ultimi referendum è necessario
tornare a riflettere su quegli anni perché sorge il dubbio che realmente
in molte donne normali ci sia stata ricezione di “discorsi basati sul concetto
di libertà e dignità” e che il lascito della rivoluzione
femminista, messosi “in moto nella testa di chi non vi aveva preso parte
o vi aveva giocato un ruolo marginale” (p.218), sia stato destinato a permanere
e ad agire nei rapporti sociali.
E’ vero che l’autore è venuto meno all’ingiunzione di
Carla Lonzi, ma storiograficamente l’ha fatto con dignità,
ubbidendo a quella di Engels: “Il primo antagonismo di classe che fa la
sua apparizione nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo
tra uomo e donna in un regime monogamico, e la prima oppressione di classe
con l’oppressione del sesso femminile da parte di quello maschile”. Non
si può rovesciare l’una senza l’altra: un compito difficile sia
per il nuovo movimento operaio che per le femministe, ma non è escluso
che, contrariamente a quanto possa apparire, si siano create le condizioni
perché oggi possa essere intrapreso con esiti migliori rispetto
a quelli di 25 anni fa. Si può giungere a questa conclusione tenendo
presenti i contenuti radicali rispecchiati dalle modalità
narrative adottate, che aiutano a cogliere l’intenzionalità ermeneutica
dell’autore e rendono il libro consigliabile come sussidiario per una auspicabile
“scuola dell’obbligo di fenminismo”, sia per il genere femminile
che per quello maschile, nonché come testo per corsi universitari,
magari interdipartimentali.