Un movimento figlio dei partiti che non seppe andare oltre l'utopia.
Sessantotto, i conservatori con l'eskimo
Nel senso comune il Sessantotto, per chi lo ama come per chi lo detesta,
è sinonimo di svolta, spinta innovativa, cambiamento profondo di
mentalità e costumi. Ma non tutti la pensano così. Qualcuno,
dopo averne studiato le origini, afferma che, almeno in fatto di cultura
politica, in Italia la contestazione giovanile nacque vecchia.
A sostenerlo sono gli storici Giovanni Orsina e Gaetano Quagliariello
nell’introduzione di un volume, La crisi del sistema politico italiano
e il Sessantotto (Rubbettino, pp. 560, euro 28), che raccoglie numerose
interviste a protagonisti della vita studentesca negli anni Sessanta -
da Achille Occhetto a Nuccio Fava, da Aldo Brandirali a Franco Piperno
- alcuni dei quali tuttora sulla breccia.
«A nostro avviso - spiega Quagliariello - la carica idealistica
ed eversiva del Sessantotto in realtà rilancia i miti di rinnovamento
radicale tipici delle forze che avevano fondato la Repubblica. Ciò
legittima il movimento studentesco come vero erede della Resistenza e delle
sue speranze deluse, mentre indebolisce i partiti storici, nei quali l’attacco
dei giovani risveglia il complesso di colpa per aver tradito le proprie
originarie aspirazioni ideali». I più sensibili al richiamo
sono ovviamente i docenti progressisti: per esempio a Milano i filosofi
Ludovico Geymonat e Mario Dal Pra, ricorda Mario Capanna, non esitano a
recarsi a San Vittore per consentire agli studenti arrestati di sostenere
gli esami nelle loro materie.
Il discorso tuttavia vale anche per la Dc. Nel libro Silvano Bassetti,
contestatore cattolico poi passato a Lotta Continua, racconta che Aldo
Moro lo ricevette e lo ascoltò con grande attenzione e altrettanta
angoscia. E Luigi Covatta, all'epoca leader studentesco della stessa area,
narra di aver strappato al segretario democristiano Mariano Rumor i fondi
per un convegno sul Vietnam. «In quegli anni - commenta Quagliariello
– si fa strada nella Chiesa la teologia della liberazione, che legge le
tesi del Concilio in chiave rivoluzionaria. E non dimentichiamo che Moro
è un ex dossettiano».
«In sostanza - aggiunge Orsina - la classe politica riconosce
i contestatori come figli suoi, che le rimproverano le promesse inadempiute
del centrosinistra, alla cui retorica radicale è seguita una prassi
moderata. Non a caso, come risulta da varie interviste, l’incubazione del
Sessantotto avviene nei gruppi, di fatto legati ai partiti, che animavano
i parlamentini studenteschi dell’Unione nazionale universitaria rappresentativa
italiana (Unuri). Sia i cattolici dell’Intesa sia i socialcomunisti e i
laici dell'Unione goliardica (Ugi), nel periodo precedente al 1968, cercano
di adeguarsi al vento movimentista che soffia negli atenei, tanto da rigettare
il loro patrimonio storico di forze istituzionali. Ma non sanno dare uno
sbocco alla spinta dal basso, che monta fino a travolgerli».
La situazione diventa così ingovernabile. Naufraga la riforma
universitaria proposta dal ministro democristiano Luigi Gui, di cui pure
oggi alcuni strenui oppositori di allora, come Claudio Petruccioli e Marco
Boato, riconoscono la validità. All’ultimo congresso dell'Ugi il
candidato dei partiti Valdo Spini prevale su quello dei movimentisti, Luigi
Bobbio (figlio del filosofo), solo grazie a manovre che tuttora Renato
Nicolini e Paolo Flores d’Arcais bollano come truffaldine. Ma non serve
a nulla, perché l’Ugi è ormai morente e Spini ne sarà
soltanto, secondo la tagliente definizione del suo sponsor di allora, Gianni
De Michelis, «il Romolo Augustolo» (ultimo imperatore romano
d’Occidente).
«Manca in Italia - osserva Quagliariello - una risposta forte
al Sessantotto, un confronto aperto tra valori alternativi, che invece
si manifesta in Francia con il grande corteo gollista sugli Champs Elysées
a Parigi. Perciò da noi le agitazioni si trascinano per molti anni,
allontanano la politica da una prospettiva di modernizzazione occidentale,
con il rifiuto della democrazia delegata in nome di una vuota utopia assembleare,
e di fatto ostacolano il rinnovamento del Paese».
Poi c’è il capitolo violenza. Secondo Orsina, «la radicalizzazione
del movimento non è frutto della repressione dello Stato, ma piuttosto
della sua inerzia, dovuta alla cattiva coscienza della classe dirigente».
E la strategia della tensione, che comincia nel 1969 con la bomba di piazza
Fontana? «Non voglio sottovalutare le stragi, ma è indubbio
che il sistema regge alle minacce autoritarie e rimane saldamente democratico.
Mentre i contestatori che enfatizzano il pericolo di destra, presentando
come fasciste anche le forze moderate, non fanno che contribuire a delegittimare
le istituzioni».
Ma questa lettura non è troppo incentrata sull’Italia, visto
che il Sessantotto tocca tutto l’Occidente? «La nostra - risponde
Orsina - è una ricerca limitata al versante nazionale di un fenomeno
globale. In tutto il mondo, alla fine degli anni Sessanta, si tenta di
recuperare lo spirito del 1945, i sogni di pace e giustizia congelati dalla
Guerra Fredda. Ma in Italia tali caratteri si accentuano e al mutamento
culturale, frutto della frattura generazionale e del boom economico, si
accompagna un pesante immobilismo politico».
Per chiarire il concetto, Quagliariello cita un recente saggio dello
studioso americano Paul Berman, Power and the Idealists (Soft Skull, pp.
314, $ 23,95). «L'autore parte dalle famose foto in cui il futuro
ministro tedesco Joschka Fischer picchiava un poliziotto, ai tempi della
contestazione, per esortare i reduci del Sessantotto a fare i conti con
il passato e a sposare senza riserve la democrazia liberale. Solo così,
secondo Berman, la spinta ideale di allora si può recuperare in
positivo. Io temo che in Italia tale riflessione sia mancata. Forse per
questo da noi gli ex del Sessantotto si trovano al vertice soprattutto
nei media, da critici esterni della politica, piuttosto che (come Fischer)
al governo, dove è necessario assumersi precise responsabilità».
Il presidente del Consiglio, dopo gli scontri di Valle Giulia a Roma, ricevette
il contestatore Silvano Bassetti: con lui si mostrò interessato
al movimento e molto angosciato per il pericolo che sfociasse in conflitti
violenti Espulso all’epoca dalla Fgci per le sue idee trozkiste, il direttore
di «MicroMega» accusa i giovani dei partiti di aver truccato
il congresso dell’Ugi del 1967, a Rimini, in cui fu eletto presidente dell'organizzazione
il socialista Valdo Spini L’allora ministro democristiano della Pubblica
istruzione propose un progetto organico di riforma universitaria che oggi
viene elogiato anche dai più accaniti avversari di un tempo, come
Marco Boato e Claudio Petruccioli Il futuro assessore alla Cultura del
Comune di Roma fu tra i protagonisti delle occupazioni nella facoltà
di Architettura, una delle più turbolente. Andò anche a Cuba
per un congresso nel quale parlò Che Guevara Il filosofo marxista,
insieme al collega Mario Dal Pra, si recò nel carcere di San Vittore
per consentire a Mario Capanna e ad altri studenti, arrestati dalla polizia
dopo i disordini in piazza, di sostenere regolarmente gli esami All’epoca
leader degli studenti cattolici dell’Intesa, il futuro esponente del Psi
assecondò le tendenze movimentiste negli atenei e convinse il segretario
della Dc, Mariano Rumor, a finanziare un convegno sul Vietnam. «La
classe politica riconobbe i ribelli come figli suoi, che le rimproveravano
le promesse inadempiute del centrosinistra. Mancò in Italia una
risposta forte, un confronto tra valori alternativi. Perciò da noi
le agitazioni durarono anni».
Com’era reazionario quel Sessantotto
Parlano i protagonisti di quella stagione: per loro il ricorso alla
piazza era una forma di democrazia Molti di loro non sono scomparsi. Tutti
sono invecchiati. Alcuni, come Occhetto e Petruccioli, erano giovani dirigenti,
allineati e ortodossi, del Pci. Uno come Luca Cafiero era già assistente
universitario e sognava spazi aperti a sinistra. Mario Capanna ancora oggi
dice che lui veniva dalla politica di marciapiede, niente partiti, niente
istituzioni. Paolo Flores D’Arcais era un eretico espulso dal partito.
Luciano Benadusi era un cattolico deluso dalla sinistra Dc. Franco Piperno
studiava a Pisa ed era presidente dell’Unione Goliardica. A Pisa c’era
anche Adriano Sofri. Valentino Parlato era in Brasile e quando il O68 arrivò
non ne fu entusiasta. «Mi appariva - ricorda - come un’ubriacatura
di libertà, senza un serio fondamento, ma il Pci usò questa
spinta in modo astuto. Il segretario Longo capì che queste forze
erano utili, forze delle quali appropriarsi, ma non da indirizzare in uno
sbocco di grande trasformazione sociale». Il Sessantotto è
un luogo del tempo da cui è difficile fuggire. È lì
che la modernità incrocia, impatta l’Italia e va in frantumi. Tutto
quello che viene dopo è la storia di questo impatto e dei suoi frammenti.
Ma il Sessantotto può essere raccontato come l’Antologia di Spoon
River dei sogni perduti, come una sconfitta della politica, come un problema
irrisolto. La crisi del sistema politico italiano e il Sessantotto (Rubettino,
pagg. 558, euro 28) di Giovanni Orsina e Gaetano Quagliariello è
anche questo. Non è - dicono loro - una ricerca sul Sessantotto,
ma uno studio su come la politica italiana reagì alla sfida della
contestazione studentesca. Le voci sono quelle di quarantuno protagonisti
di quegli anni. È un’antologia. È una ricerca che si basa
sulla memoria orale, ma è soprattutto un modo per fare i conti con
il Sessantotto sradicando i miti e le passioni, denudandoli, e portando
il discorso al nocciolo della questione politica: cosa è rimasto
dopo la tempesta, come l?Italia ha digerito l’impatto. La politica, negli
anni O60, fatica a contenere l’urto con la modernità. Forse serve
più tempo. Le masse sono entrate nella storia. L’operaio viene investito
di un ruolo mitico. È lui, l’operaio-massa di Mario Tronti, il motore
della storia. Lo dice il marxismo, lo dice anche chi il marxismo vuole
rileggerlo e rinnovarlo. L’esperimento politico del centrosinistra è
in una situazione di stallo. Servono le riforme, ma i partiti si mostrano
troppo rigidi e chi sta fuori non si accontenta. La tesi di Orsina eQuagliariello
è che il Sessantotto finisce per esasperare tutte le contraddizioni
di una situazione in bilico, tira fuori la parte più irrazionale
della cultura e del Paese, e non risolve nulla. È come entrare in
una casa dopo una festa di adolescenti, in terra ci sono cocci di bottiglia,
birra e alcol che rendono appiccicoso il pavimento, resti di cibo su sedie,
divani e tavolini, qualche ubriaco si aggira ancora solitario alla ricerca
dei ricordi e delle sensazioni perdute. Ma in tutto questo, qualcuno ha
evocato alcuni vecchi spettri. Il Sessantotto spazza via il cammino di
una sinistra riformista e riporta il conflitto politico a una situazione
di scontro esistenziale, senza compromessi con il nemico, dove si può
solo vincere o soccombere. L’altro non ha legittimità. L’altro non
può essere minoranza. L’altro può solo sparire. I leader
del movimento studentesco non nascono dal nulla. Ma spesso hanno alle spalle
i discorsi sulla «resistenza tradita», sulla rivoluzione imminente,
sul destino storico e necessario della sinistra. Sono figli che si ribellano
ai padri, ma che sono cresciuti comunque con un concetto di democrazia
che non è rappresentanza, parlamento, mediazione di interessi. Ma
è piazza, popolo, democrazia diretta, partecipazione, come si diceva
allora. «Non per caso - scrivono Orsina e Quagliariello - il radicalismo
sistemico intrinseco alla Repubblica fu utilizzato dagli studenti per mettere
in mora gli adulti, rovesciando su di essi una sorta di complesso di colpa.
È emblematico, per prendere un solo esempio, quello che Marco Boato
rinfacciò ai suoi interlocutori in uno dei primi contraddittori
televisivi, nel febbraio del 1968: la società attuale non è
forse la società uscita dalla Resistenza? Ma se la società
attuale fosse così come l’avevano progettata gli uomini della Resistenza
questo tipo di contestazione, questo tipo di lotte forse non sarebbe in
questi termini?». Il sistema politico in quegli anni è bloccato.
La Dc non vede possibile una ulteriore apertura a sinistra. I socialisti
hanno perso il loro ruolo di sponda. Craxi è ancora lontano e le
sue idee di autonomia socialista da Botteghe Oscure le applica all’Università
(e il suo avversario è già Occhetto). Il Pci evoca lo spettro
delle piazze in pubblico, e si adegua allo status quo in privato. Ed espelle
i giovani eretici. Il problema è che la società ribolle e
l’università è il termometro. La politica negli atenei non
è un’invenzione del movimento studentesco. C’era già prima.
C’erano i cattolici dell’Intesa, i social-comunisti dell’Unione Goliardica
italiana, c’erano i liberali dell’Agi e i post-fascisti del Fuan. Esisteva
un parlamento (chiamato Unuri), dove si sperimentavano formule politiche
innovative, come il compromesso storico del 1964 che portò il cattolico
Nuccio Fava alla presidenza con il voto degli studenti comunisti. E c’era,
appunto, lo scontro tra il riformismo istituzionale e l’estremismo movimentista.
Il Sessantotto sancisce la vittoria della seconda opzione e uccide la politica
nel nome della rivoluzione. Nel momento in cui si grida «tutto è
politica» si comincia a chiedere l?impossibile. Ma quando si chiede
l’assoluto la politica è morta. È questo il paradosso. Il
Sessantotto fallisce perché le sue richieste politiche sono incompatibili
con la realtà. Non sono richieste, ma sogni. Il sistema dei partiti
non si rinnova, ma si chiude e s’impantana. Il terrorismo esaspera tutto.
E chiude ancora di più le porte al nuovo. La modernità non
viene gestita, ma rifiutata o ignorata. Il risultato è il nostro
presente.