Intento dell'autore è oltrepassare le acque insidiose che separano
la "storia criminale" - così viene qualificata gran parte di ciò
che è stato scritto - da una vera e propria storia del caso Moro.
Ci si vuole cioè allontanare da ciò che è ritenuto
ancora avvolto dal mistero per usare le fonti concrete a disposizione degli
studiosi. Giovagnoli cita in proposito gli squarci di luce provenienti
dall'analisi delle lettere di Moro operata dal fratello Alfredo Carlo (
Storia di un delitto annunciato . Le ombre del caso Moro , Editori Riuniti,
1998), la critica di molteplici fonti elaborata da Valdimiro Satta ( Odissea
nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione della
Commissione Stragi , Edup, 2003) e, soprattutto, lo sforzo di Marco Clementi
che, secondo l'autore, "per primo si è posto il problema di 'fare
storia del caso Moro'" ( La "pazzia" del caso Moro , Odradek, 2001).
Di storia politica, comunque, qui si discorre, "con particolare attenzione
al conflitto o ai conflitti che, sul piano etico, l'hanno accompagnata".
Infatti, il fulcro delle 382 pagine (di cui più di cento dedicate
alle note, da leggersi con non minore attenzione) è costituito dalla
puntigliosa analisi dei documenti e dei dibattiti maturati, nel corso del
rapimento, all'interno della Dc, del Pci e del Psi. Nessuna futura ricostruzione
potrà prescindere dalla caratterizzazione offerta da Giovagnoli
dei tre principali partiti protagonisti, e della maniera con cui si condizionarono
reciprocamente. La linea della fermezza costituì poi una scelta
obbligata per il Pci, che, come nuovo arrivato nella maggioranza, si vedeva
costretto a esibire credenziali di primo della classe in fatto di senso
dello stato, di fronte a una sfida che evocava i fantasmi del passato rivoluzionario.
Come osservato da Giovagnoli, e dallo stesso prigioniero, tale atteggiamento
rese difficile, se non impossibile, ogni trattativa condotta dalla Dc e
affievolì quella "fermezza flessibile" che richiederebbe un posto
accanto alle "convergenze parallele" nel glossario di quel partito. Lo
sforzo fu comunque bruciato in extremis dall'esecuzione della condanna
a morte da parte delle Br. Tale dinamica venne ulteriormente rafforzata
da altri partiti e dalle voci laiche che arrivarono a chiedere la pena
di morte, oltre che dal fronte compatto della stampa indipendente.
Se Giovagnoli è da una parte spietato nella ricostruzione del
condizionamento esercitato dal Pci sulla Dc, dall'altra si limita a registrare
gli orientamenti di vari centri di potere extrapolitici, stampa compresa,
fino a dimenticare il ruolo giocato dal "Corriere della Sera", allora in
mano alla P2, dall'autore pressoché ignorata in quanto parte dell'area
dei misteri per definizione non documentabili. Né egli si pone il
problema dei condizionamenti internazionali subiti dalla Dc e dal governo.
Ai tentativi di Craxi, e del suo partito, di smarcarsi da tale politica,
in modo da affermare una ritrovata libertà di manovra, Giovagnoli
dedica anche troppo spazio. Nell'economia del suo ragionamento sarebbe
stato forse più utile chiedersi con maggiore insistenza come e perché
tutti i tentativi di salvare la vita dello statista - da quelli sopranazionali,
in primis quello di Paolo VI, a quello di Craxi - furono così prontamente
respinti, o elusi, dalle Br. Secondo Giovagnoli la spiegazione va ricercata
nella logica della violenza che li ispirava, ma anche nel fatto che i diversi
interlocutori, condizionati dalla politica della fermezza, offrirono loro
contropartite scarsamente appetibili: riscatti economici o provvedimenti
unilaterali di grazia. Le Br erano in realtà scarsamente interessate
a un negoziato che avesse come obiettivo lo scambio di "prigionieri politici"
se si affrettarono a chiedere la liberazione di tredici carcerati, tra
cui il detenuto comune, politicizzatosi in carcere, Sante Notarnicola.
Secondo l'autore, le Br avrebbero oscillato tra il culto della violenza,
che amavano definire "militare", avendo come obiettivo l'insurrezione armata,
e quello di una politique politicienne , che le portava ad aspirare innanzitutto
a una sorta di riconoscimento giuridico della loro esistenza politica.
Questo scenario tutto italiano, secondo cui la partita intorno alla vita
del maggiore statista italiano si sarebbe giocata intorno a una questione
formalistico-giuridicistica, è, a un tempo, grottesca e affascinante.
Quasi che, per le Br, come per il ministro dell'Interno Cossiga, il rilievo
storico dell'Ira, o dell'Olp non fosse determinato dalle loro azioni armate,
ma da qualche ipotetico riconoscimento giuridico da parte britannica e
israeliana.
Ho l'impressione che l'autore stesso sia caduto in quel vizio di politique
politicienne che ripetutamente attribuisce ai protagonisti della vicenda.
Sarebbe stato forse più utile stare ai fatti. E il fatto principale
di quei cinquantacinque giorni è che nemmeno l'abilità politica
di Aldo Moro, di cui le sue lettere sono ulteriore testimonianza, è
riuscita a salvarlo dall'incudine costituita dallo schieramento della fermezza
e dal martello delle Br. Come in quasi tutte le situazioni di conflitto
violento, siamo in presenza di un partito trasversale, che, consapevolmente
o inconsapevolmente, è animato dalla convinzione che sia suo interesse
portare il conflitto medesimo alle estreme conseguenze (ritenendo queste
ultime comunque preferibili a qualsiasi situazione negoziata o di compromesso).
Nelle diverse fasi della vicenda, ricostruita nei suoi termini più
"politici" da Giovagnoli (utilità, ma anche limite, del lavoro),
di fronte a ogni tentativo di contatto negoziale prevale il sordo rifiuto
delle Br, quasi a rassicurare chi, dalle parte opposta della barricata,
lo interpreta, per definizione, e dal primo momento, come un cedimento.
È interessante osservare, a questo proposito, la logica opposta
degli interventi di Umberto Terracini, il quale, del tutto controcorrente,
sostenne, negli organismi dirigenti del Pci, che occorreva essere più
forti per mostrarsi "deboli" attraverso il negoziato e il compromesso,
implicitamente affermando che la linea della fermezza rivelava in realtà
la debolezza del potere statale e delle classi dirigenti.
Non si può comunque rimproverare un autore per non aver scritto
un libro diverso da quello che ha scritto, e per non avere, in questo caso,
ricostruito le rocambolesche vicende delle indagini tentate, e fallite,
e deviate, che altri autori, come il senatore Sergio Flamigni, hanno ampiamente
trattato. Altra cosa, però, è ignorare alcuni risultati incontestabili
di quelle ricerche, attribuendo genericamente il fallimento delle indagini
al presunto smantellamento dei servizi segreti e alla debolezza delle forze
dell'ordine. L'operato degli uni e delle altre ricorda in realtà
quello della marina svedese, a suo tempo impegnata nella ricerca dei sottomarini
sovietici che ne infestavano le acque. Un successo in questo tipo di partite
di pesca avrebbe potuto avere conseguenze più negative, per i pescatori,
di un nulla di fatto. Si può certo affermare che restano non documentate,
e solo ipotizzabili, le ragioni che hanno spinto i responsabili della sicurezza
dello stato a un simile comportamento. Ignorare il problema nel contesto
di uno studio finisce però per limitarne, se non inquinarne, il
significato.
Criticabile, perché ovviamente incoerente con l'impostazione
di storia politica del libro, è la scelta dell'autore di non ricostruire
in alcun modo la specificità della persona politica, e umana, di
Moro, che resta una sorta di convitato di pietra. Viene anche a mancare
la partita, con forti ripercussioni internazionali, che egli stava giocando
fino al suo rapimento. Giovagnoli giustifica implicitamente tale scelta,
accettando l'assunto, assolutamente indimostrato, secondo cui i rapitori
avrebbero scelto la vittima soltanto perché autorevolmente rappresentativa
del potere democristiano che essi intendevano colpire. A suo dire, al posto
di Moro, con analogo effetto, avrebbero potuto colpire Andreotti, Fanfani,
o magari Zaccagnini, che era pur sempre il segretario politico della Dc.
Secondo questa logica, cosa importa richiamare il profilo intellettuale
di Moro, epigono della comunità del Porcellino, tenace tessitore
non del compromesso storico, ma, in prospettiva, di una democrazia compiuta,
fondata sull'alternanza, come richiamato nell'intervista postuma, pubblicata
da Eugenio Scalfari? Che importanza ha richiamare, se non di sfuggita,
il fatto, altrimenti essenziale, che Aldo Moro, se fosse vissuto, con ogni
probabilità avrebbe potuto proseguire la sua opera dal Quirinale?
Opera che era ritenuta indesiderabile, non solo da Kissinger, ma dagli
uomini di stato che lo esclusero dal vertice informale di Guadalupa?
Un Aldo Moro eventualmente liberato avrebbe del resto potuto risultare
più destabilizzante delle Br, le quali, con la loro sola esistenza,
avevano contribuito alla sopravvivenza di un sistema politico destinato
a durare ancora per pochi, ma essenziali, anni. Moro era infine, e in senso
nobile, un conservatore, ma, come tutti i veri conservatori, praticava
un riformismo dalla lentezza esasperante. Aveva dunque ancora molto lavoro
da fare. Per ragioni politiche. Questo avrebbe potuto e forse dovuto spiegare
l'autore di un libro che, al di là delle perplessità che
può suscitare, è bene leggere. Anche al fine di non dimenticare.
Gian Giacomo Migone