Gianpiero Landi (per contatti: gplandi@racine.ra.it) e' un prestigioso
studioso e valoroso militante libertario. Tra le opere di Giampiero Landi:
(a cura di), Andrea Caffi, un socialista libertario, Edizioni Biblioteca
Franco Serantini, Pisa 1996.
Andrea Caffi, nato a Pietroburgo nel 1886 e deceduto a Parigi nel 1955,
intellettuale e militante, una delle figure piu' limpide ed affascinanti
(e ingiustamente dimenticate) dell'impegno e della riflessione socialista
ed antitotalitaria europea del Novecento. Opere di Andrea Caffi: cfr. per
un avvio il recente volumetto Critica della violenza, Edizioni e/o, Roma
1995.
Opere su Andrea Caffi: Gino Bianco, Un socialista "irregolare": Andrea
Caffi, Lerici, Cosenza 1977; Giampiero Landi (a cura di), Andrea Caffi,
un socialista libertario, Edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1996]
(Nota da "La nonviolenza in cammino", N. 999, 22 luglio 2005, bollettino telematico che ha ripreso la relazione di Giampiero Landi dal sito www.nonluoghi.it)
Riteniamo utile, quale contributo al dibattito sul neoliberismo e sulla sinistra, riproporre un intevento di Gianpiero Landi sulla figura del socialista libertario russo, di origini e frequentazioni francesi e italiane, Andrea Caffi, amico di Nicola Chiaromonte e di Albert Camus.
Andrea Caffi è sicuramente una delle figure
più affascinanti, ma anche più ingiustamente trascurate e
dimenticate, del
socialismo italiano ed europeo del Novecento (1).
Intellettuale raffinato e dotato di una stupefacente erudizione, militante
politico d'avanguardia partecipe di tutti gli eventi politici e
culturali della prima metà del secolo, Caffi merita di essere
riscoperto come un pensatore originale e di notevole spessore
teorico in grado di fornire contributi di rilievo a una rifondazione
libertaria del socialismo. Gli elementi di interesse e di attualità
del suo pensiero sono in effetti numerosi, e tali da giustificare una
attenzione e una analisi approfondita da parte dei libertari sia
di formazione anarchica che socialista. "Irregolare" del socialismo,
Caffi si colloca in modo originale in un territorio di confine tra
diverse ideologie e culture politiche.
Affiora spontaneo il confronto con un'altra eminente figura di teorico
del socialismo libertario, Francesco Saverio Merlino, il cui
pensiero "eretico" è per tanti aspetti complementare a quello
di Caffi, anche per la matrice proudhoniana comune a entrambi
(2).
Come ha opportunamente rilevato Gino Bianco, vi sono
alcuni temi costanti attorno a cui ruota tutta la produzione teorica di
Caffi e che assicurano un elemento di continuità nel suo pensiero
e nei suoi scritti, che si presentano all'apparenza quanto mai
disorganici e frammentari. Questi temi costanti sono da un lato "una
certa idea del socialismo" (un socialismo critico rispetto a
Marx e al marxismo, aggiungiamo noi, e come già si è
accennato di forte impronta proudhoniana), e dall'altro "la grande crisi
in
cui versa la società contemporanea", apertasi con la prima guerra
mondiale e approfonditasi nei decenni seguenti col dilagare
del totalitarismo in Europa e con la violenza di una seconda guerra
mondiale, che di quella crisi avrebbero confermato la
profondità e la vastità (3).
Di grande acutezza sono, in effetti, le analisi di Caffi
sulla crisi dei regimi democratici dopo il 1914 e sul totalitarismo. Caffi,
precorrendo in parte Hannah Arendt, riesce a cogliere analogie tra
il comunismo sovietico, il fascismo e il nazismo, senza mai
perdere di vista le specificità che contraddistinguono ciascuno
di questi regimi politici.
llluminanti sono in particolare le analisi sull'Unione Sovietica e
sullo stalinismo, per le quali Caffi poteva avvalersi - a differenza
di tanti altri osservatori occidentali - di una approfondita conoscenza
diretta della Russia prima e dopo la rivoluzione. In
un'epoca in cui molti intellettuali e politici di sinistra si lasciarono
sedurre dal mito dell'Unione Sovietica, Caffi fu tra i pochi a
vedere lucidamente - e ad avere il coraggio di affermare che "L'URSS
del 1932 è uno Stato, efficiente nell'esercizio dei suoi
assoluti poteri come nessun'altra organizzazione statale nel mondo;
un grandioso meccanismo per la coercizione e lo
sfruttamento degli individui soggetti e per l'azione (finora più
perturbatrice che "costruttiva") entro il sistema dei rapporti
internazionali" (4) E aggiungeva: "La dittatura di Stalin [...] non
è un contrappeso" ai regimi di reazione capitalistica che
sopportiamo in molti paesi d'Europa e d'America; è un elemento
di questa costellazione; in essa e per essa si sostiene" (5).
Infine non va dimenticato che Caffi, che aveva una solida e vasta cultura
storica, letteraria e filosofica, ci ha lasciato anche
pagine dense e penetranti - sulle quali forse non si è ancora
riflettuto abbastanza -, su temi come la moderna cultura di massa, la
violenza in politica, i rischi della burocratizzazione e della tecnica,
la crescente complessità dei meccanismi dell'apparato statale
sempre più indipendente da ogni controllo popolare, l'importanza
del mito e della mitologia nella vita e nella storia. Non è un
caso che a Parigi la «Quinzaine Litteraire» di Maurice
Nadeau abbia definito Caffi "il Walter Benjamin italiano" (6).
Il concetto di società
La concezione che Caffi ha del socialismo si lega
strettamente a quella che ha di ?società?. Egli usa il termine in
una duplice
accezione. Da un lato riprende una tripartizione comunemente utilizzata
dai pubblicisti e dagli storici russi per più di un secolo, e
distingue tra "governo", "società" e "popolo". In questa visione
la "società" appare separata e distinta sia dal "governo", formato
da "principi, magistrati, sfruttatori, carnefici" (7), sia dal "popolo",
inteso come la stragrande maggioranza della collettività
"costretta non solo a lavorare per vivere, ma a vivere unicamente per
lavorare". Il popolo, scrive Caffi citando Proudhon, non
ha mai fatto altro che "pagare e pregare" (8).
Su questo popolo, finché esso non si sia ripreso degli spazi
di vita e di libertà e non si sia quindi avviato uno sviluppo individuale
delle coscienze, Caffi non si fa illusioni. Egli sembra riporre le
sue speranze piuttosto sulla "società" che è formata da tutti
coloro
che hanno avuto la possibilità di sottrarre almeno una parte
della loro vita al lavoro, e che abbiano poi utilizzato questa
opportunità per riflettere, per pensare, per formarsi una propria
individualità autonoma e cosciente.
In questo senso la società va intesa come"una
sfera di esperienze intime e di rapporti con i simili dove si possono dimenticare
ogni assillo di scopi economici e ogni costrizione connessa alla "gerarchia"
politico-sociale" (9). Detto in altri termini, la società è
"l'insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei
e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno
l'apparenza della libertà nella scelta delle relazioni, nella
loro durata e nella loro rottura: le pressioni non vi si esercitano che
con
mezzi "morali", mentre i moventi utilitari sono o realmente subordinati,
oppure mascherati dalla politesse, dal piacere che si ha a
trovarsi in mezzo ai propri simili, dalla solidarietà affettiva
che si stabilisce naturalmente fra i membri di un medesimo gruppo.
Intesa in questo senso, la "società" esclude per principio ogni
costrizione, e soprattutto ogni violenza" (10). La vita di società
-
scrive ancora Caffi - si realizza ad opera di un "ceto emancipato dalla
necessità di lavorare (e quindi dalla voglia di pregare) e,
almeno fino a un certo punto, attaccato alle seduzioni della vita privata,
e talvolta anche a quelle della 'vita interiore' ed
emancipato dall?ambizione di dominare" (11).
Ma il concetto di società è centrale nel
pensiero di Caffi, e in altri momenti egli attribuisce al termine un significato
diverso,
assumendolo nella sua dimensione di "civiltà". In effetti, sembra
in questo caso che Caffi si limiti e estendere a tutta la collettività,
o a gran parte di essa, quelle caratteristiche che già egli
attribuiva alla "società" intesa nella accezione più ristretta.
Allorché - per una serie di circostanze politiche, sociali,
economiche -si dà la possibilità di una formazione sociale
spontanea,
allora può affermarsi una "società senza Stato", caratterizzata
dalla "douceur de vivre" e dal prevalere dei rapporti di amicizia (la
"philia" di Aristotele) su ogni razionale criterio di amministrazione
e di rendimento economico (12). Secondo Nicola
Chiaromonte "se c'era nella mente di Caffi un'idea centrale attorno
alla quale tutte le altre si ordinavano naturalmente, questa era
l'idea di socievolezza: la philìa aristotelica, fondamento della
vita associata (13). Per Caffi l'esistenza umana "vera" è quella
vissuta "secondo verità e giustizia". Non vanno dimenticate
poi le osservazioni - spesso di grande finezza - che Caffi dedica al
rapporto individuo e società, che rappresenta uno dei punti
focali della sua riflessione.
La critica alla civiltà di massa
Un elemento che per certi versi si lega al precedente
è la feroce critica che Caffi rivolge alla moderna civiltà
di massa, e al
concetto stesso di massa. Si tratta di un aspetto di estrema attualità,
ma per coglierne a pieno l'importanza anche sul piano
storico è opportuno ricordare che Caffi assume questa posizione
in un'epoca in cui i partiti socialisti che si ispiravano al modello
della socialdemocrazia tedesca, e in seguito i partiti comunisti nati
dalle suggestioni dell'Ottobre bolscevico, facevano proprio
delle "masse" il perno della loro azione politica, alle "masse" si
rivolgevano con la loro propaganda, sul controllo delle "masse"
basavano la propria forza e il proprio potere.
Caffi non ha alcuna simpatia per l'uomo-massa prodotto
dalla società contemporanea, anzi lo ritiene un pericolo che lascia
intravedere sbocchi autoritari o totalitari per il genere umano. In
ogni caso, l'uomo-massa è incompatibile con la concezione del
socialismo che ha Caffi. Nel saggio Il socialismo e la crisi mondiale,
del 1949, egli scrive in proposito: "Il socialismo in quanto:
1) capacità di concepire l'ambiente sociale alla luce duna 'critica'
rigorosamente razionale esplicata dalla 'facoltà di giudizio'
dell'individuo; 2) solidarietà profonda fra individui che 'si
sono compresi' non superficialmente fra loro e si sono sentiti legati da
un modo press'a poco identico di intendere (ma anche di sentire, giudicare)
la realtà circostante - non può assolutamente
adattarsi a una 'organizzazione di masse'.
La massa è una forma di collegamento fra gli individui, in cui
tutto il fondo di 'essenza' caratteristica o di 'esistenza' originale che
costituisce 'la persona' (unica, irriducibile a misurazioni quantitative
o norme meccaniche) viene eliminato, e gli uomini ridotti a
semplici 'unità' sostituibili di un ceto numero efficiente.
Al tipo di reciproci rapporti fra esseri umani che si esprime nella 'massa'
si oppongono i modi più complessi d'unione, che (seguendo le
indicazioni di Gurvitch a mio parere assai convincenti) si
definiscono come 'comunità' o - ad un grado di ancor maggiore
intensità - come 'comunione' fra persone pienamente coscienti e
del loro 'io' e della loro integrazione in un 'noi' (noi altri). Ora,
la propaganda (la educazione, la conversione) socialista non è
stata feconda che quando distaccava l'uomo (convertito a tutto un modo
nuovo di capire quanto 'succedeva intorno a lui') dalle
meccaniche ingiunzioni della 'massa' (inerte o animata da ciechi furori),
quando creava nuove comunioni di stretti circoli o
comunità" (14)..
In un altro scritto del 1952, Borghesia e ordine borghese,
Caffi afferma: "E tuttavia qual è la qualità più evidente
di tali masse?
L'inerzia. La giunzione dinamica fra i formidabili mezzi di produzione
e la collettività umana che sola può farli funzionare non
s'è
prodotta: la 'massa' dei lavoratori sente istintivamente che, in quanto
'collettività massiccia', essa è incapace di 'possedere'
sia i
mezzi materiali di produzione sia gl'ingranaggi complicatissimi di
un'amministrazione economica. Sentendosi 'incapace', la massa
subisce.
Che fare? Accettare la rigidità spietata di una
burocrazia onnipotente? Sottoporsi a quella tecnocrazia che sembra essere
nella direzione dello 'sviluppo storico'? Per un socialista, una volta
rifiutata sia la tirannide tecnocratica nuda che quella
ammantata di ideologia del comunismo sovietico, una strada, mi pare,
rimane: quella che la massa riuscisse ad abolirsi in
quanto massa (...) E il senso sarebbe che dalla massa bisogna pure
che gl'indivìdui finiscano per uscire; bisogna pure che in
seno alla massa si formino delle comunità autentiche, dei gruppi
di 'eguali' capaci di pensare e di agire con piena intelligenza dei
fini e dei mezzi. Utopia o no, io non vedo altra strada verso un'emancipazione
reale" (15).
Proprio l'attenzione per gli individui, per le coscienze
individuali con i loro processi a volte anche lenti di maturazione e di
crescita, porta Caffi a manifestare una radicata diffidenza nei confronti
dei partiti organizzati e dei grandi apparati burocratici. La
sua preferenza va piuttosto ai gruppi di affinità, i piccoli
gruppi di amici di cui preconìzza l'avvento nelle pagine conclusive
del
suo saggio Critica della violenza, pubblicato per la prima volta nel
numero di gennaio 1946 della rivista «Politics» di New York,
diretta da Dwight MacDonald: "Oggi, il moltiplicarsi di gruppi d'amici
partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i
medesimi valori avrebbe più importanza di qualsiasi macchina
di propaganda. Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole
obbligatorie né di ortodossie ideologiche; non fiderebbero sull'azione
collettiva, ma piuttosto sull'iniziativa individuale e sulla
solidarietà che può esistere fra amici che si conoscono
bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza" (16).
Non è difficile riconoscere in questo modello l'esempio di vita
vissuta fornito, una decina di anni prima, dal gruppo dei 'novatori
dissidenti', distaccatosi dal movimento di Giustizia e Libertà
alla fine del 1935 per dissensi politici, e che comprendeva - oltre a
Caffi, suo ispiratore - anche Nicola Chiaromonte, Mario Levi e Renzo
Giua (morto poi, quest'ultimo, durante la guerra civile in
Spagna dove era accorso come volontario per combattere contro il fascismo)
(17).
Critica della violenza
Tra i temi trattati da Caffi nei suoi scritti, grande rilievo
assume la critica della violenza, a cui ha dedicato il saggio appena
citato, che resta uno dei suoi più belli e penetranti. La tesi
di Caffi è espressa con grande chiarezza fin dalle prime righe,
dove
afferma che un movimento "il quale abbia per scopo di assicurare agli
uomini il pane, la libertà e la pace, e quindi di abolire il
salariato, la subordinazione della società agli apparati coercitivi
dello Stato (o del Super-Stato), la separazione degli uomini in
'classi' come pure in nazioni straniere (e potenzialmente ostili) l'una
all'altra, deve rinunciare a considerare come utili, o anche
possibili i mezzi della violenza organizzata, e cioè: a) l'insurrezione
armata; b) la guerra civile; c) la guerra internazionale (sia pure
contro Hitler, o... Stalin); d) un regime di dittatura e di terrore
per consolidare? l'ordine nuovo" (18).
Come ha scritto Nicola Chiaromonte, "in un'epoca in cui
non solo legioni di intellettuali si son gloriati di essere affiliati al
partito della violenza, ma si son trovati filosofi per introdurre la
violenza nella natura stessa del pensiero, Andrea Caffi opponeva
alla violenza in ogni sua forma un rifiuto radicale. Quale che ne sia
il punto di partenza, si può ben dire che il suo discorso è
sempre diretto a opporre le ragioni dell'uomo all'urgenza delle forze
che lo assillano, e talvolta lo sopraffanno" (19).
Va rilevato che la "critica della violenza" di Caffi si differenzia
dalla "nonviolenza assoluta", di matrice generalmente religiosa.
Caffi non assolutizza il comandamento biblico "non uccidere", facendo
discendere da questo il rifiuto della violenza sempre e
comunque e in tutte le sue forme (come Tolstoj e, per citare un autorevole
nonviolento italiano, Aldo Capitini). Caffi argomenta
le sue tesi piuttosto con motivazioni di natura etica e pratica, che
rinviano alla necessaria corrispondenza tra mezzi e fini.
Per Caffi "ogni violenza è, per definizione, antisociale" (20).
Il ricorso alla violenza per instaurare una società di liberi e
di uguali
è inefficace e conduce anzi a risultati opposti a quelli che
ci si proponeva. "È possibile vincere la violenza con la violenza"
La
questione, in realtà, ne nasconde due molto diverse. La prima
è d'ordine empirico: quale probabilità c'è che un'organizzazione
di
refrattari, uomini liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere,
disponga delle armi, dell'equipaggiamento, delle
capacità tecniche per affrontare gli attuali padroni del mondo
con una ragionevole prospettiva di successo? Ma la questione
decisiva è l'altra: anche supponendo che si riesca a inquadrare
le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale
altamente illuminato della società e della civiltà),
a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori, e infine a impegnare
la
battaglia, è seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta,
in circostanze quanto si voglia 'rivoluzionarie', in quelle
abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza,
e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che
l'impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera?"(21).
Le concezioni di Caffi, espresse negli ultimi anni
di vita nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, trovano le
loro
radici sia in un comprensibile e molto umano sentimento di disgusto
e di orrore per la violenza in sé, sia soprattutto nella
convinzione che il ricorso ad essa sia inefficace e controproducente
ai fini della creazione di una società libertaria e egualitaria
(22). Se questo era vero anche per il passato diventa a maggior ragione
fondamentale dopo lo spaventoso salto di qualità che i
mezzi di distruzione di massa hanno raggiunto nel corso del nostro
secolo e in particolare durante e dopo la seconda guerra
mondiale (23).
Scrive Caffi in proposito: "a) la violenza è incompatibile
con i valori di civiltà e d'umanità socievole che noi vogliamo
appunto
preservare dagli attentati distruttori dei violenti; usando la violenza
noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra
ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la propagazione e
la fioritura; b) le risorse meccaniche e i sistemi
d'organizzazione massiccia (eserciti e polizia Ceka e Gestapo, campi
di concentramento, regime russo nei paesi satelliti) che
vengono attualmente impiegati nella lotta fra gruppi umani hanno raggiunto
un tale grado d'atroce efficienza che la distruzione
completa della società civile se non del genere umano è
diventata una possibilità effettiva. Non è affar nostro provocare
l'Armageddon" (24).
Se la condanna della violenza come strumento di una lotta
politica socialista e libertaria è netta e inequivocabile, non è
comunque da escludere - anche se la questione nel saggio citato non
è minimamente affrontata - che per Caffi possano esistere
situazioni estreme in cui il ricorso alla violenza si renda necessario
come legittima difesa sia individuale che collettiva.
Proprio il fatto di avere fondato la sua opzione nonviolenta
su considerazioni di natura etica e pratica senza assolutizzare
rende possibile ipotizzare delle eccezioni, ossia delle situazioni
eccezionali e estreme nelle quali il ricorso alla violenza sia
inevitabile se non altro per salvaguardare la propria vita e alcuni
valori irrinunciabili. Non va dimenticata in proposito la
partecipazione di Caffi alla Resistenza francese durante la seconda
guerra mondiale che gli costò tra l'altro l'arresto e le torture
della Gestapo (25).
Ma sembra di potere concludere che per Caffi, ammesso che
appunto ci siano casi limite in cui l'uso della violenza si renda
necessario, questo fatto rappresenti comunque la presa d'atto di una
sconfitta, l'accettazione del terreno di scontro scelto dal
nemico e a lui più congeniale. In ogni caso non è attraverso
la violenza che si può arrivare alla costruzione di una società
di liberi
e di uguali.
Una conferma di ciò che si è finora sostenuto si può
rintracciare in un saggio di Caffi dal titolo "E' la guerra rivoluzionaria
una
contraddizione in termini?", scritto sempre nel 1946 e quindi coevo
a Critica della violenza, di cui può rappresentare un'utile
integrazione. Da un lato Caffi nega che fosse giusto, finché
esisteva ed era forte il nazismo, che i socialisti dovessero puntare al
disfattismo e a una rivoluzione socialista (peraltro impossibile in
Inghilterra durante la guerra). Dall'altro nega che possa esistere
una "guerra rivoluzionaria", una guerra fatta dai socialisti, ?se il
socialismo ha da essere una vera liberazione dell'uomo?.
La situazione difficile e contraddittoria in cui si troverebbero i
socialisti in caso di guerra è delineata da Caffi in questi termini:
"Potrebbe ben essere che la guerra, quali che siano i suoi motivi e
i suoi scopi, sia essenzialmente un fatto inaccettabile dal
punto di vista socialista. Nello stesso tempo, giacché siamo
uomini inevitabilmente legati ad un comune destino, non possiamo
semplicemente trarci da parte e dire: Non è affar nostro . Possiamo
sottostare al nostro destino con dignità; salvare la nostra
anima, aiutare un piccolo gruppo di amici a salvare la loro. Ma questo
sarà tutto" (26).
Stato e Nazione
La concezione che Caffi ha del socialismo, già è
stato sottolineato più volte, è apertamente e dichiaratamente
libertaria. Non è
un caso che nel 1964, nel presentare la prima raccolta di scritti di
Caffi da lui curata apparsa col significativo titolo "Socialismo
libertario", Gino Bianco abbia richiamato una citazione di Rodolfo
Morandi che Caffi avrebbe sicuramente condiviso e che
potrebbe benissimo essere uscita dalla sua penna:
"Il nuovo socialismo deve dichiararsi schiettamente libertario
(senza punto impaurirsi della baldanza anarchica di quella
qualifica!). È l'eredità gravosa del lungo periodo di
lotta legale, lo ìstatalismo' che ha spezzato le reni così
alla seconda come alla
terza internazionale, che è da scrollarsi di dosso" (27).
L'antistatalismo di Caffi è riscontrabile in più punti
dei suoi scritti. Va precisato in proposito che egli non arriva all'antistatalismo
radicale e assoluto dell'anarchismo tradizionale. Caffi appare pessimista
rispetto alla possibilità di una completa abolizione dello
Stato come istituzione politica necessaria per la vita sociale. Ciononostante
egli si pronuncia in modo netto contro la
forma-Stato così come la conosciamo oggi, e il tipo di stato
a cui mira, così come viene delineato nei suoi scritti, appare molto
vicino a quella 'società organizzata', retta sull'"autogoverno
popolare", in cui si riconosce gran parte del pensiero anarchico.
Le concezioni di Caffi sullo Stato si trovano delineate soprattutto
in "I socialisti, la guerra e la pace" (1941-1942), che
rappresenta probabilmente l'opera più importante dal punto di
vista politico che il rivoluzionario italo-russo ci abbia lasciato
(28).
Per Caffi, la direzione verso la quale ci si deve muovere è
quella della applicazione del principio federativo alla struttura e alla
macchina amministrativa dello Stato, e del completo superamento dell'idea
di sovranità dello Stato-nazione. La struttura unitaria
e tendenzialmente monistica dello Stato va modificata mediante una
idonea azione costituente. Da un lato si deve sottrarre
l?esclusiva della sovranità allo Stato nazionale attraverso
la creazione di una federazione europea, dall'altro occorre creare e
rafforzare tutta una serie di enti autonomi (cooperative, sindacati,
associazioni politiche, mutualistiche, assistenziali, culturali e di
altro genere), esautorando lo Stato dalle sue tradizionali funzioni
(29). Allo Stato va anche tolto il monopolio del diritto,
passando dal diritto statale al diritto sociale. La società
deve produrre al proprio interno il diritto per autogovernarsi. Caffi si
richiama esplicitamente, in proposito, al "droit social" di Gurvitch
che a sua volta affonda le sue radici nell'opera di Proudhon
(30). La critica che Caffi rivolge al nazionalismo e al concetto di
Stato-nazione è radicale.
Secondo Gino Bianco, negli anni Trenta "nell'area socialista
degli emigrés italiani solo Caffi e Silvio Trentin portano a fondo
la
critica dell'ideologia dello Stato-nazione" (31).
Proprio il fatto di credere nello Stato-nazione, secondo
Caffi, ha paralizzato l'azione di molti dirigenti e di molti partiti socialisti
nel 1914 e negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Questo
è uno degli aspetti che differenziano maggiormente Caffi
dalla socialdemocrazia dei suoi tempi. Scriveva in proposito che "l'obbiettivo
essenziale di una politica socialista, oggi, non
potrebbe essere che la lotta contro la 'macchina' dello Stato nazionale,
che è diventato l'agente principale, se non unico,
dell'oppressione sociale" (32).
Nel saggio "Semplici riflessioni sulla situazione europea",
scritto nel 1935, analizzando le tensioni internazionali destinate a fare
precipitare in pochi anni il continente in un nuovo immane conflitto,
egli arriva a sostenere che la responsabilità della guerra che
si affaccia all'orizzonte non è del fascismo, bensì della
divisione dell'Europa in Stati sovrani: "Finché vi sono Stati, il
'sacro
egoismo' è legge suprema, massima intelligenza, e - grazie al
cielo - oggi non si può più illudersi di fare agire questi
egoismi nel
senso di un 'interesse generale'; sono chimere da abbandonare ai non
innocenti trastulli della storiografia liberale. Quello che
porta l'Europa alla guerra non è il fascismo, ma l'assetto dell'Europa,
divisa in Stati sovrani. Le spartizioni territoriali, i 'corridoi',
le minoranze nazionali, la rovina economica creata dalle barriere doganali,
non è il fascismo che li ha inventati o creati. Sono
questioni che si potevano poco a poco risolvere senza guerra? Cosa
si è fatto su questa via in diciassette anni?" (33).
L'adesione a una politica di appoggio allo Stato - in nome
dei "sacri interessi nazionali" - da parte dei partiti affiliati alla
Seconda Internazionale fece di Caffi - a partire dal 1914 - un socialista
totalmente estraneo all'organizzazione e ai metodi di
lotta politica della socialdemocrazia, dalla quale lo separava peraltro
la sua stessa concezione del socialismo. Nulla era in effetti
più distante da Caffi del vecchio riformismo socialdemocratico,
che faceva coincidere il socialismo con l'espansione del ruolo
dello stato nell'ambito dell?economia e della società.
Come ha scritto Gino Bianco, "nella ricerca delle origini dei
mali presenti del movimento operaio, Caffi indicava non solo nella
pratica bolscevica (di Lenin prima e in quella terroristica e poliziesca
dello stalinismo poi) ma anche nel 'mito burocratico' nato
dall'esperienza della socialdemocrazia tedesca, modello ideale di ogni
'moderno' partito politico, le cause della rivoluzione che
ha colpito i partiti socialisti" (34).
Indicative, in proposito, le affermazioni contenute nel saggio
"Opinioni sulla rivoluzione russa", pubblicato da Caffi nel numero
del marzo 1932 dei «Quaderni di Giustizia e Libertà»:
"Ora il socialismo deriva il suo stesso nome, il suo pathos, la sua gloriosa
pretesa alla qualifica di neo-umanesimo proprio dal fatto che si è
eretto a difesa della 'società' contro gli inumani congegni
dell'ordinamento statale ed ha perseguito la completa emancipazione
della società - delle concrete comunità di uomini vivi -
dal
coercitivo sistema, dove gli uomini non figurano che come 'numeri',
'soggetti', schede. E se il socialismo abbandona questo
motivo dominante, non troverà più argomenti, né
morale sostegno per combattere la dittatura comunista
Socialismo e democrazia
Di notevole interesse sono le concezioni di Caffi
riguardo la democrazia e il rapporto che intercorre tra questa e il socialismo.
Caffi distingue in modo netto tra la democrazia a cui aspira il movimento
operaio e socialista e la democrazia realizzata
storicamente dagli Stati, quella che oggi verrebbe definita la "democrazia
reale". Egli nega con forza "l'idea che la minima
solidarietà di interessi, una pur transitoria comunanza di scopi
possa esistere fra quel che noialtri intendiamo per 'democrazia' -
autonomia del popolo - e il più 'democratico' degli Stati".
Nel già citato saggio "Il socialismo e la crisi mondiale", Caffi
contesta
l'idea che gli Stati che si definiscono democratici siano in effetti
tali: "Un acutissimo osservatore della realtà sociale moderna -
Dickinson - già nel 1914 affermava che i regimi moderni, abusivamente
qualificati come 'democratici', sono in realtà una
combinazione di 'ochlocrazia' (sovranità più apparente
che reale di folle senza coesione) con la plutocrazia - regno effettivo
delle grosse fortune? (36).
Caffi non si limita a condividere il giudizio di
Dickinson, ma va oltre mettendo in discussione l'identificazione tra democrazia
e
sovranità popolare, a cui mostra di non credere: "Scartiamo
nettamente l'assurda supposizione che 'democrazia' debba
significare 'popolo governato dal popolo stesso'. Nessuna adunata di
popolo (e neppure alcuna assemblea tampoco numerosa)
ha potuto mai effettivamente governare (esercitando cioè in
concreto i 'poteri' esecutivo, legislativo, giudiziario ecc.) neppure in
una minuscola città greca o in quei due cantoni rurali della
Svizzera famosi come esempi di democrazia diretta. E se si ammette
la delega della 'sovranità popolare' sia di un uomo sia di un
partito politico, i risultati tipici che offre sinora l'esperienza della
storia sono da un lato il cesarismo plebiscitario, dall'altro quella
vera (o 'nuova') democrazia che rende ora felici i polacchi i
bulgari gli jugoslavi.
La realtà della democrazia s'afferma non con la fiducia negli
eletti ma con la possibilità di manifestare efficacemente la propria
sfiducia verso di loro, di controllarli ad ogni passo, di limitarli
in funzioni strettamente definite. Anche la forza di un Parlamento si
manifesta non nella nomina di un governo, ma nella facoltà di
rovesciarlo, nel discutere e criticare le leggi (che non possono
essere 'creazione collettiva' ma sempre sono testi elaborati da pochi
competenti) [...]. La sostanza dell'ordinamento
democratico sta nella difesa dell'incolumità personale d'ogni
cittadino contro qualsiasi arbitrio o eccesso della 'potestà
coercitiva' e nel raggiungimento di un massimo d'uguaglianza nella
facoltà riconosciuta ad ogni individuo di conoscere e
verificare tutti gli atti dei pubblici poteri? (37).
Caffi si sofferma sul ruolo di difesa della democrazia
svolto storicamente dai partiti socialisti in Europa nei decenni tra fine
ottocento e inizio novecento. Egli mette in risalto come all'interno
di Stati che potevano dirsi democrazie "solo con moltissime
riserve (per causa di tutti gli elementi autoritari che vi perpetuavano
le gerarchie militari, burocratiche e soprattutto
plutocratiche); persino in paesi semi-autocratici come la Germania,
l'Austria-Ungheria e la Russia (dopo il 1905) non pochi
soprusi venivano frenati per paura del chiasso che susciterebbero i
socialisti" (38).
L'azione di vigilanza e di pressione democratica era portata
avanti dai socialisti non solo con le campagne elettorali, ma con la
stampa, i sindacati, il ricorso a scioperi generali politici e altre
forme di lotta e di agitazione. La pressione esercitata in tal modo
guadagnava senza dubbio in efficacia "per il fatto che i socialisti
si mantenevano fuori dall'ingranaggio governativo", si
sottraevano alle omertà e relative sanzioni cui è soggetto
il 'personale dirigente' dello Stato e davano al pubblico affidamento di
incorruttibilità. Ma, ben inteso, questa stessa circostanza
per cui tutto l'apparecchio ingente di risorse materiali e organizzazioni
amministrative rimaneva in mano dei nostri avversari, segnava i limiti
della forza socialista" (39).
In ogni caso, per Caffi, con lo scoppio della prima guerra mondiale
tutto è cambiato, e per i socialisti non è più lecito
farsi
illusioni: "la 'democrazia' quale funziona oggi nei grandi Stati moderni
non può più essere considerata terreno naturalmente
propizio ai progressi del socialismo: in ogni caso, non si può
avere nella sua 'evoluzione' la fiducia che poteva essere legittima
nel 1889" (40).
La situazione di profonda crisi in cui era caduto il socialismo
a partire dal fatidico anno 1914 non sfuggiva a Caffi, che ne fece
oggetto di attenta riflessione e di analisi impietosa. Negli ideali
del socialismo egli continuò peraltro a identificarsi per tutta
la
vita, indicando nel recupero dei suoi più autentici valori e
nella capacità di correggere gli errori del passato la via di una
possibile e necessaria rinascita.
Per chi ritiene che i valori del socialismo - la libertà, la
giustizia sociale spinta fino a una tendenziale eguaglianza, la solidarietà,
il
primato dell'uomo sulle leggi del mercato - non possano e non debbano
scomparire perché l'alternativa sarebbe la barbarie,
oggi più che mai risuonano attuali le parole scritte da Caffi
nel 1949 nel già più volte citato saggio "Il socialismo e
la crisi
mondiale":
Se il socialismo oggigiorno non può essere altra cosa che un
'apparato' d'azione politica (con stinte o tarate coperture
ideologiche) impegnato - assieme ad altri partiti - nel mesto compito
di mantenere più l'apparenza che la sostanza di regimi
"democratici" in un'Europa sconquassata e imbarbarita, non vale proprio
la pena di essere socialista piuttosto che radicale o
liberale o magari democratico-cristiano; se invece intendiamo per socialismo
la continuazione - con discesa nel popolo - delle
grandiose ed audacissime speranze concepite nel Settecento, di attuare
una completa emancipazione della ragione umana, sui
principii della quale è unicamente possibile fondare la pace,
la fraternità, la felicità per tutti, allora dobbiamo cominciare
col
riconoscere che tutti gli eventi dall'agosto 1914 in poi hanno calpestato,
soffocato, deviato questo movimento e che... bisogna
ricominciare da capo. Spietato, prima di tutto, deve essere l'esame
di coscienza giacché inavvedutezze e colpose facilonerie da
parte nostra hanno contribuito certamente al così catastrofico
generale collasso (41).
Note al testo
l. Sulla Vita e il pensiero di Caffi si veda G. BIANCO, "Un socialista
irregolare";
Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia, con introduzione
di A. Moravia, Cosenza, Lerici, 1977; N.
CHIAROMONTE, Introduzione, in A. CAFFI, Critica della violenza, a cura
di N. Chiaromonte, Milano, Bompiani, 1966; C.
VALLAURI, Caffi Andrea, in Dizionario biografico degli italiani, voI.
16, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1973, pp.
264-267.
2. Su Merlino si veda la recente e esaustiva biografia di G. BERTI.
Francesco Saverio Merlino. Dall'anarchismo socialista al
socialismo liberale (1856-1930), Milano. Franco Angeli, 1993. Per una
interpretazione parzialmente diversa dell'approdo
teorico e politico del pensatore napoletano negli anni della sua maturità,
mi permetta di segnalare anche il mio "Socialismo
liberale o socialismo libertario", in A/rivista anarchica, n. 213,
novembre 1994.
3. G. BIANCO, Presentazione, in A. CAFFI, Scritti politici, a cura
di G. Bianco, Firenze, La Nuova Italia. 1970, p. VII.
4. A. CAFFI, "Opinioni sulla rivoluzione russa", in ID.. Scritti politici.
cit.. p. 98
5. Ivi, p. 108.
6. Cfr. G. BIANCO. Un socialista ?irregolare?. cit., p. 92.
7. A. CAFFI, Individuo e società, in ID., Critica della violenza,
cit.. p. 39.
8. Ivi, p. 35.
9. lvi, p. 48.
10. A. CAFFI, Critica della violenza, in ID., Critica della violenza,
cit.. p. 86.
11. A. CAFFI, Individuo e società, cit., p. 43.
12. "Nel suo significato primordiale, la nozione di politica si ricollega
alla città greca, dove lo Stato, la società e il popolo erano
(pressapoco) una sola e medesima realtà, e cioè una permanenza
di rapporti fra persone coscienti di esistere e le quali volevano
esistere il meglio possibile nella sicurezza di un determinato ordine.
Aristotele designa tali rapporti col termine di philia. C'è chi
pensa che sia un errore tradurre la parola con amicizia . E tuttavia,
i Greci erano soliti pesar bene il senso preciso delle
parole..." A. CAFFI, Società, 'élite' e politica, in
ID., Critica della violenza, cit., p. 137.
13. N. CHIAROMONTE, Introduzione, in A. CAFFI, Critica della violenza,
cit., p. 5.
14. A. CAFFI, Il socialismo e la crisi mondiale, in Id., Critica della
violenza. cit., pp.
15. A. CAFFI, Borghesia e ordine borghese, in Id., Critica della violenza,
cit., pp.
233-234.
16. A. CAFFI. Critica della violenza, cit.. pp. 103-104.
17. Cfr. A. GAROSCI, Vita di Carlo Rosselli, Firenze, Vallecchi, 1973,
pp. 332-336; O. BIANCO, Un socialista "irregolar" .
Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia, cit., pp. 62-66;
ID., Chiaromonte - Caffi. lettere ed altro, in «Settanta»,
3,
1972, pp. 38-46.
Sull?influenza esercitata da Caffi su Rosselli nei primi anni Trenta,
e più in generale sul contributo teorico del rivoluzionario
italo-russo al dibattito in Giustizia e Libertà, si veda anche
5. FEDELE, "E verrà un'altra Italia; Politica e cultura nei "Quaderni
di Giustizia e Libertà", Milano, Franco Angeli, 1992.
18. A. CAFFI, Critica della violenza, cit.. p. 77.
19. N. CHIAROMONTE, Introduzione, in A. CAFFI, Critica della violenza,
cit., p. 25.
20. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 81.
21. Ivi, pp. 83-84.
22. Non va dimenticato che in precedenza Caffi aveva preso parte come
volontario alla prima guerra mondiale. Come ha
rilevato opportunamente Gino Bianco, "la decisione di arruolarsi volontario
nell'esercito francese, da parte di un socialista come
lui, suscita meraviglia. A Nicola Chiaromonte che negli anni trenta
gli pose bruscamente la domanda, Caffi spiegò candidamente
che, ?in primo luogo non gli era stato possibile non desiderare la
sconfitta del militarismo tedesco e la vittoria della Francia; in
secondo luogo, vedendo partire tanti amici incontro alla morte la sola
scelta personale ammissibile gli era parsa quella di
condividerne il destin" [...] Caffi insomma partecipò dell'illusione
secondo cui il progresso della democrazia socialista passava
attraverso la distruzione degli Imperi centrali. C'era in lui come
in tanti altri, l'idea che gli "Stati borghesi avrebbero attuato poi, a
guerra vittoriosa finita quelle riforme che erano così dure
da conquistare attraverso i movimenti popolari" e la speranza che le
nazionalità oppresse avrebbero potuto acquistare la loro indipendenza
solo con la sconfitta degli imperi austro-ungarico e
germanico. Ma la ragione probabilmente più profonda del suo
interventismo fu il sentimento che a catastrofe avvenuta non si
potesse starsene in disparte, quando tanti amici morivano nei campi
di battaglia". G. BIANCO, Un socialista "irregolare", cit.,
pp. 2 1-22.
23. Secondo Gino Bianco "negli anni trenta Caffi non aveva rinunciato
a considerare utili o possibili i mezzi della violenza
organizzata ('finché le rivoluzioni, simili in tutto alle guerre
sono l'unico mezzo per portare rimedio - o solo un giusto compenso '
- alle molto più turpi, prolungate, silenziose atrocità
che ingenera quotidianamente l?ineguaglianza sociale')". È solo
dopo
l'esperienza della seconda guerra mondiale, "del mondo concentrazionario"
degli armamenti nucleari e dell'era della 'violenza
totale'", che Caffi "oppone un rifiuto radicale anche alla violenza
rivoluzionaria, sia nella forma dell'insurrezione armata e della
guerra internazionale che del 'regime di dittatura e terrore per consolidare
l'ordine nuovo'", ivi, p. 97.
In effetti, è lecito pensare che l'esperienza della seconda
guerra mondiale abbia solo accentuato un rifiuto della violenza che in
Caffi era già presente, anche se fino a quel momento non si
era espresso con altrettanta radicalità. È questo un tema
che
meriterebbe un approfondimento, ma ogni ricerca in proposito si scontra
con la scarsità della documentazione fino a questo
momento disponibile. Mi sembra comunque significativa la testimonianza
di Antonio Banfi, che di Caffi fu intimo amico a partire
dagli anni giovanili degli studi universitari condotti da entrambi
in Germania: "Qualche mese dopo nell'atrio dell'Università
berlinese; il vento di marzo premeva alle vetrate. Guardavamo il quadro
delle lezioni, io e Confucio Cotti [...] E ci si fece vicino
l'altro con la sua chioma fulva e l'occhio ardente di sole, Andrea
Caffi, cavaliere errante delle guerre e delle rivoluzioni. Veniva
dalle prigioni russe donde l'aveva tratto un discorso di Filippo Turati
alla Camera e ne rideva come rideva più tardi al
cannoneggiomento delle Argonne, allo fucileria del Sabotino, ch'egli
aveva affrontato col fucile a tracolla disposto a morire non
ad uccidere". A. BANFI, Tre maestri, in L'Illustrazione italiana, 3
novembre 1946. p. 284. Il corsivo è mio.
24. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 92.
25. "A Tolosa partecipa all'attività dei gruppi della resistenza
e tuttavia confessa di non riuscire a condividere le loro speranze di
'rigenerazione', giacché la sua è anche una crisi di
credenze, aggravata dal sentimento di 'non essere partecipe di qualche
cosa
di definitivo. Tutto quello che sta accadendo adesso - aggiunge - non
si può paragonare a niente di quello che pensavamo noi,
non si può inserire nelle concezioni intellettuali e morali
della nostra generazione. L'unica cosa solida è il mondo dell'amicizia,
un'amicizia attiva come quella che anche a me ha dato la salvezza".
Arrestato dalla milizia di Darmand verso la fine del 1944,
conobbe gli orrori della tortura e degli interrogatori brutali. Riuscì
tuttavia a salvarsi per la 'testimonianza', a lui favorevole,
fornita da un giovane collaborazionista corso che aveva conosciuto
tra i clochards e gli 'irregolari' di Tolosa". O. BIANCO. Un
socialista "irregolare", cit.. p. 85. Le notizie fornite da Bianco,
per quanto importanti, non consentono di chiarire tutti i dubbi.
Sarebbe interessante sapere se Caffi a Tolosa ha preso parte a episodi
di lotta armata, oppure se il suo impegno si è
manifestato esclusivamente nelle forme della resistenza nonviolenta.
26. A. CAFFI, È la guerra rivoluzionaria una contraddizione
in termini?, in Id., Scritti politici, cit., p. 319. La critica della
violenza di Caffi, tutta interna al pensiero socialista, presenta notevole
lucidità e coerenza. Caffi, che tra l'altro negli anni
successivi alla seconda guerra mondiale collaborò dalla Francia
ad alcune iniziative di Aldo Capitini, ha esercitato un'influenza
diretta e significativa su esponenti di rilievo del movimento nonviolento.
Tra i primi a richiamare l'attenzione sull'importanza del
pensiero nonviolento di Caffi è stato Lamberto Borghi, che nel
suo volume Educazione e autorità nell'italia moderna, Firenze,
La Nuova Italia, 1951, ne ha tracciato un'efficace sintesi. In epoca
a noi più vicina si è richiamato esplicitamente a Caffi anche
Giuliano Pontara, nel suo saggio Violenza e terrorismo. il problema
della definizione e della giustificazione. in "Dimensioni del
terrorismo politico", a cura di L. Bonanate, Milano, Franco Angeli,
1979, p. 65.
27. G. BIANCO, introduzione, in A. CAFFI, Socialismo libertario. Milano,
Azione Comune, 1964, pp. 11-12. La citazione di
Morandi prosegue peraltro con un richiamo a Marx che sembra riportare
su un piano di maggiore ortodossia la "scandalosa"
affermazione precedente del leader socialista: "È tutta la critica
marxista dello stato e della burocrazia, che è da riprendere e
portare a nuovi sviluppi". R. MORANDI, Ricostruzione socialista, il
socialismo integrale di Otto Bauer, ora in ID., La
democrazia del socialismo 1923-1937, Torino, Einaudi, 1961, p. 184.
28. Scritto sotto forma di Tesi per il dibattito interno fra i militanti
socialisti italiani dell?emigrazione antifascista, in un momento
in cui i socialisti dispersi in vari paesi cercavano di definire il
loro atteggiamento di fronte alla guerra, specie dopo l?ingresso
dell'URSS fra i belligeranti. Il documento di Caffi si contrappone
alla Tesi di Nenni e Saragat (totalmente favorevole alla politica
degli Alleati) e a quella di Modigliani (che si richiamava al tradizionale
pacifismo "zimmerwaldiano"). tn opposizione alla politica
"frontista" di Nenni e Saragat, orientati in quel momento verso l'alleanza
strategica coi comunisti, ma critica anche rispetto al
pacifismo intransigente di Modigliani, che per quanto moralmente nobile
rischiava di essere sterile sul piano politico, la Tesi di
Caffi (scritta in collaborazione con Giuseppe Faravelli, Enrico Bertoluzzi
e Emilio Zannerini della Federazione Socialista del
Sud-Ovest della Francia), proponeva un'adesione condizionata alla lotta
contro le potenze fasciste, cercando di salvaguardare
l'autonomia del movimento socialista per il presente e soprattutto
per il futuro. Cfr. A. LANDUYT, Un tentativo di
rinnovamento del socialismo italiano: Silone e il Centro estero di
Zurigo, in L'emigrazione socialista nella lotta contro il fascismo
(1926-1939), Firenze, Sansoni, 1982. Sull?importanza delle cosiddette
"Tesi di Tolosa" ha richiamato di recente l'attenzione
Stefano Merli, che nel suo volume i socialisti, la guerra, la nuova
Europa. Dalla Spagna alla Resistenza 1936-1942, ha
riprodotto integralmente i documenti originali, corredati dai materiali
preparatori e da una scelta significativa del successivo
dibattito. Secondo Merli, la tesi "I socialisti, la guerra e la pace",
a lungo attribuita al solo Caffi, sarebbe stata in realtà scritta
da
Faravelli in collaborazione con Bertoluzzi e Zannerini, lasciando poi
a Caffi - che aveva partecipato alla discussione collettiva -
la redazione finale. Si veda anche, in merito, A. PANACCIONE, I socialisti
italiani e la seconda guerra mondiale, in Giano, n.
19, gennaio-aprile 1995.
29. Cfr. A. CAFFI, i socialisti, la guerra, la pace, in ID., Scritti
politici, cit., .specialmente pp. 303-304.
30. Cfr. in proposito O. GURVITCH, L'idée de droit social, Paris,
Librairie du Récueil Sirey, 1932. Sull'influenza di Gurvitch
su Caffi, ma anche su Rosselli e altri esponenti di Giustizia e Libertà,
si veda C. MALANDRINO, Socialismo e Libertà.
Autonomie, Federalismo, Europa da Rosselli a Silone, Milano, Franco
Angeli, 1990.
31. G. BIANCO, Un socialista "irregolare":Andrea Caffi intellettuale
e politico d?avanguardia, cit., p. 67. Di Silvia Trentin si
veda, in particolare, la raccolta di scritti Federalismo e libertà.
Scritti teorici 1 935-1943, Venezia, Marsilio, 1987.
32. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 101.
33. A. CAFFI, Semplici riflessioni sulla situazione europea, in ID..
Scritti politici, cit., pp. 193-194. Il corsivo è mio.
Interessante, nello stesso saggio, anche il richiamo alla necessità
di una "politica estera" autonoma da parte del movimento
operaio e socialista: "Credo che, oltre la politica interna rivoluzionaria,
vi sia un'azione internazionale da svolgere, metodica e
non fatta di pura propaganda" (ivi, p. 195).
34. G. BIANCO, Presentazione, in A. CAFFI, Scritti politici, cit.,
pp. XI-X1l.
35. A. CAFFI, Opinioni sulla rivoluzione russa, cit., p. 101.
36. A. CAFFI, Il socialismo cia crisi mondiale, cit., p. 381.
37. Ivi, pp. 388-389.
38. lvi, p. 389.
39, ibidem.
40. A. CAFFI, Critica della violenza, cit., p. 101.
41. A. CAFFI, Il socialismo e la crisi mondiale, cit., p. 373.
* Gianpiero Landi è curatore dell'interessante volume "Andrea
Caffi, un socialista libertario", edito dalla Biblioteca Franco
Serantini (Pisa, 1996, pp. 204, lire 25 mila) che raccoglie gli atti
di un convegno svoltosi a Bologna nel 1996 nel quadro delle
iniziative per riapre la riflessione sul pensiero di Caffi, figura
straordinaria di intellettuale, amico di Nicola Chiaromonte e di
Albert Camus, spesso avvicinato ad Hannah Arendt o (sia pure da laico)
a Simone Weil. Un socialista libertario, un
"irregolare", come intitola il suo volume dedicato a Caffi Gino Bianco.
Un socialista tenuto ai margini dalla stessa sinistra italiana
la quale, al contrario, anche oggi avrebbe di che studiare nel pensiero
di Caffi, se davvero ci fosse la volontà di individuare
nuove strade di giustizia e libertà alternative alle scoppiazzuture
politicamente corrette del modello neoliberista. Andrea Caffi,
che Maurice Nadeau ha definito “il Walter Benjamin italiano", può
essere, oggi, una felice scoperta proprio per chi si interroga
su quali strade poter percorrere fuori dall'omologazione globale.