Quello che segue è il testo della relazione di Antonio Cardella e Ludovico Fenech al convegno del 18 settembre a Reggio Emilia "Settembre 1945 - Settembre 2005 FAI - Federazione Anarchica Italiana. 60 anni di lotte libertarie"
Quando si rivisita un periodo così intenso, spesso drammatico,
che la Federazione ha attraversato nel decennio che abbiamo qui considerato,
con le sue luci e le sue ombre, i conflitti interni e le esaltanti mobilitazioni,
è difficile sfuggire alla mozione degli affetti, alla suggestione
nostalgica di un passato che ci ha arricchito e per ciò stesso suscita
malinconie e qualche rimpianto. Ma se riusciamo a sfuggire all'inutile
e consolatoria pratica della rievocazione e privilegiamo l'ottica del lungo
periodo, della coscienza di una storia che scorre senza interruzioni, bene,
allora le lotte sostenute, i sacrifici compiuti, le stesse sconfitte patite
si riveleranno in un'altra luce, si inseriranno a pieno titolo in uno scenario
che include il presente e in una certa misura prefigura il futuro.
È assai diffusa l'opinione che la generazione che ha animato
il Sessantotto sia in fondo una generazione di perdenti: anime belle che
non hanno avuto nelle gambe la forza necessaria per far vivere nel concreto
del quotidiano le utopie che animavano le assemblee, gli slogan, le pagine
dense di libri, di giornali, di fogli che, spesso, duravano lo spazio di
qualche precaria edizione. Si è detto del Sessantotto quello che
si va ripetendo per l'Anarchia: è una stagione della vita che sfiorisce
con l'avanzare degli anni e con l'inevitabile corrosione di una vita che,
se vissuta con coerenza, impone privazioni, sacrifici, insuccessi difficili
da sopportare a lungo.Un secolo e mezzo di lotte anarchiche nel mondo smentiscono
questa affermazione: nello stesso lasso di tempo sono entrati in crisi
e sono scomparsi le monarchie assolute e quelle costituzionali, il liberalismo
dei diritti civili e del mercato regolato, il marxismo-leninismo, salvo
qualche sopravvivenza di facciata, e i molti regimi e regimetti che hanno
infestato il XX secolo e che, con il metro della storia, hanno occupato
lo spazio di un mattino. Gli anarchici, con i loro ideali, la persuasività
delle loro convinzioni e, spesso, la trasparenza dei loro comportamenti,
sono ancora lì a battersi nei contesti più diversi, sotto
ogni latitudine, insensibili alla logica del dare e dell'avere, appagati
anche soltanto dal valore testimoniale che la loro presenza rappresenta
in ogni contesto.
Ebbene, l'anima del Sessantotto era un'anima anarchica ed è
miope liquidarla come una stagione esaltante da rimpiangere o un fuoco
di paglia che ha vividamente brillato ma si è presto ridotto in
cenere.
La verità è invece un'altra: con le lotte libertarie
degli anni Settanta ebbe inizio quell'operazione chirurgica che amiamo
definire l'espianto delle comunità reali dal corpo delle istituzioni
borghesi. Il segnale più illuminante di questo distacco è
dato dalla crisi irreversibile dell'istituto familiare, merito in larga
misura delle lotte per l'affermazione dell'orgoglio femminile, della contestazione
di fondo del sistema patriarcale che è la base sulla quale è
costruita la piramide del sistema borghese e del cattolicesimo integralista.
Quello che appariva, o veniva spacciato, per fisiologico conflitto generazionale,
il dialogo tra sordi al quale si riduceva il rapporto tra padri/madri e
figli/figlie era viceversa una cesura che evidenziava un'opposta visione
del mondo, una non-condivisione del sistema di valori che costituiva la
struttura portante della società borghese. I giovani sfuggivano
finalmente il chiuso delle mura domestiche per trovare altrove, nelle assemblee,
nei movimenti, nel volontariato, nuove forme di aggregazione, certo con
le mille contraddizioni che sono inevitabili nei fenomeni epocali, ma che,
nella sintesi di fondo, testimoniano l'ansia di reperire spazi e respiri
più ampi e profondi, meno inquinati dai disvalori dell'egoismo e
dei conflitti permanenti. Fu un fuoco di paglia? Niente affatto se è
incontestabilmente crescente, a trent'anni di distanza, il fenomeno di
relazioni extra-istituzionali che si impongono nella società contemporanea
(la legittimazione di fatto, imposta ai residui di una società anchilosata
e parruccona, delle coppie omosessuali, dei nuclei familiari privi dei
consueti imprimatur, e persino dell'amore libero da vincoli).
Ed alla crisi della famiglia tradizionale è collegato, per processo
simpatico, il crollo delle istituzioni politiche che ne riproducevano la
struttura piramidale e impositiva. Incapaci di comprendere le esigenze
di una società che iniziava a liberarsi di catene secolari, che
andava scoprendo, sia pure tra mille contraddizioni, con impetuosi avanzamenti
e improvvisi arretramenti, territori nuovi e nuove modalità di convivenza,
i partiti tradizionali non riuscivano a far altro che riproporre le liturgie
di riti stantii, confinati all'interno di ghetti nei quali reiteravano
all'infinito drammaturgie anacronistiche, recitate da attori mediocri in
abiti da farsa patetica. Inevitabile la fuga della base e la conflittualità
permanente tra i sopravvissuti nel tentativo di spartirsi il magro bottino
di uno Stato, a sua volta ridotto a regolare funzioni di terzo e quart'ordine,
senza alcuna potestà reale di gestire i settori che contano, trasferiti
a organismi internazionali lontani e insensibili alle esigenze reali delle
diverse comunità.
Analoga la fuga dal sindacato, a mesi alterni confederato, il quale
sindacato si accorge, proprio a metà degli anni Settanta, che non
si tutela il lavoro gestendo soltanto i livelli del salario, salario che
è soltanto una delle componenti dei fattori della produzione e che,
in un'economia non pianificata, se spinto indiscriminatamente al rialzo,
può provocare - come infatti provocò - processi inflattivi
che azzerano i vantaggi presunti dell'aumento dei salari. Nasce così
nel sindacato il sospetto che occorre farsi carico dello sviluppo complessivo
del processo economico, ma tale consapevolezza tardiva non poteva tradursi
in una politica attiva, in primo luogo perché il raggio operativo
del sindacato era limitato settorialmente e territorialmente alle aree
industriali, che in Italia erano fortemente concentrate, aree produttive
nelle quali peraltro, proprio in quegli anni, cominciavano a palesarsi
i sintomi di quel processo (irreversibile, come vediamo oggi a oltre trent'anni
di distanza) di deindustrializzazione; in secondo luogo perché era
praticamente impossibile per il sindacato recuperare tempestivamente un
credito, spendibile in termini politici, da parte di categorie di lavoratori
che erano state per decenni abbandonate a se stesse, indifese non solo
nei riguardi di un padronato ottuso ed arrogante, ma soprattutto lasciate
in balia di una politica clientelare, praticata a tutti i livelli della
pubblica amministrazione, che polverizzava risorse e diffondeva povertà
e desertificazioni: quanto dire la storia del Mezzogiorno d'Italia.
Ebbene, le crisi che investirono tutte le istituzioni dello Stato borghese
non furono certamente innescate dal Sessantotto, ma certamente dal Sessantotto
subirono un'accelerazione significativa, con un dato in più che
alla fine risultò devastante e permanente: che alle istituzioni
patrie il Sessantotto sottrasse l'apporto delle intelligenze più
lucide, il sostegno di risorse umane che non vollero sporcarsi le mani
e, quindi, si sottrassero ai tentativi delle varie strutture di potere
di recuperare credibilità.
Non dobbiamo lasciarci coinvolgere nelle lamentazioni per lo stato
deprimente del nostro quotidiano, pubblico o privato che sia: si tratta
di uno stadio dell'involuzione di una visione del mondo e di pratiche politico-economico-saciali
in via di decomposizione. Quanto durerà questa transizione è
difficile da ipotizzare, ma possiamo star certi che i semi di quella che
fu chiamata la stagione dei furori son ben protetti da una terra ancora
fertile; che le istanze libertarie viaggiano negli zainetti di quei ragazzi
che hanno già scelto il nomadismo intellettuale e politico, che
viaggiano per il mondo sottraendosi ai vari "centri" che il potere tenta
ancora di creare per meglio controllare, viaggiano da apolidi, da senza
patria, da anarchici esperantisti di nuova generazione.