«Erano gli ordini». «Ho eseguito gli ordini».
Come per le Fosse Ardeatine, per Sarajevo, per Marzabotto, Stazzema, Auschwitz,
Abu Ghraib, Guantanamo, come sempre: anche allora a My Lai 4, Vietnam,
16 marzo 1968. L'hanno ripetuta a propria discolpa i soldati responsabili
del massacro passato alla storia. Sono trascorsi quasi quarant'anni, ma
è impressionante l'attualità di questo libro di Seymour Hersh
che in realtà è una ristampa del 1970, riproposta dalle Edizioni
Piemme con lo stesso titolo: "My Lai Vietnam". Sì, è il libro
shock che, come scrisse a suo tempo il "New York Times", «ha spazzato
via le illusioni di una intera generazione».
L'inchiesta di Hersh, che ha impressionato non solo l'America ma il
mondo intero, racconta, con la ineluttabile forza dei fatti documentati
e riportati così come sono "semplicemente" accaduti, la strage compiuta
in quello sperduto villaggio del Sud Vietnam abitato da 700 persone che
vennero quasi tutte uccise, donne bambini e vecchi compresi. La strage
compiuta, non da feroci squadroni della morte nazisti, ma dalla Compagnia
Charlie, bravi ragazzi, giovani soldati di leva americani, «i rampolli
della nuova frontiera kennediana». Sotto il nome di caccia ai vietcong.
Come quelle atrocità abbiano potuto essere perpetrate, questo
libro lo spiega bene: e sta proprio qui la sua sconcertante attualità.
Bravi ragazzi dello stesso genere, soldati, giovani reclute, soldatesse
persino incinte, sono ricomparsi come brutali guardiani, volontari torturatori
in divisa stelle e strisce in Irak, in Afghanistan, nei Balcani, anche
a Milano (vedi Abu Omar...); e come sempre, come allora, tutto è
stato ancora una volta presentato sotto lo schermo degli ordini impartiti
e addirittura l'alibi della normalità (era la situazione a richiederlo...).
Non è a caso che l'Hersh dello scandalo Vietnam (allora fu insignito
del Premio Pulitzer) è lo stesso Hersh che ha svelato le atrocità
di Abu Ghraib: un filo rosso diretto e sin troppo allarmante.
Lo scempio di My Lai nasce e cresce giorno per giorno, nutrito di mille
episodi di crudeltà, fisica ma anche psicologica e mentale, sistematicamente
messi in atto dai marines in quanto truppe d'occupazione. Ricostruito nella
sua minuta, sconcertante genesi, esso rivela in modo perfetto come il bravo
ragazzo di leva - il semplice Gi, il Government Issue, l'oggetto d'ordinanza,
cioè un qualsiasi soldato Usa in uniforme - può trasformarsi
in un massacratore autorizzato, in un killer legittimo.
Il quadro di riferimento, anzitutto: la scena dell'azione. «Doveva
essere stata una zona meravigliosa, la provincia di Quang Ngai, prima della
guerra - scrive Hersh - Situata sulla costa nord-orientale del Vietnam
del Sud, le sue risaie e i suoi fertili terreni agricoli si stendevano
dalle ondulate montagne della Catena Annamitica fino alle dolci spiagge
di sabbia bianca del Mar Cinese Meridionale».
Era, Quang Ngai, anche la terza provincia in ordine di grandezza, ma
aveva un difetto imperdonabile agli occhi dell'occupante Usa: era considerata
«la più salda roccaforte vietcong dell'intero paese».
Vietcong, meglio ricordarlo, chi erano costoro? Vietcong, cioè
vietnamiti rossi, vietnamiti cattivi: semplicemente pacifici abitanti di
Quang Ngai, quasi tutti contadini, che non accettavano la politica del
loro governo succube degli Usa invasori, e osavano ribellarsi. Vietcong,
cioè, per gli americani invasori, militanti comunisti all'ordine
di Hanoi e in quanto tali da spazzare via. Zona infestata dai comunisti,
zona da "normalizzare".
Così Quang Ngai diventa il territorio della prima grande operazione
bellica americana della guerra del Vietnam: nome in codice "Starlight",
obbiettivo liquidazione della "morsa comunista": "zona di fuoco libero".
In due anni i senza tetto furono 138mila, e circa il 70 per cento della
popolazione «venne distrutta da bombe, granate o dalle fiamme».
Dentro tale quadro, ogni escalation è facile, quasi naturale.
«Scoviamo quei bastardi e ammucchiamoli uno sopra l'altro»,
è lo slogan preferito. Uno dei colonnelli più celebrati in
Vietnam fu George S. Patton, uno che nei suoi discorsi era solito «enfatizzare
l'idea che un'azione di guerra è una situazione estrema in cui si
tratta di uccidere o di essere uccisi e si serviva della frase secondo
cui gli piaceva vedere volare per aria braccia e gambe».
Per "ripulire" la zona dai vietcong, bisogna dunque distruggere i villaggi
che danno loro rifugio e protezione, applicando la "semplice" strategia
della terra bruciata, parola d'ordine "cerca e distruggi". E' così
che alle reclute arriva la sintesi - la semplificazione - di una siffatta
filosofia: «Se non arrivano ordini specifici del tipo "non sparate
alle donne", tutto è selvaggina».
Recepito. La Compagnia Charlie - gran bravi ragazzi - si adegua: tutto
«è selvaggina». E vi si adegua benissimo William Calley,
un sottotenente ventiquattrenne originario di Miami, «aveva un aspetto
di ragazzo, alto all'incirca un metro e sessanta e insicuro». Sarà
uno dei volonterosi massacratori di civili inermi a My Lai, precipitato,
come molti della stessa Compagnia, in «quella spirale di violenza
gratuita».
Non solo Calley. Ad esempio, «fu Carter a dare inizio alle atrocità».
Mentre sfilavano attraverso un villaggio - è una delle 50 testimonianze
raccolte da Hersh - Carter (un altro GI della Charlie) offre una sigaretta
a un vecchio, un papa-san; l'uomo la prende e subito dopo Carter comincia
«improvvisamente a picchiarlo con il calcio del fucile rompendogli
la mandibola e diverse costole. La maggior parte della compagnia restò
a guardare, nessuno disse una parola».
O ancora. Racconta lo stesso Carter in una intervista: «Abbiamo
cercato di farlo parlare, ma lui si rifiutava. Allora l'ho afferrato e
spinto nel pozzo, poi il tenente Calley gli ha fatto saltare le cervella
e anch'io gli ho sparato, mi dissi, "al diavolo questo pezzente", e voi
sapete cosa intendo dire. Era un vietcong».
E magari c'è quell'altra storia, raccontata all'autore dal soldato
William Doherty: «Ho dato un calcio al sospetto riverso a terra.
Poi quando ho visto che era una donna, mi sono fermato, ma alcuni miei
compagni hanno continuato a picchiarla... Era ancora viva. Qualcuno suggerì
di chiamare un elicottero e di farla trasportare in ospedale. "Non ha bisogno
di essere evacuata", esclamò un Gi e d'improvviso gli sparò
un colpo al petto».
Quando arrivano a My Lai 4, l'idea è di radere al suolo il villaggio
per costringere il 48mo battaglione vietcong a sloggiare, sospettando che
lì avesse i suoi nascondigli. «Va bene ragazzi - disse il
capitano Ernest Medina, 33 anni, soprannominato "Cane Pazzo, uno che si
diceva "orgoglioso di uccidere i vietcong" - quando arriveremo, apriremo
la stagione di caccia. E quando ce ne andremo non resterà una sola
cosa viva. Faremo piazza pulita».
Puntualmente. «Le uccisioni iniziarono senza preavviso. Erano
tutti inginocchiati, piangevano e pregavano, e fu allora che dei soldati
li raggiunsero e giustiziarono donne e bambini sparando loro alla testa».
Quelli della Compagnia Charlie avevano le loro "regole". Primo: davano
alle fiamme le capanne e aspettavano che la gente scappasse fuori per ucciderla.
Secondo: irrompevano nelle case e sparavano agli abitanti. Terzo: radunavano
i civili in gruppo e poi li giustiziavano. «Tutto questo in maniera
assolutamente deliberata. Era un omicidio di massa».
Infine, il giorno del massacro, quel 16 marzo. Calley si rivolse a
Robert Maples e gli disse: «Maples, prepara la mitragliatrice e spara
a questa gente». Poi se ne andarono...
Nella stessa notte i vietcong ritornarono a My Lai e aiutarono i superstiti
a seppellire i morti. Ci vollero cinque giorni. I discorsi funebri furono
tenuti da guerriglieri comunisti. «Nguyen Bat non era comunista all'epoca
del massacro, ma la strage gli fece cambiare idea. «Dopo l'eccidio,
disse, tutti gli abitanti della zona diventarono comunisti».