Quello che non si dice del maggio francese".
In un saggio pubblicato negli Stati Uniti e ora anche in Francia
la studiosa americana Kristin Ross analizza e rievoca la rivolta studentesca
per antonomasia con l’intenzione di svelare le falsificazioni della storia
ufficiale
Il Maggio francese? Una rivolta studentesca “di sorprendente civiltà”,
individualista, libertaria, confinata al Quartiere Latino. Vero e proprio
“fulmine a ciel sereno”, che anticipa la rivoluzione sessuale, la libertà
d’espressione e l’avvento del post-fordismo. Un bel saggio di Kristin Ross,
May ’68 and its afterlives (Chicago Press, 2002) recentemente tradotto
in francese col titolo Mai 68 et ses vies ultérieures (Editions
Complexe, 2005, pp. 250, euro 19,50), traccia la genealogia dei luoghi
comuni e dei discorsi veicolati dai media sul Maggio francese, “la storia
delle manifestazioni concrete della coppia memoria/oblio”. Le forme di
riduzione e confisca di quanto avvenne allora ci dicono molto sul tempo
presente: la “storia ufficiale” del Maggio - prodotta soprattutto nel corso
delle “commemorazioni” del 1978 e del 1988 - è permeata dalle ideologie
neoliberali e reazionarie sulla “fine della storia” e sul tramonto della
politica.
L’intenzione di partenza, svelare i non detti e le falsificazioni della
“storia ufficiale”, ha condotto Kristin Ross a un’obbligatoria rievocazione
di quel che avvenne, o, piuttosto, di quel che si dice non sia mai avvenuto.
Rievocazione necessariamente parziale, nel doppio significato del termine:
da una parte l’evento viene ricomposto attraverso frammenti, aneddoti,
frasi ripescate in volantini ed in effimere pubblicazioni dell’epoca, immagini,
situazioni, racconti di militanti, uomini e donne, che non hanno mai voluto
farsi portavoce di una generazione, ma le cui parole è rivendicata
dall’autrice, contro la pretesa di fornire una spiegazione esaustiva ed
in qualche modo deterministica: Ross prende infatti le distanze dalla versione
“biografica” basata sulla personalizzazione dei leaders di allora, divenuti
ormai intellettuali da salotto, e dalla versione “socio-biologica” secondo
cui la rivolta è connaturata all’adolescenza.
Ross ci ricorda, per esempio, che tra maggio e giugno 1968 le vendite
di libri a Parigi aumentarono del 40%. In una città completamente
paralizzata, in cui tutte le attività più banali del vivere
quotidiano erano sospese, la lettura poteva effettivamente servire da passatempo.
Vi erano 9 milioni di persone in sciopero, 3 volte di più che nel
1936, durante il Fronte popolare. Maggio 68 è stato il più
grande movimento di massa della storia di Francia, lo sciopero più
importante della storia del movimento operaio e l’unica insurrezione “generale”
che i paesi occidentali industrializzati abbiano conosciuto dopo la Seconda
Guerra Mondiale, scrive Ross.
L’irruzione del politico, il rifiuto di massa delle determinazioni
sociali e della logica poliziesca del “circolate! non c’è niente
da vedere”, passa in primo luogo attraverso una riconfigurazione dei rapporti
tra individuale e collettivo, tra qui e altrove, riconfigurazione che assume
le sembianze di una verifica dell’uguaglianza. Ed è questa esperienza
collettiva di pratiche politiche egualitarie che viene negata dalla doxa
contemporanea, intenta a rappresentare il maggio come fiera della libertà
individuali o rivoluzione dei costumi. La riduzione spazio-temporale permette
di evacuare il periodo precedente, contrassegnato in Francia dalla guerra
d’Algeria e dalla nascita di movimenti anti-imperialisti che avevano in
qualche modo anticipato il 68. La figura del militante anti-colonialista,
i Comitati Vietnam, la componente anti-imperialista del maggio insomma,
scompaiono. Ed anche la reazione tra anti-imperialismo e conflittualità
operaia (“Il Vietnam è nelle nostre fabbriche” di Torino) scompare
dal quadro riveduto e corretto. La figura dell’operaio appare altrettanto
sfuocata, e questo nonostante i primi anni ’60 fossero stati segnati da
una forte conflittualità sociale nelle fabbriche della provincia
francese. Restano gli studenti. Ma nel maggio ’68 gli studenti rifiutavano
di parlare in qualità di studenti, non rivendicavano insomma una
soggettività studentesca, quanto una soggettività relazionale,
a sostegno degli operai, del Vietnam, contro il gaullismo, l’imperialismo
americano e il capitale. Il ministro degli interni Marcellin, costernato,
si trovava di fronte a strane, imprevedibili creature che non si accontentavano
di chiedere “gomme e matite”.
Per Kristin Ross, maggio ’68 è in primo luogo “crisi del funzionalismo”,
persone che smettono di stare al loro posto, militanti che non lasciano
che nessuno parli al loro posto. La tendenza anti-autoritaria, maoista
o luxemburghiana della critica agli esperti ed alle élites si ritrova
in tutta la rievocazione di Ross: né edonisti libertari né
preti rossi, i militanti provano un vero e proprio piacere nell’oltrepassare
le barriere sociali, nell’incontro su un piano di uguaglianza con soggettività
politiche altre, a cominciare dall’incontro tra lavoratori algerini della
bidonville di Nanterre e studenti obbligati ad attraversarla per recarsi
a lezione. I militanti e le militanti sottolineano l’importanza della crescita
individuale all’interno della dimensione collettiva, in un periodo in cui
ciascuno è “al di sopra di se stesso”. «Anche se non posso
pretendere di definire il senso del Maggio, posso dire quel che ho fatto
durante quelle settimane di maggio e giugno ’68, dire inoltre che esse
restano per me l’archetipo della felicità pubblica (...) Il mio
Maggio fu felice e serio».
In che modo allora, si chiede Ross, un movimento di massa che contestava
prima di tutto la confisca della politica da parte degli esperti ha potuto
essere ridotto, col passare degli anni, ad una serie di parole d’ordine
caricaturali, di cui rivendica la padronanza tutta una generazione di specialisti
auto-proclamati tali? In che modo l’anticapitalismo, l’anti-imperialismo,
la radicalità politica del Maggio hanno lasciato il posto ad un
racconto edulcorato e teleologico? L’ondata di repressione e l’atmosfera
di “calma ideologica” degli anni ’80 e ’90 si esprime nel “processo” mediatico
a cui è sottoposto il Maggio: se ne denunciano gli “eccessi” per
poi re-integrarlo come prodromo della modernizzazione capitalista e della
caduta del Muro («a Parigi non è successo nulla, tutto è
successo a Praga»). Tramite “racconti di conversione” («avevamo
idee giuste, ma discorsi sbagliati») i leaders dell’epoca si riciclano
come “ideologi professionisti del realismo” e “partigiani dell’esistente”.
Sono i nuovi moralisti guerrieri, pronti a paracadutarsi in una zona di
crisi per legittimare interventi umanitari, ma altrettanto pronti a tacciare
di totalitarismo ogni rivendicazione di cambiamento, a chiamare col nome
di feccia (come nel 1968) i rivoltosi e a definire privilegiati i ferrovieri
francesi che scioperavano nel 1995.
Un testo prezioso dunque, prima di tutto per la sua volontà
di offrire una “seconda vita” al Maggio francese. Più che un evento,
è un contesto storico ed un intero immaginario politico che Ross
tenta di ridisegnare, seppure parzialmente, cogliendo con lucida passione
i movimenti di soggettivizzazione politica che si sono dati prima, dopo,
e attorno a maggio-giugno ’68. La riflessione sulla politicità delle
rappresentazioni degli eventi passati, sul difficile equilibrio tra passato
e presente, memoria e oblio, non può non rinviarci alla nostra storia,
alla difficile memoria, ma soprattutto al troppo facile e problematico
oblio della stagione dei movimenti in Italia. La questione rimane aperta.
Riflessioni di questo tipo permettono di stabilire una distanza, storicizzare
le categorie, ampliare l’orizzonte del pensabile riguardo al possibile,
possibile declinato al presente o al passato. Quanto ai professionisti
del realismo ed ai partigiani dell’esistente nostrani, una frase scritta
nel ’68 su una lavagna della Sorbona irride le teorie del complotto e le
presupposte virtù di influenza dei cattivi maestri, in Francia come
in Italia. A dispetto di chi, a posteriori, avrebbe attribuito la responsabilità
del ’68 alla “mano invisibile di Marcuse” o all’influenza degli strutturalisti,
qualcuno aveva scritto sulla lavagna “Le strutture non scendono in piazza”.