Recensione di Giuseppe Licandro, http://www.bottegascriptamanent.it/?modulo=Articolo&id=1201&idedizione=60
Genesi e percorso di Dp, movimento politico post '68
Punto rosso ci propone uno studio sulle origini di Democrazia
proletaria
Tra il 1968 e il 1978 si sviluppò in Italia un ciclo di lotte
sociali che non aveva avuto riscontri analoghi in passato. In quel periodo
si formarono diversi gruppi politici appartenenti allo schieramento della
Nuova sinistra, il più importante e longevo dei quali fu, senza
dubbio, Democrazia proletaria, fondata nel 1978 e attiva fino al 1991,
quando confluì nel Partito della rifondazione comunista.
Per conoscerne la nascita e l’evoluzione, invitiamo alla lettura del
saggio di William Gambetta, dottore di ricerca in Storia presso l’Università
di Parma, redattore di Zapruder, rivista di storia della conflittualità
sociale nonché collaboratore con il Centro studi movimenti di Parma,
Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi (edizioni
Punto rosso, pp. 288, € 15,00), nel quale si esamina soprattutto la
sua fase costitutiva.
La Nuova sinistra
Gambetta inizia la propria ricostruzione storica dalle lotte studentesche
del 1968 e dalle proteste dei lavoratori metalmeccanici del 1969. Fu proprio
in quel biennio che maturò l’esigenza di dar corpo a un nuovo tipo
di partito operaio, non più strutturato burocraticamente, che realizzasse
«una lotta “di lunga durata”, un ciclo di mobilitazioni destinato
a scuotere le fondamenta della società e della politica».
Fu così che sorsero svariati gruppi extraparlamentari, i quali
presentavano tra loro discordanze ideologiche anche rilevanti.
I primi furono, nel 1968, Avanguardia operaia, il Movimento studentesco
e l’Unione dei comunisti italiani; l’anno successivo nacquero il Manifesto
(da una scissione del Partito comunista italiano), il Movimento politico
dei lavoratori (formato da cattolici dissidenti), Lotta continua, Potere
operaio.
A sinistra del Pci esistevano già da tempo piccole formazioni
politiche, la più nota delle quali era il Partito socialista di
unità proletaria, nato nel 1964 da una scissione del Partito socialista
italiano, che aveva ottenuto un buon risultato nelle elezioni politiche
del 1968, conquistando il 4,4 % dei voti.
La “strategia della tensione”
Il 12 dicembre del 1969 la strage di piazza Fontana a Milano pose fine
alla fase più acuta dei conflitti sociali, facendo piombare l’Italia
nel torbido periodo della “strategia della tensione”, durante il quale
ebbero luogo alcuni gravissimi attentati dinamitardi, ad opera di gruppi
neofascisti (la strage del treno Italicus e quella di Brescia nel 1974),
intervallati da vari tentativi, peraltro falliti, di golpe.
Questa difficile situazione spinse i militanti della Nuova sinistra
a recuperare il modello organizzativo di tipo leninista, ma questo «confliggeva
con le pulsioni antiautoritarie del Sessantotto e con la vivacità
del suo dibattito teorico».
Qualche gruppo di estrema sinistra decise di partecipare alle elezioni
politiche del 1972, perché ciò «avrebbe significato
conquistare maggiore visibilità per la propria organizzazione».
Oltre al Psiup, anche il Manifesto, l’Mpl e il Partito comunista (marxista-leninista)
italiano presentarono liste proprie, sperando di intercettare una parte
del voto giovanile e operaio, ma, in un clima politico di parziale svolta
a destra dell’elettorato, i voti delle quattro liste a sinistra del Pci
raggiunsero appena il 3,2 %, senza che nessuna di esse ottenesse seggi.
L’unificazione tra Mpl, Psiup e Manifesto
L’insuccesso elettorale portò allo scioglimento dell’Mpl e del
Psiup (cui seguì nel 1973 anche quello di Potere operaio) e «diede
inizio a un processo che avrebbe ridisegnato la mappa della Nuova sinistra».
Nel novembre del 1972, dalla fusione di ciò che restava dell’Mpl
e del Psiup, nacque il Partito di unità proletaria che, a sua volta,
si unificò nel 1974 con il Manifesto, dando origine a una nuova
organizzazione, denominata Partito di unità proletaria per il comunismo,
Nel Pdup-pc, tuttavia, emerse subito una frattura sulla linea politica
da seguire: i membri dell’ex Pdup (perlopiù funzionari della sinistra
sindacale) criticavano apertamente le scelte compiute dal Pci (impegnato
a realizzare il “compromesso storico” con la Dc), mentre il gruppo guidato
da Lucio Magri, Luigi Pintor e Rossana Rossanda voleva mantenere aperto
il dialogo con i comunisti.
Al Pdup-pc aderì, in seguito, anche il Movimento studentesco
autonomo di Milano, guidato dall’ex leader sessantottino Mario Capanna.
Nel frattempo, in seguito alla vittoria del “No” al referendum abrogativo
della legge sul divorzio tenutosi nel maggio del 1974, ci fu uno spostamento
a sinistra di una parte consistente dell’opinione pubblica. E anche Avanguardia
operaia si convertì all’idea che fosse necessario unificare le forze
della sinistra rivoluzionaria.
Le elezioni amministrative del 1975
Il 1° Congresso nazionale di Lotta continua, tenutosi nel gennaio
del 1975 a Roma, respinse, però, questa prospettiva politica e decise
di non presentare liste proprie alle elezioni amministrative del giugno
seguente, dando ai suoi militanti l’indicazione di votare per il Pci (in
quanto la sua vittoria avrebbe portato a una radicalizzazione dei conflitti
di classe e, quindi, favorito l’estrema sinistra).
Ad aprile dello stesso anno sul Quotidiano dei lavoratori (organo di
stampa di Ao) e su il manifesto (giornale del Pdup-pc) uscì la notizia
dell’accordo siglato dalle due organizzazioni della Nuova sinistra per
presentare liste unitarie in sei regioni, in tre province e in numerosi
comuni, sotto la sigla di “Democrazia proletaria” (in altre quattro regioni,
Ao e Pdup-pc presentarono liste proprie).
Pur condividendo l’identico obiettivo strategico, cioè «un’alternativa
di sinistra nei governi delle città e delle regioni», i dirigenti
di Ao e del Pdup-pc mantennero atteggiamenti alquanto settari, mirando
in campagna elettorale soprattutto a promuovere l’immagine del proprio
gruppo.
L’esito del voto, tutto sommato, fu positivo: «Complessivamente
la nuova sinistra ottenne, in dieci regioni, più di 418.000 voti
(pari all’1,8%) e l’elezione di otto consiglieri regionali». Il dato
più significativo fu la sconfitta della Dc, che perse circa il 3
% e scese al 35 % dei consensi, mentre il Pci aumentò di oltre 6
punti in percentuale, raggiungendo il 33,4 % dei suffragi.
Il quadro emerso dalle elezioni amministrative prospettava, quindi,
«la possibilità concreta di un’alternativa di governo anche
a livello nazionale, aprendo nuovi spazi all’area della sinistra rivoluzionaria».
Le elezioni politiche del 1976
Gambetta mette in evidenza il fatto che «il Pdup-pc non riuscì
né ad amalgamarsi culturalmente né a costruire una prospettiva
unitaria».
La spaccatura tra le sue due componenti emerse chiaramente durante
il 1° Congresso, che si tenne a Bologna tra gennaio e febbraio del
1976: la maggioranza (guidata da Magri e dalla Rossanda) si dichiarò
contraria alla fusione con Ao e all’alleanza con Lc, auspicando un confronto
privilegiato col Pci, al fine di orientarne la strategia verso “l’alternativa
di sinistra”; la minoranza (capeggiata da Vittorio Foa e Silvano Miniati)
era, invece, favorevole alla fusione con Ao e all’alleanza con Lc, criticando
il riformismo portato avanti dal segretario comunista Enrico Berlinguer.
I contrasti si appianarono in vista delle elezioni politiche anticipate
che si tennero il 20 e 21 giugno 1976: su proposta di Foa, infatti, si
decise di costituire un cartello elettorale formato dalle principali forze
della Nuova sinistra.
La lista fu denominata “Democrazia proletaria” e riunì, oltre
ad Ao, Lc e Pdup-pc, anche i Gruppi comunisti rivoluzionari (aderenti alla
IV Internazionale), la Lega dei comunisti e il Movimento dei lavoratori
per il socialismo, ottenendo il sostegno di varie associazioni (Cristiani
per il socialismo, Magistratura democratica, Psichiatria democratica, Unione
inquilini, ecc.).
L’obiettivo era la «“definitiva cacciata della Dc dal governo”
e la sua sostituzione con un esecutivo “delle sinistre”».
Questa volta, però, il responso delle urne fu deludente. Nonostante
l’avanzata del Pci (che ottenne il 34,37 % dei voti), la Dc si rafforzò,
raggiungendo il 38,71 %, mentre Dp conquistò pochi suffragi: «557.025
voti, pari all’1,5 %».
Risultarono, comunque, eletti 6 deputati demoproletari: 3 del Pdup-pc
(Luciana Castellina, Magri ed Eliseo Milani), 2 di Ao (Silvano Corvisieri,
Massimo Gorla), 1 di Lc (Mimmo Pinto). A togliere un po’ di consensi alla
lista demoproletaria fu, secondo l’autore, il Partito radicale, attestatosi
attorno all’1 % dei voti, il quale, in quegli anni, fu «capace di
mettersi in sintonia con le tematiche dei bisogni individuali e con gli
umori antistituzionali della protesta».
La ricomposizione della Nuova sinistra
L’insuccesso elettorale del 1976 mise in moto un processo di ricomposizione
della Nuova sinistra, i cui militanti furono colpiti da un improvviso disincanto
che generò in loro una profonda frustrazione.
Lotta continua si sciolse alcuni mesi dopo, alla fine del Congresso
di Rimini.
In Ao si creò una spaccatura tra il segretario Aurelio Campi
(«che puntava all’unificazione con l’intero Pdup-pc») e la
corrente guidata da Gorla, Emilio Molinari e Luigi Vinci («che progettava
di arrivare alla fondazione del nuovo partito coinvolgendo soltanto la
sua componente di “sinistra”»).
Nel Pdup-pc si acuirono i conflitti tra i seguaci di Magri e quelli
di Miniati, e si registrò la fuoriuscita di Capanna, in netto disaccordo
con l’ufficio di segreteria.
La situazione si definì meglio nel febbraio del 1977 allorché,
dopo una riunione del Comitato centrale del Pdup-pc, la fazione di Miniati
e Foa si staccò dalla maggioranza. Nel marzo del 1977 maturò
anche la scissione interna ad Ao, quando la corrente di Campi si separò
dal resto del partito.
Ci fu, successivamente, una doppia fusione: «la minoranza di
Ao si aggregò alla maggioranza del nuovo Pdup-pc; mentre in maggio,
con un’intesa tra la maggioranza di Ao, la minoranza pduppina e la Lega
dei comunisti, si formò un coordinamento che avrebbe dato vita al
nuovo partito di Democrazia proletaria».
La nascita di Democrazia proletaria
Il processo di fondazione di Democrazia proletaria iniziò nella
primavera del 1977, mentre in Italia infuriava il movimento di protesta
degli studenti contro il progetto di riforma dell’istruzione universitaria
proposto dal governo Andreotti, che si reggeva grazie anche all’astensione
del Pci.
I militanti dei gruppi della Nuova sinistra impegnati nella costruzione
di Dp, pur essendo attivi nelle assemblee e nei cortei, si scontrano spesso
con le altre componenti del movimento del ‘77 (femministe, autonomi, indiani
metropolitani, ecc.), venendo accusati di portare avanti istanze anacronistiche,
lontane dalla “cultura dei bisogni” incarnata dai nuovi soggetti sociali
anticapitalistici.
Dal loro canto, i dirigenti di Dp presero le distanze dal militarismo
dei gruppi dell’Autonomia operaia: Vittorio Borelli, direttore del Quotidiano
dei lavoratori, dichiarò in un suo articolo la risoluta opposizione
di Dp «alle velleità pitrentottiste».
I tempi di costruzione del nuovo soggetto politico furono piuttosto
lunghi e dovette attendersi la primavera del 1978 per la convocazione del
congresso fondativo.
Il nuovo partito si presentava, almeno in origine, alquanto eterogeneo
sul piano politico, perché in esso erano confluiti militanti provenienti
da esperienze difformi (cattolici di sinistra, comunisti, maoisti, sindacalisti,
socialisti, trotskisti).
Fu, pertanto, necessaria una fase costituente piuttosto prolungata
per cercare di amalgamarne le diverse anime e renderle politicamente omogenee.
Uno strumento molto utile per impostare il dibattito interno, definire
meglio la strategia politica e coordinare le iniziative fu – nonostante
le difficoltà economiche – il Quotidiano dei lavoratori, cui si
affiancarono ben presto la rivista teorica Unità proletaria e il
bollettino d’informazione Democrazia proletaria.
Dp riuscì a ritagliarsi un suo spazio significativo dentro il
movimento sindacale, grazie alla presenza, all’interno dei tre maggiori
sindacati, dei suoi militanti, che assunsero posizioni critiche nei confronti
della “politica dell’austerità” portata avanti in quegli anni da
Cgil, Cisl e Uil.
Importanti furono, in tal senso, le due assemblee che si svolsero al
teatro Lirico di Milano – una nell’aprile del 1997, l’altra nel febbraio
del 1978 – alle quali presero parte migliaia di lavoratori contrari alla
linea di moderazione salariale e riduzione della conflittualità
aziendale, imposta in quegli anni dai sindacali confederali.
Il Congresso di Roma
Il 1° Congresso di Democrazia proletaria si svolse a Roma dal 13
al 16 aprile 1978, in un clima a dir poco surreale, a causa del rapimento
del presidente della Dc, Aldo Moro, da parte delle Brigate Rosse, avvenuto
il 16 marzo precedente.
I circa diecimila convenuti al cinema Jolly di Roma discussero non
solo di questioni organizzative, ma anche dell’atteggiamento da assumere
nei confronti del terrorismo rosso e del “governo di unità nazionale”.
La linea che prevalse fu quella riassunta nello slogan «contro
lo Stato, contro le Br», che, pur condannando apertamente la strategia
eversiva brigatista, stigmatizzava anche i metodi repressivi adottati in
quei mesi dal governo Andreotti.
Il terrorismo rosso fu rigettato in quanto espressione dell’«“estremismo
individualistico”, prodotto dell’impazienza rivoluzionaria della piccola
borghesia» che «accelerava il progetto di “restaurazione autoritaria”».
I delegati demoproletari si distanziarono nettamente dal militarismo
brigatista e nella mozione congressuale conclusiva dichiararono quanto
segue: «Non vogliamo creare dei gulag, non vogliamo tribunali del
popolo, tanto più se poi applicano una giustizia sommaria nel più
completo disprezzo della vita umana e dei diritti dell’individuo».
I referendum del 1978
Dp intrecciò, nel suo primo anno di vita, uno stretto rapporto
con i radicali sul fronte della difesa dei diritti civili e della libertà
di espressione.
I militanti demoproletari s’impegnarono a fondo durante la campagna
elettorale dei due referendum che si tennero l’11 e il 12 giugno 1978:
il primo concerneva la legge “Reale” sull’ordine pubblico, l’altro la legge
sul finanziamento pubblico dei partiti.
Dp cercò di differenziarsi dal garantismo antipartitico del
Pr, sostenendo il «Sì» con l’obiettivo di accrescere
«l’opposizione contro il sistema» e «le contraddizioni
del quadro politico» e mirando a coinvolgere anche i militanti di
base del Pci e del Psi.
Nonostante la vittoria del «No», il risultato del fronte
del «Sì» fu lusinghiero: il 43,6 % dei votanti fu favorevole
all’abrogazione della Legge sul finanziamento pubblico dei partiti, mentre
il 23,5 % degli stessi si espresse contro la legge “Reale”.
Nei mesi successivi il gruppo dirigente di Dp s’impegnò nella
definizione del programma politico e dello Statuto organizzativo, che,
come sottolinea Gambetta, «segnarono uno scarto rispetto al modello
d’ispirazione leninista».
Venne, infatti, messa in discussione la superiorità del partito
rispetto alle masse e si recuperò il modello organizzativo teorizzato
a suo tempo da Rosa Luxembourg e Lev Trotsky, ovvero il «partito-strumento»
in grado di farsi promotore «dell’autorganizzazione della classe
e degli altri soggetti anticapitalistici».
Un partito di tipo nuovo
Importanti furono le innovazioni presenti nello Statuto, atte a favorire
la democrazia diretta e il ricambio tra i dirigenti: «il rifiuto
del comitato centrale, della segreteria e del segretario unico a favore
di una direzione collegiale immediatamente collegata alle federazioni»;
«la formalizzazione dell’assemblea nazionale dei delegati come organismo
“della base” deliberativo e di controllo permanente»; «il mandato
imperativo agli eletti nei gruppi dirigenti e il potere di revocarlo [...]
da parte delle assemblee di base»; «il voto segreto, le liste
aperte e la sospensione del mandato dopo tre incarichi consecutivi».
Significativa fu la decisione di «retribuire funzionari ed eletti
nelle istituzioni dello stato con uno stipendio medio operaio», onde
combattere i privilegi del gruppo dirigente, cui si accostarono anche la
garanzia della piena libertà di dissenso interno e l’adozione di
una struttura di tipo federativo a tutela delle minoranze linguistiche
(arbëreshë, friulana, sarda, sudtirolese, trentina, valdostana).
Pur disponendo su tutto il territorio nazionale di circa 10.000 attivisti
(tra iscritti e simpatizzanti), il centro propulsore di Dp rimase la Federazione
di Milano, che vantava il maggior numero di militanti, e il partito si
diffuse soprattutto nelle metropoli, mentre attecchì poco nelle
città di provincia.
Dp raccolse adesioni soprattutto tra operai, impiegati e studenti,
ma ebbe poco seguito tra le donne, le cui presenze tra i tesserati furono
sempre alquanto ridotte.
Il profilo del militante medio demoproletario, infatti, «fu quello
di un uomo tra i trenta e i quarant’anni, residente in città, spesso
in una metropoli o in un capoluogo delle province settentrionali, mediamente
istruito e occupato o [...] nell’industria o [...] nell’amministrazione
pubblica».
Le elezioni del 1979
Dentro Dp si formò ben presto una divisione tra “partitisti”
e “movimentisti”, i primi favorevoli a presentare una propria lista alle
elezioni politiche del 3 e 4 giugno 1979, gli altri disposti a intese con
i movimenti di base e le altre forze della Nuova sinistra.
Un gruppo di intellettuali (tra cui Luigi Bobbio, Marco Boato, Enrico
Deaglio, Goffredo Fofi, Elio Giovannini, Antonio Lettieri, Luigi Manconi,
Luigi Saraceni) propose la creazione di una lista unitaria che avrebbe
dovuto comprendere Dp, l’Mls, il Pdup-pc, il Pr e una serie di candidati
indipendenti, espressione della società civile.
Nonostante l’Mls, il Pdup-pc e i radicali non avessero accolto la proposta,
Dp si orientò ugualmente verso la lista unitaria. Nacque, così,
Nuova sinistra unita che, alla Camera, si presentò da sola, mentre
al Senato, in alcune circoscrizioni, si abbinò al Pr. Nsu ottenne
appena lo 0,8 % dei voti, senza conquistare alcun seggio, mentre il Pdup-pc
prese l’1,4 % (con sei deputati). Il Pci perse circa il 4 % dei suffragi,
mentre ottenne un buon risultato il Pr, attestatosi al 3,4 %.
Alle elezioni europee, tenutesi una settimana dopo quelle politiche,
fu presente, invece, la lista di Democrazia proletaria col suo simbolo
ufficiale (falce, martello e pugno sul mondo stilizzato). Anche in questa
circostanza i risultati furono poco confortanti, tuttavia Dp, pur avendo
conseguito solo lo 0,7 % dei voti, riuscì a far eleggere Capanna
al Parlamento europeo.
Ritorno al passato
La duplice sconfitta fu attribuita al fatto che Dp non «era riuscita
a mostrarsi quale erede delle lotte del movimento operaio italiano»
e non aveva intercettato i voti comunisti in libera uscita (finiti in parte
al Pdup-pc e in parte al Pr).
Dopo le elezioni del 1979, perciò, «Dp tese a correggere
questa impostazione e a divincolarsi da un’identità di partito troppo
chiusa»: divenne centrale la figura di Capanna, le cui notevoli capacità
di comunicatore lo fecero assurgere a leader indiscusso, divenendo, prima,
coordinatore della segreteria e, in seguito, segretario nazionale. Oltre
che a lui, il rilancio del partito fu affidato a un gruppo di dirigenti
provenienti da Ao, tra cui spiccarono, oltre a Gorla, Molinari e Vinci,
anche Guido Pollice, Edo Ronchi e Giovanni Russo Spena.
L’obiettivo divenne quello di «superare le carenze organizzative
e le inadeguatezze teoriche, accelerando la costruzione del “partito operaio
rivoluzionario”».
A partire dal 1980 venne ristampato, come settimanale, il Quotidiano
dei lavoratori (fallito dopo la sconfitta del 1979), sotto la direzione
di Stefano Semenzato, e fu fondata la Cooperativa editoriale ottanta, che
pubblicò diversi saggi.
Il 2° Congresso nazionale di Dp si svolse a Milano nel febbraio
del 1980 e fu caratterizzato «da scelte più tradizionali rispetto
al percorso di sperimentazione intrapreso nel 1978». Negli anni seguenti,
mentre l’Mls e il Pdup-pc confluirono nel Pci, Dp riuscì ad ampliare
i propri consensi e nelle elezioni politiche del 1983 ottenne 7 seggi alla
Camera dei deputati, conquistando l’1,47 % dei voti.
Come ricorda, in conclusione, Gambetta, «l’esperienza di Democrazia
proletaria proseguì per tutti gli anni ottanta, facendo convivere
le istanze dei movimenti [...] con l’attività istituzionale».
Dp rimase uno degli ultimi nuclei di resistenza contro il neoliberismo
dilagante anche in Italia, «unica forza d’opposizione anticapitalista»,
destinata nel 1991 a incontrarsi, nel Prc, con ciò che restò
del comunismo italiano dopo la dissoluzione del Pci.