Il libro raccoglie le relazioni presentate al seminario di studi La
resistenza contesa, che si svolse a Parma nel 2002, organizzato dal locale
Centro Studi per la Stagione dei Movimenti, un organismo che negli anni
seguenti ha ancora avuto modo di manifestare la sua capacità e intelligenza
nel costruire momenti di riflessione e di studio su aspetti che la storiografia
dell’Italia repubblicana sta cominciando ad esaminare. Il tema centrale
del convegno era il significato assunto dal riferimento alla tradizione
antifascista e alla memoria resistenziale in un momento di tesa conflittualità
sociale, politica e culturale quali furono gli anni Settanta. Si trattava
di considerare come un evento periodizzante per la storia italiana e per
la costruzione dell’identità nazionale repubblicana, quale fu la
lotta di liberazione del 1943-45, fosse stato assunto e riformulato dai
movimenti e dalle formazioni politiche della nuova sinistra.
Chi si occupa di storia della storia della Resistenza sa che la memoria
e la rappresentazione di quel fenomeno sono state costantemente modificate
e riproposte a secondo delle fasi della storia recente del nostro paese.
In particolare negli anni Settanta alla memoria della Resistenza, portata
avanti dai partiti dell’arco costituzionale, come si autodefinivano gli
eredi a vario titolo delle formazioni facenti parte del Comitato di Liberazione
Nazionale, si affiancarono altre letture e altri atteggiamenti che comportavano
un recupero che era anche presa di distanza del tema dell’antifascismo.
La nuova sinistra operò una revisione della Resistenza e dell’antifascismo.
Dopo un sessantotto che poco o per niente guardò a quell’esperienza
storica, perchè altri erano i suoi riferimenti (la Cina di Mao e
la rivoluzione culturale, Che Guevara, il mouvenent americano, L’Africa
di Lumumba, il Viet-Nam e i Vietcong), la strage alla Banca dell’agricoltura
di Milano del 12 dicembre 1969, riposizionò la nascente e dissacrante
cultura in formazione dei sessantottini riportandoli al tema del fascismo
e dell’antifascismo. Il fascismo non fu più considerato solo un
rapporto autoritario che percorreva i rapporti tra gli individui e le istituzioni
repressive, come era stato riconsiderato nel ’68, divenne un pericolo reale,
una possibilità storica per le classi dominati messe in difficoltà
dalle rivolte studentesche, operaie, giovanili. Se questo pericolo tornava,
era segno che la celebrata Resistenza dei partiti istituzionali in qualcosa
aveva fallito: aveva combattuto un fenomeno, il fascismo, lo aveva vinto,
ma probabilmente, si cominciò a pensare e a dire, non aveva estirpato
le sue cause. Quelle cause furono ricondotte in generale al sistema capitalistico,
il cui ventre era ancora sempre pronto a ripartorire il mostro, come aveva
scritto Bertolt Brecht, e, nello specifico italiano, alla continuità
degli apparati statali che erano passati indenni dalla monarchia a statuto
albertino, al fascismo, alla repubblica costituzionale e parlamentare.
In particolare il nuovo antifascismo indirizzò la sua attenzione
non solo al pericolo rappresentato dal Movimento Sociale Italiano e da
tutti quelli che al fascismo ancora si richiamavano, ma anche all’occupazione
del potere governativo e statale operata dal partito della Democrazia Cristiana.
Se il fascismo era nuovamente un pericolo allora occorreva attrezzarsi
per condurre contro di esso una lotta militante, nacque così l’antifascismo
militante, reso vivo e attuale dalla pratica, da contrapporre a quello
celebrativo nella ricorrenza stabilità dal calendario ogni anni
il 25 aprile. Contro l’imbalsamazione dell’antifascismo e della resistenza
a mera celebrazione istituzionale, con la fanfara, il prete, il vescovo,
il sindaco, il vecchio reduce partigiano, avevano già protestato
le sporadiche voci delle riviste del dissenso degli anni sessanta, denunciando
anticipatamente l’insofferenza di una nuova generazione che non accettava
di ricevere in eredita una bandiera da custodire, ma voleva sventolarla
ancora nel contesto della nuova conflittualità che si manifestava
allora in Italia. Si venne quindi a creare una contesa sul significato
da attribuire alla Resistenza tra i partiti della sinistra storica (socialisti
e comunisti) e le formazioni, a base soprattutto giovanile, della nuova
sinistra. Contesa che è ben rintracciabile nei manifesti politici
che richiamavano il tema dell’antifascismo e della Resistenza, prodotti
in quel decennio. Questo è stato il supporto documentario (una mostra
dei manifesti) che ha accompagnato il convegno di Parma del 2002, chiamando
gli storici al confronto con questa fonte un po’ insolita (ma utilissima)
per cogliere specificità, differenze s somiglianze. Il libro contiene
quindi un discreto numero di immagini di manifesti che accompagnano le
relazioni di Antonio Parisella sui diversi percorsi attraverso cui i conflitti
politici degli anni Settanta si riallacciarono alla memoria della resistenza,
di Andrea Rapini sul rapporto tra antifascismo e nuove generazioni colto
in due momenti particolare: quello del luglio 1960 e quello dopo la strage
di Piazza Fontana del 1969, di Diego Melegari sugli elementi di differenza
e di continuità tra le varie declinazioni politiche dell’antifascismo
a partire dalle immagini dei manifesti politici e di Gloria Bianchino sull’uso
dei manifesti e dell’immagine come veicolo di memoria e di identità
collettiva. Conclude il lavoro una lunga e dettagliata “cronologia su neofascismo
e antifascismo dal 1960 al 1980” curata da Marco Baldassari e Diego Melegari.
Diego Giachetti