Il libro di Andrea Rapini lascia un bisogno compulsivo di ragionare,
riflettere, pensare, costruire ipotesi di ricerca e stabilire correlazioni
inedite fra fenomeni storici e sociali. Il tema, sviluppato intersecando
la metodologia storica con gli strumenti concettuali in uso presso la sociologia
e la scienza politica, è “intrigante” e avvincente. La ricerca propone
un escursus sui modi di interpretare il passato (la Resistenza) da parte
di due segmenti giovanili costituiti da coloro che parteciparono attivamente
ai movimenti sociali del luglio 1960 e del ’68. L’idea, suggestiva nonché
ricca e prolifica di implicazioni, è quella della giuntura stretta
tra memoria e generazione. Ogni generazione ricostruisce il passato a secondo
dei bisogni e dei contesti storici politici nella quale si trova ad operare.
La memoria storica non è un lascito da museo, ma è una scoperta-ricostruzione
da parte della nuova generazione da cui attingere qualcosa di utile, per
affrontare i problemi e le situazioni nelle quali si trova a vivere; è
quindi una memoria storica che serve innanzi tutto alla vita.
Storicamente, precisa l’autore, l’antifascismo nasce alla fine della
Grande Guerra, contemporaneamente al fascismo, dopo l’8 settembre 1943
esso assume le caratteristiche della Resistenza, per concludersi con la
liberazione. Nella storia lunga dell’antifascismo la Liberazione appare
come un’esperienza bifronte, segna la chiusura della lotta partigiana e
con essa dell’antifascismo storico; inaugura il capitolo inedito del rapporto
stringente tra antifascismo e cittadinanza democratica. La prima pagina
di questo nuovo capitolo è rappresentato dalla Costituzione, la
quale, secondo Piero Calamandrei, altro non è “che lo spirito della
Resistenza tradotto in formule giuridiche”. Se la Costituzione sostanzia
la frattura con il passato totalitario, la situazione storica del secondo
dopoguerra, che vede l’inserimento dell’Italia nel blocco Atlantico e nel
mondo occidentale, con una democrazia preventivamente “protetta” dal pericolo
comunista, congela, relegandola al suo aspetto formale, la carta costituzionale
e lascia prevalere la moltiplicazione di elementi di continuità
col vecchio regime statuale su più piani: amministrativo, giuridico,
politico.
Negli anni Cinquanta la memoria della Resistenza è congelata
malgrado essa sia viva tra gruppi di giovani nati attorno alla seconda
guerra mondiale. Si tratta per lo più di una memoria individuale,
non socializzata e collettiva, che unendosi ai significati simbolici del
consumo giovanile, concorre a definire e a esprimere l’identità
dei giovani dalle magliette a strisce nel corso delle lotte contro il congresso
del Msi a Genova e il governo Tambroni nei mesi di giugno e luglio del
1960. Quell’evento evidenziava due potenzialità nuove. Emergeva
sulla scena un soggetto politico giovanile con stili di vita e bisogni
autonomi dagli adulti, alla ricerca di spazi di socializzazione con i propri
pari, di canali autonomi di comunicazione, di linguaggi originali. Quel
soggetto giovanile si apprestava a rileggere e a ridare significato nuovo
alla Resistenza e all’antifascismo. Prendeva corpo un antifascismo che
andava oltre il problema del fascismo come fenomeno storico per innervarsi
con le domande di riconoscimento dei propri diritti da parte dei giovani.
Una minoranza di questi giovani s’impegnò direttamente nell’antifascismo,
dando vita all’associazione Nuova Resistenza che chiedeva lo scioglimento
del MSI, l’insegnamento della Resistenza nelle scuole, il riconoscimento
degli organismi studenteschi. In quegli anni si ebbero nuove raffigurazioni
della Resistenza: celebrata, tradita, fallita, incompiuta. Per il centro
sinistra, appena salito al governo, essa diventava elemento legittimante
e fondativo. E’ in quegli anni che il 25 aprile assume un ruolo celebrativo
centrale e che il ministero estende lo studio della storia nelle superiori
fino al 1947.
La maggioranza della nuova generazione degli anni Sessanta però
rimase escluso da questa esperienza, crebbe nel disinteresse alla tematica
antifascista e alle narrazioni della Resistenza. Era come se l’antifascismo
fosse incapace in quegli anni di penetrare nell’immaginario, di entrare
nel patrimonio attivo della generazione del boom, dello sviluppo modernizzante,
del consumo. Così, i giovani che scoprirono la politica col movimento
studentesco sembravano ignorare la tematica antifascista. Altri furono
infatti i valori e i riferimenti del movimento del ‘68: l’antiautoritarismo,
l’antimperialismo, il terzomondismo e l’anticapitalismo operaista. Cert,
nell’ambito della denuncia dell’autoritarismo, ricomparve la parola fascista,
ma era completamente destoricizzata, sinonimo di autorità senza
autorevolezza, repressiva. Fascista era il Rettore che chiedeva l’intervento
della polizia nell’università occupata, il Preside che impediva
l’assemblea o sospendeva gli studenti più “agitati”, il padre che
non lasciava uscire la figlia la sera.
Le cose cambiarono nettamente dopo la strage alla banca dell’Agricoltura
in Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969. Quella strage e la seguente
strategia della tensione contribuirono alla riscoperta da parte dei movimenti
giovanili ed extraparlamentari dell’antifascismo, nella versione militante
come fu chiamato in polemica con quello istituzionale e il suo carattere
retorico ed impotente di fronte al dilagare della violenza fascista. Esso
ebbe due caratteristiche peculiari: il richiamo alla componente di classe,
riconducibile all’incontro con la tradizione storica dell’antifascismo
operaio, che aveva coniugato la lotta al fascismo con quella al padrone;
la tematizzazione e il ricorso a forme varie di uso della forza che potevano
contemplare la protezione dei cortei e dei militanti da parte dei servizi
d’ordine, lo scontro frontale con i fascisti, il sabotaggio dei comizi
del Msi, l’espulsione dei sindacati fascisti dalle fabbriche. Detto questo,
sarebbe sbagliato però, come oggi si tende a fare in servizi giornalistici
frettolosi, ridurlo unicamente ad un fenomeno di manifestazione di violenza
esagerata e gratuita. Quell’antifascismo ebbe sempre, come giustamente
sottolinea Rapini, una dimensione sociale, nel senso di allargamento della
democrazia e dell’inclusione sociale, di riduzione dei privilegi e conquista
dei diritti per i subalterni.
L’effetto sulla storiografia di questo antifascismo ritrovato
fu notevole. Crebbe una nuova leva di giovani estranei alla stagione dei
fascismi, severi tanto verso il presente quanto verso il passato della
società dei padri, spinti a rileggere l’esperienza storica della
lotta al fascismo alla ricerca delle zone oscure di quel passaggio, delle
sue contraddizioni e aporie. Una nuova storiografia filtrò nelle
accademie, negli istituti di ricerca, nelle fondazioni, nelle riviste di
storia. La storia traeva dalla politica, dalla lotta, dalla ribellione
giovanile importanti sollecitazioni e le restituiva ad essa con argomenti
e arnesi culturali che si inserirono con autorevolezza nel discorso pubblico
sull’antifascismo e andarono a rafforzare le identità culturali.
Fu soprattutto l’Istituto Nazionale per la storia del Movimento di
Liberazione in Italia ad investire con decisione sullo svecchiamento anagrafico
e storiografico. Dal 1973 l’Istituto, sotto la presidenza di Guido Quazza,
che aveva appena sostituito Ferruccio Parri, decise di rivolgersi ad un
pubblico di giovani e di studiosi cresciuti attraverso le sollecitazioni
politiche e culturali dell’ultimo decennio. Si focalizzò l’attenzione
sul passaggio dal fascismo alla democrazia, per segnalare gli elementi
di continuità dello Stato e per calare le vicende del 1943-45 nell’intera
storia nazionale. Lo studio della Resistenza uscì profondamente
rinnovata nei metodi, nelle fonti, negli oggetti, nella didattica. In questo
brodo di cultura nacque, ad esempio, la riflessione di Claudio Pavone.
Quel tipo di antifascismo fini quando si esaurì il ciclo di
lotte degli anni Settanta, riassunti da Rapini come uno dei pochi momenti
della storia italiana in cui strati significativi della popolazione parteciparono
attivamente alla costruzione della politica e della storia. Già
nella seconda metà di quel decennio, quando l’antifascismo segnava
il suo apogeo, cominciò a stemperarsi nel significato linguistico.
Si perse in una babelica lotta di definizioni, di citazioni incrociate
e contraddittorie, fino a produrre un “vero e proprio crack semantico”,
dato dall’incapacità di indicare un orizzonte di senso chiaro e
nitido. Nuovamente depotenziato, anodino, distante, l’antifascismo tornò
ad essere, negli anni seguenti, un rituale per i partiti e le istituzioni,
un elemento inespressivo per le nuove generazioni e i nuovi movimento sociali,
attratti da altri bisogni, desideri e da altri codici.
Diego Giachetti