Silvia Casilio ha avuto “coraggio”. Ha messo le mani fra le carte e
le foto e le canzoni e le emozioni, per raccontare e tracciare percorsi
periodizzanti di storie accadute in Italia nel cuore degli anni Settanta.
Il libro condensa quattro anni fittissimi di storie, che vanno dal 1974
al 1978 e che hanno per protagonisti: i movimenti giovanili, i gruppi politici
nati dal “biennio rosso” del ’68-’69 (Lotta Continua, Avanguardia Operaia,
il Manifesto), quelli dell’autonomia, dopo lo scioglimento di Potere operaio
nel 1973, le formazioni terroristiche, dalle Brigate Rosse a Prima Linea.
Si tratta di soggetti politici e sociali che vivono e provocano eventi
da cui, alla fine, sono travolti. Non a caso il libro (e con lui il periodo)
si chiude col rapimento Moro per opera delle Brigate Rosse e il suo assassinio
nel 1978.
Da buona storica in formazione, questo è il suo primo libro,
mette al lavoro concetti che guidano l’opera e tengono le fila di un discorso
e di tante storie che solo apparentemente sono sparpagliate, frammentate
e divise. C’è, forte, la presenza del concetto di generazione che
spacca e divide l’Italia in due fronti d’età, contrappone i giovani
studenti e i giovani operai agli istituti degli adulti: lo Stato repubblicano,
la scuola, l’università, i partiti costituzionali, i sindacati.
Una generazione che genera, alla ricerca d’istituti capaci di rompere la
gabbia esistenziale e politica di chi si sente di vivere in una società
bloccata, nuove organizzazioni politiche (molto più simili ai gruppi
che non ai partiti tradizionali), alcune delle quali sfociano nella pratica
della lotta armata e del terrorismo, che produce cultura e controcultura,
solidarietà, amicizia partecipazione, inseguimento di speranze e
di utopie in un contesto nel quale, finalmente, il “regno dei cieli” sembra
a portata di mano perché sta precipitando sulla terra (di qui le
ragioni del titolo immaginifico del libro).
Una generazione che produce rivolta, speranza e rabbia, che stimola
la lotta di classe nelle fabbriche e costruisce i consigli di fabbrica,
e che sa leggersi, decisamente e pervicacemente, per la prima volta nella
storia, al femminile, dando vita a quel singolare e secondo fronte della
lotta per la rivoluzione sociale dato dal movimento delle donne e dal femminismo.
Infine, presente e costante nell’analisi è il concetto di estremismo,
senza il quale ben poco si comprende di quel periodo e di quei movimenti,
inteso come atteggiamento di azione sociale o politica che rifiuta le regole
del gioco stabilite da una società-stato, non riconosce i suoi valori
e finalità, agisce per trasformarle radicalmente.
Prima ancora che una linea politica compiuta, lo si avverte in molte
delle citazioni prodotte dall’autrice, l’estremismo è, innanzi tutto,
un atteggiamento, un modo di porsi verso l’attività politica di
cui rifiuta, per varie ragioni e contingenze, la gradualità e la
parzialità degli obiettivi, tende a non porsi nell’ottica del negoziato,
della trattativa, del compromesso con l’avversario. Quindi, prima ancora
che un movimento o una corrente politica dotata di un progetto e di un’ideologia,
l’estremismo è un modo di porsi verso la società e le istituzioni,
che accomuna comportamenti di gruppi, ceti sociali, organizzazioni politiche
con scopi, matrici ideologiche e programmatiche anche diverse. E davvero,
questo aspetto esistenziale, di insofferenza per una vita che non si vuole
accettare, caratterizza uomini e donne di quella generazione; davvero per
loro l’esistenza precede la coscienza, la rivolta esistenziale li accomuna,
le scelte politiche coscienti li proiettano in un caleidoscopio di ideologie
e gruppi politici diversi. Tutti però sono agitati dall’immanenza
dell’azione, dall’impazienza rivoluzionaria vogliono cambiare il mondo,
i rapporti tra gli uomini e quelli tra uomini e donne.
Il quadro storico entro cui queste speranze travolgenti si manifestano
e si compiono, anche in modo efferato, è quello, colto con efficacia
e pertinenza, dell’inversione del ciclo che aveva caratterizzato la famosa
età dell’oro del capitalismo occidentale; infatti, la recessione
economica generalizzata, la crisi, del 1974-75 chiude una fase e ne apre
un’altra, del tutto nuova. La gioiosa, rumorosa ed esuberante sinistra
extraparlamentare, nata da pochi anni, è costretta a ridefinire
impostazioni e percorsi: da un lato la “triplice” (Avanguardia Operaia,
Partito di Unità Proletaria e Lotta Continua) e dall’altra i comitati
autonomi, l’area dell’autonomia e poi, terzo fattore, che comincia proprio
in quel frangente ad acquisire visibilità per le sue azioni prima
eclatanti e poi sanguinose, il terrorismo di sinistra. La violenza politica
è, evidentemente, uno dei temi discussi e all’ordine del giorno,
non fosse altro che per il susseguirsi, via via sempre più frenetico,
degli attentati e delle azioni violente. Ma sono anche gli anni della vittoria
del referendum per il mantenimento della legge sul divorzio (1974), della
grande avanzata elettorale delle sinistre istituzionali (PCI e PSI) nel
1975 e nel 1976 e poi dei governi di solidarietà nazionale, prima
con astensione comunista e poi con adesione del PCI alla maggioranza. Tutto
è raccontato e documentato, come tale susseguirsi di eventi fu vissuto,
considerato, analizzato, dalla stampa della sinistra alla sinistra del
PCI, con particolare attenzione, e questa è una novità interessante,
del rapporto critico che un’area del movimento e dell’autonomia operaia
cominciò a manifestare anche verso il gruppi della nuova sinistra,
quelli della “triplice”. Molto interessante è la lettura e la comparazione
tra il movimento del ’77 e quello del ’68. Si segnalano giustamente le
differenze, più che le somiglianze, a partire da una valutazione
della mutata composizione del soggetto sociale che si fa promotore di quel
movimento. Si colgono elementi interessanti di critica feroce della politica
che sfociano nell’abbandono della politica, nella valorizzazione estrema
del personale, del "fai da te", della ricerca della libertà individuale,
senza aspettare quella collettiva, che inizia ad assumere i toni di una
ritirata da un modo che non si ama e che non si ha la forza o la pazienza
di cambiarlo. E, infine, ultimo merito: quello di averci restituito, anche
nei suoi aspetti cruenti o inattuali, lo “spirito di un tempo”, cioè
le speranze, i desideri, le ingenuità che muovevano l’agire di quei
soggetti. Il mondo lo volevano cambiare, rivoltandolo a fondo, non modernizzare
come troppo spesso, col senno del poi ci viene ripetuto.
Diego Giachetti