Le presentazioni del libro Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, curato
da Paolo Ferrero per le Edizioni Punto rosso/Carta (prefazione di Marco
Revelli, pp. 285, euro 13) di cui ha scritto Massimo Raffaeli su "Alias"
del 14 maggio - sono state occasioni per ricordare la figura di Panzieri
ma anche per aprire una discussione su alcuni nodi di fondo del nostro
agire
politico. Una discussione da riprendere e allargare.
Panzieri e' stato organizzatore politico e dirigente negli aspri anni
Cinquanta. Come direttore di "Mondo Operaio", la rivista ufficiale del
Psi, nel 1957-'58, apri' con vigore e lucidita', dopo i fatti d'Ungheria,
l'unica prospettiva di uscita a sinistra, classista e libertaria, dallo
stalinismo.
Conosceva sino in fondo la vischiosa resistenza delle strutture del
passato, sapeva della estrema difficolta' e della grande complessita' di
strutturare il nuovo. Nonostante cio' egli scelse di rompere per continuare.
Panzieri fu e rimase uomo di frontiera senza cedere di un millimetro al
richiamo delle comode dimore dell'ufficialita' politica, rifiutando senza
la minima esitazione ogni spregiudicata estetica del sovversivismo settario.
La rottura del 1963 con Mario Tronti e i compagni che lasciarono i "Quaderni
Rossi" per fondare "Classe operaia" fu politicamente importante oltre
che molto pesante per Raniero.
Quel dibattito rinvia a dispute antiche del movimento operaio che lo
storico francese Dolleans sintetizza nelle formula del conflitto tra rivoluzione
di potenza e rivoluzione di capacita'. Rivoluzione di potenza indica l'orientamento
che subordina la trasformazione sociale alla potenza acquisita con la conquista
del potere statale. In questa ottica l'azione sociale immediata e quotidiana
e' strumentalizzata alla finalita' di produrre dominio organizzato della
macchina politica. Essa prevede la sovranita' del Partito guida, la necessita'
del momento autoritario. La rivoluzione di capacita' rinvia invece alla
capacita' autogestionaria delle
libere associazioni attraverso l'incremento delle risorse intellettuali
e morali dei lavoratori e della loro forza autonoma di imporre soluzioni
in proprio e dal basso dei loro problemi. Essa prevede il partito strumento
al servizio delle solidarieta' di classe e la coincidenza permanente fra
emancipazione sociale e liberazione politica.
Le rivoluzioni di potenza hanno vinto molte volte, ci ricorda Wallerstein,
hanno vinto con le loro strategie basate sulle due fasi: la conquista del
potere statale per poi trasformare la societa'. Ma lo storico americano
ci ricorda che i vecchi movimenti anti-sistemici "orientati allo stato"
sono rimasti vittime dello stato stesso. Sono falliti nella promessa sociale
e nella sfida della liberta' e sono implosi. Da quei fallimenti, secondo
Wallerstein, prende avvio la vicenda che e' partita da quella che egli
continua a chiamare la "rivoluzione mondiale del 1968", madre di tutti
i successivi nuovi movimenti anti-sistemici, sino al piu' maturo di tutti,
l'attuale movimento dei movimenti.
E' qui, sul terreno della trasformazione della politica che Raniero
Panzieri ebbe intuizioni veramente profetiche. Che cosa voleva dire, in
quegli anni, richiamare il tema del controllo operaio lanciato col dirompente
manifesto politico dei minatori del Galles del sud nel 1912 come alternativa
sia alla proprieta' capitalistica sia alla statalizzazione? Per quei minatori
in lotta lo Stato era un nemico tanto quanto il padrone. I lavoratori volevano
diventare capaci di dirigere la propria industria con un sistema completo
di controllo operaio. "Socializzare senza statizzare", e' questa l'ultima
proposta di rivoluzione delle capacita' avanzata alla vigilia di quella
prima guerra mondiale che forgera' lo scheletro d'acciaio dell'esperienza
novecentesca, fatta di statalismo autoritario, capitalismo organizzato
e politica militarizzata.
Il richiamo di Panzieri del tema del controllo operaio, l'apertura
della dimensione del movimento politico di massa, l'affermazione secondo
la quale il proletariato ha la possibilita' e la necessita' di educare
se stesso costruendo i suoi propri istituti di democrazia riapre (nel linguaggio
e nella forme del suo tempo) la perduta prospettiva della rivoluzione di
capacita' e tenta di ricongiungere intransigente istanza socialista e radicalismo
della liberta'. E tutto questo prima della "rivoluzione del 68", prima
del crollo catastrofico del comunismo, prima dell'esaurimento del secolo
socialdemocratico.
Tronti rispolvera vecchie antitesi tra movimentismo e organizzazione,
tra spontaneita' e direzione, tra Consigli e Partito. Non sono piu' questi
i termini del problema. Le articolazioni reticolari del far da se' solidale,
le richieste di comunalismo partecipato, l'esigenza di un sindacalismo
orizzontale in grado di coniugare protagonismo democratico, forza rivendicativa
e capacita' di fare societa' anche negli ambiti di vita, i movimenti di
pace e di difesa dell'ambiente, il ritorno embrionale di forme di economia
solidale tutto questo sollecita un grande sforzo di invenzione politica.
In momenti come questi occorre soprattutto chiederci:quale politica? quale
partito? Paolo Farneti, che e' stato uno dei piu' acuti e stimolanti sociologi
della politica, ci ha ricordato che l'esperienza storica del partito politico
di massa non ci propone soltanto il modello di quel partito alternativo
alla societa' civile che tendeva a inglobare e a partitizzare la societa'
intiera secondo l'esperienza della socialdemocrazia tedesca di Bebel e
di Kautsky e dei partiti della III internazionale. Il vecchio partito laburista,
cinghia di tramissione alla rovescia che
rappresentava i sindacati nel parlamento, poteva essere visto come
partito complementare alle strutture date della solidarieta' operaia. E'
possibile invece vedere nel partito operaio belga di Vandervelde un partito
coordinatore delle solidarieta'. Era una associazione di associazioni,
una federazione politica di camere sindacali, societa' di mutuo soccorso
e cooperative. E' bene tener presente questa articolazione pluralistica
dell'esperienza storica del partito di massa quando la posta in gioco e'
un
radicale ripensamento della politica. Dopo il crollo del partito burocratico
di massa che inquadrava e mobilitava singoli individui collettivizzati
emergono ora i fragili e arroganti partiti videocratici e personali che
cercano di costruire il loro dominio sull'apatia e sull'atomizzazione di
massa. Contemporaneamente il movimento dei movimenti dimostra nuova tenuta
associativa, capacita' cooperativa e forti esigenze di politica reticolare
e partecipata.
Oggi ci troviamo di fronte al confronto e allo scontro tra forme diverse
della politica che implicano ipotesi alternative dell'agire sociale. Di
questo incominciava a parlarci Raniero quarant'anni fa. Ma c'e' un'altra
lezione per l'oggi che ci viene da lui. E' fondamentale ricordare il suo
metodo esemplare di analisi e di controllo delle grandi transizioni sociali.
Negli anni a cavallo tra la seconda meta' degli anni Cinquanta e i
primi anni Sessanta egli indaga e contesta il passaggio verso il neocapitalismo
del cosiddetto "miracolo economico".
Due strumenti essenziali Panzieri ha messo in opera a questo fine:
la critica dell'uso capitalistico delle macchine e l'inchiesta operaia.
Sul terreno dell'analisi e del controllo della successiva grande trasformazione
del post-fordismo il nostro fallimento e' totale. Il mutamento verso la
societa' informazionale ci e' semplicemente caduto addosso. Come mai questa
tecnologia informatica che per sua essenza intreccia tecnica e potere,
non siamo riusciti a sezionarla con il bisturi di Panzieri della critica
dell'uso capitalistico delle macchine? E' vero che la telematica ha un
doppio volto. Essa vende computer come beni di consumo
durevoli che ci rendono disinvolti consumatori di informazione. Ma
questa tecnologia e' anche e soprattutto un formidabile bene strumentale
che scende sul versante del lavoro come procedura che regola, come ordinatore
che guida, come panopticon che sorveglia. Quando incominciammo, nei primi
anni Ottanta, ad analizzare l'automazione flessibile a base elettronica
nelle fabbriche vedevamo soprattutto l'informatizzazione come automazione
di sostituzione del lavoro umano, come robotizzazione. Eravamo ossessionati
dall'utopia capitalistica della fabbrica senza operai. In realta' lo sviluppo
principale dell'informatica e'
stato nella direzione della tecnologia di integrazione che ha prodotto
operai senza fabbrica. Due notizie recenti danno il segno della direzione
di marcia. Nelle fabbriche dell'ex Zanussi, dove venti anni fa seguivamo
criticamente il processo di robotizzazione, ora si smontano i robot e si
mettono di nuovo gli uomini e le donne sulle linee di produzione. La destabilizzazione
del lavoro generata dall'informatizzazione ha prodotto una tale abbondanza
di lavoratori flessibili e a basso costo da rendere conveniente l'utilizzazione
del lavoro umano al posto del robot.
Contemporaneamente, da una ricerca universitaria commissionata dal
sindacato inglese, ci viene una novita' sconvolgente: si diffonde la robotizzazione
diretta dell'umano. Sono migliaia gli operai con il computer da polso che
vengono guidati e controllati, via satellite, nei minimi dettagli delle
loro operazioni lavorative. Questa funzione della telematica come nuovo
automa-autocrate del processo di produzione che ha sostituito la catena
di montaggio ci ha lasciato disorientati. Non esiste una critica dell'uso
capitalistico del macchinismo post-fordista. Il decentramento centralizzante
dell'automazione d'integrazione informatica ha scisso cooperazione tecnica
e cooperazione sociale, ha verticalizzato e concentrato il comando mentre
ha frantumato e disseminato orizzontalmente macchine e operai. Si va perdendo
la centralita' della fabbrica come luogo di integrazione del ciclo di
produzione. Diventa molto piu' complesso quel movimento di andata e
ritorno tra soggettivita' operaia e movimenti del capitale che era proprio
dell'inchiesta che ci proponeva Panzieri. Quando allora si parlava di con-ricerca
o di inchiesta socialista si sottintendeva una visione, non certo deterministica,
ma comunque piuttosto ottimista circa il rapporto tra essere sociale e
coscienza sociale. Oggi questo rapporto e' molto piu' contraddittorio.
In tempi come questi il rischio piu' grave e' quello di andare a cercare
soltanto cio' che vogliamo trovare mentre e' fondamentale nell'inchiesta
incontrare l'alieno, lo sconosciuto, l'imprevisto. L'intreccio sempre piu'
significativo tra ambiti di vita e di lavoro richiede un ripensamento di
fondo dell'inchiesta. Non c'e' piu' un punto di osservazione privilegiato
della condizione operaia. Il call center, il bancario al video-terminale,
il conduttore di sistemi automatici, il lavoro autonomo di seconda generazione,
l'hacker creativo? Oppure le immense periferie cinesi, indiane e brasiliane
che ci ricordano, su smisurata dimensione di scala, la Londra ottocentesca
di Engels? Occorre rifuggire dalle semplificazioni, occorre evitare di
assumere la parte per il tutto, e' necessario riaccendere i riflettori
sul lavoro da ogni lato, da molte postazioni, da svariate angolature.
Vi sono queste e infinite altre difficolta' nel ridefinire e rilanciare
il metodo dell'inchiesta ma alla base della paralisi e dell'indifferenza
verso l'inchiesta c'e' una colossale, gigantesca svalutazione economica,
culturale e politica del lavoro. Solo dei visionari potrebbero negare la
dilatata presenza sociologica del lavoro, tutti pero' dobbiamo constatare
il crollo del valore del lavoro che, a mio avviso, ha la sua radice principale
nella rottura drammatica del nesso tra lavoro e politica, tra lavoro e
trasformazione sociale. Ci vuole anticonformismo, e' necessario spezzare
senza pieta' il conservatorismo delle pratiche e delle idee, occorre consapevolezza
piena dei mutamenti di fondo, coraggio, come diceva Raniero, di rompere
radicalmente, ma rompere per continuare. Non rompere per liquidare.