La terra degli uomini con la capparella
di Valerio Evangelisti
[Questo articolo è apparso per la prima volta, in francese, sul quotidiano "Le Figaro", il 27 settembre 2004, ristampato nell’antologia fuori commercio "Descrizione di un luogo", Einaudi Stile Libero, 2006. Lo abbiamo ripreso da Carmilla.
L’autore lo definì "una dichiarazione d’amore per la regione in cui sono nato, emiliano per parte di padre, romagnolo per parte di madre".
A prima vista, l’Emilia Romagna ha poco per attirare i turisti. Questi ultimi, del suo paesaggio molto vario, conoscono quasi solo Rimini e la costa adriatica. Le zone appenniniche sono luogo di vacanze soprattutto per gli indigeni venuti dalle città. Tra queste, Bologna è poco visitata (soffre molto la concorrenza di Firenze). Gli altri centri importanti della regione sono quasi ignorati, salvo forse Ravenna e un po’ Ferrara.
Ciò si può capire. Le arterie principali della mia regione non offrono altro panorama che pianure molto estese, in cui l’agricoltura ha conosciuto una precoce industrializzazione. Dunque si transita fra campi di grano, tenute agricole che somigliano un poco a delle officine e allevamenti che sprigionano, oltre a odori naturali buoni e cattivi, altri stomachevoli di origine chimica.
Ebbene, è proprio questa parte dell’Emilia, adagiata sul corso del Po, quella che amo di più. Ricordo di avere percorso, quand’ero bambino e l’A1 era ancora in costruzione, le sue strade bruciate dal sole. Mio padre era direttore di scuole elementari, all’inizio di continuo trasferito, e comunque adorava viaggiare per la regione. Sulla sua utilitaria incontravamo paesi dalla piazza centrale squadrata (normalmente chiamata Piazza Garibaldi, e molto spesso ornata dalla statua dell’Eroe), nella quale, soprattutto la domenica, gli uomini si radunavano davanti alla chiesa. Pochi di loro partecipavano alla messa, riservata alle donne. Stavano là per discutere dei loro affari e delle due grandi passioni regionali di quel tempo: la politica (di sinistra) e il ciclismo, in ordine d’importanza. Calcio e automobilismo sarebbero venuti in seguito.
In quegli anni (fine ’50, inizi ’60), la maggior parte dei contadini e della gente di campagna, soprattutto se anziana, portava ancora l’abito tipico: il mantello (o “capparella”), nero oppure grigio. Piuttosto pesante, teneva il posto del cappotto o della giacca. Sotto non c’erano che il panciotto e la camicia. Ed era curioso vedere tutte quelle figurine vestite di nero, con larghi cappelli neri anch’essi, ammassate sotto i raggi di un sole feroce.
Viene naturale collegare quelle popolazioni alle “genti padane” che abitano le pianure ai lati del Po. Forse è vero da un punto di vista antropologico e culturale, nel più largo senso del termine, ma sul piano storico l’itinerario degli uomini dal mantello nero, in Emilia e in Romagna, è stato differente da quello di ogni altra regione italiana.
Nel 1880, durante una delle grandi alluvioni del Po, drammaticamente frequenti fino ad anni recenti, gli operai agricoli rifiutavano i soccorsi: preferivano lasciarsi annegare, piuttosto che tornare alla vita che conducevano. In quelle campagne vaste e malsane regnavano lo sfruttamento e la miseria, e non c’era lavoro che dalla primavera all’autunno, quando l’agricoltura chiedeva braccia. Anche quando il contadino possedeva il suo campo, o ne era proprietario in parte, come il mezzadro, spesso conosceva la fame, ed era obbligato a mandare le sue figlie a lavorare come mondine nelle paludi della Lombardia.
Ciò che avvenne in seguito lo si legge nel ritratto del mio nonno materno, che non ho mai conosciuto e che morì quando mia madre era ancora piccola. Un uomo bruno dallo sguardo fiero, con baffi enormi e un fiocco nero che gli pendeva dal collo al posto della cravatta. Nato a Imola, la cittadina che unisce l’Emilia alla Romagna, aveva aderito giovanissimo alle ultime propaggini dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori che si ispiravano a Bakunin. In seguito, sull’esempio del deputato imolese Andrea Costa, aveva lasciato l’anarchismo e si era avvicinato al socialismo legalitario, senza per questo rinunciare al cravattone nero.
Soprattutto aveva fatto parte, con i fratelli, del movimento cooperativo, che si proponeva di sottrarre i lavoratori alla miseria attraverso la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Una delle vie per le quali, grazie all’impulso del partito repubblicano e del partito socialista, la sorte degli operai emiliani e romagnoli sarebbe cambiata completamente — mentre più a nord o a sud della Toscana, dove queste esperienze avvenivano su scala minore o erano più primitive, la trasformazione fu molto più lenta.
Questa impronta ha segnato profondamente la regione e ne ha modificato, molto rapidamente, il paesaggio. Non più paludi e zone malsane; al loro posto vaste coltivazioni, fattorie in cui l’abitazione centrale è antica ma la dotazione tecnica è modernissima, canali artificiali e piccole fabbriche per la trasformazione dei prodotti del campo, oppure per la costruzione di beni strumentali.
E’ esagerato dire che tutto ciò lo si deve al movimento cooperativo? Credo di no.
Fino al termine del XIX secolo l’Emilia Romagna era una regione quasi immobile. In Emilia, l’enorme estensione delle proprietà non stimolava né l’innovazione, né la mobilità sociale. Nei campi alcune grandi famiglie o, talora, delle potenti società bloccavano ogni spinta verso la nascita di una borghesia di tipo moderno, mentre i lavoratori si concentravano nei paesi, dove potevano trovare migliori soluzioni alla loro miseria. Quanto alla Romagna, era considerata una terra quasi barbarica, in cui il destino di molte famiglie era l’emigrazione (soprattutto verso l’America Latina) e in cui i duelli con il coltello o il revolver erano frequenti quanto nel Far West.
Unico limite alla barbarie era la vita politica, soprattutto per impulso iniziale del partito repubblicano. Furono i seguaci di Mazzini i primi a promuovere le Società di mutuo soccorso e le Camere del lavoro. Fu per questo che le prime statue collocate nelle piazze, di fronte alla chiesa affollata dalle donne e disertata dagli uomini, furono quelle di Mazzini. Le statue di Garibaldi, più amato dai socialisti, vennero immediatamente dopo. Si dovette a questi due partiti il coinvolgimento attivo delle masse nella politica, prima riservata alle élites e ai ceti privilegiati.
Strappando uomini e donne alla disoccupazione, era tutto il paesaggio che cambiava. La più potente società cooperativa nata in Romagna, quella dei braccianti di Ravenna, si incaricò della bonifica di una delle zone più malsane; altre, sorte sullo stesso modello, costruirono dighe capaci di contenere la forza distruttiva delle acque del Po; i municipi assicurarono lavori pubblici che convertirono le paludi in campagna fertile. Il fascismo cercò di distruggere il movimento operaio e contadino organizzato, ma fu un successo effimero. In poche altre regioni vi fu una Resistenza così accanita, talora persino selvaggia, come nelle pianure e sulle montagne emiliano-romagnole. Un intero popolo intuiva bene cosa gli si voleva strappare.
La riforma agraria del secondo dopoguerra completò il processo. Parte degli operai agricoli e dei mezzadri si trasformarono in piccoli proprietari, altri in lavoratori urbani, altri ancora in padroni di officine e di fabbrichette. Sia in campagna che in città. Per molto tempo i campagnoli hanno conservato il ricordo di ciò che erano stati i loro padri e, fino a qualche decennio fa, le antiche abitudini. Per esempio quella di ritrovarsi la domenica mattina, con la loro capparella e il sigaro tra le labbra, a discutere sulla piazza principale di un borgo cotto dal sole.
Tutto ciò può sfuggire facilmente a un turista, che senz’altro preferirà le colline verdi e piacevoli dell’Italia centro-meridionale. Ma per un emiliano, uno vero, è una storia di sudore e di civilizzazione che, nella sua regione, tiene il posto delle bellezze naturali, esistenti però nascoste. Ciò che conferisce alla monotonia apparente dei campi di grano un fascino che solo lui può cogliere per intero.