Perchè scrivere romanzi storici, e quali


di Valerio Evangelisti

[Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Lo Straniero" n.169, luglio 2014. Lo abbiamo ripreso da Carmilla].


E’ tesi ormai accettata universalmente in campo storiografico, da March Bloch in poi, che lo storico parte sempre da temi che lo coinvolgono nel presente in cui vive. Ha infatti tra le mani una massa magmatica di fatti e di eventi. Per dipanarla deve stendere fili che leghino quelli significativi, e quei fili conducono tutti alla quotidianità dello studioso, ai dibattiti in cui è immerso, alle problematiche che lo circondano.
Questo può non valere per il cronachista, per il divulgatore, o per il semplice erudito intento ad accumulare notizie. E’ però una costante degli storici che hanno lasciato una traccia, a qualsiasi epoca appartenessero. Spesso, la loro biografia è essenziale per afferrare il senso dei loro scritti, da Tacito a Hobsbawm.
Quasi lo stesso discorso può essere fatto per il romanzo storico. C’è quello che si risolve in pura avventura, cogliendo nel passato episodi coloriti e sovraccaricandone le tinte. Le librerie straripano di opere di questo tipo (che definirei “dumasiano”), a quel che pare molto gradite al pubblico. Esiste poi il “romanzo storico d’occasione”. E’ il centenario di qualcosa e io partorisco un testo che la celebra, ci creda o meno. In sintonia oggettiva con le fanfare ufficiali, anche se io introduco qualche aspetto problematico. Accade anche nel cinema. Si paragonino i film risorgimentali dei Taviani, aspri, disturbanti, al recente “Noi credevamo”. C’è un abisso.
Ma esiste anche chi, nella storia, cerca i fili che la uniscono al presente che vive, ci riesca o meno. Un esempio è “L’armata dei sonnambuli” dei Wu Ming: riflessione su rivoluzione e controrivoluzione, di oggettiva attualità. O “Lo specchio di Cagliostro” di Vittorio Giacopini, che ha per tema vero l’ipocrisia del potere. Giacopini sembra parlare di eventi passati, e invece parla di noi e, in certa misura, di se stesso, di ciò che vede attorno e lo scandalizza. Del resto Umberto Eco, ne “Il nome della rosa”, trattava del 1977 e dintorni, anche se in seguito, normalizzatosi, ha negato.
Per quanto mi riguarda, cerco, più o meno felicemente, di scoprire le radici di una crisi della sinistra che trovo drammatica e fatale. Non so nemmeno se si possa definire “sinistra” l’attuale coacervo a sfondo liberista che si ostina a portare quel nome. Come è potuto succedere? Nel romanzo “One Big Union” avevo parlato del rimodellarsi, negli Stati Uniti, del movimento operaio a fronte di un precariato di proporzioni immense. Con “Il Sole dell’avvenire” affronto invece un problema simile in Italia, da fine Ottocento in avanti. Il contagio di un’idea umana, giusta, romantica tra poveracci schiacciati dallo sfruttamento. Una spinta ideale capaci di indurli a imprese ben superiori alle loro capacità. Fino a creare, col loro lavoro e il loro spirito solidale, addirittura l’embrione di una diversa civilizzazione.
Il volume successivo, a cui sto lavorando, sarà molto meno ottimista. Il sole dell’avvenire viene spento alla nascita, nel sangue e nella violenza, dopo essere stato appannato dalle contraddizioni delle forze politiche. Eppure risorgerà ancora, per l’azione di piccola gente chiamata a enormi sacrifici. Tutto sembra preannunciare una bella giornata, e invece eccoci qua, aggrovigliati nel cinismo, nella menzogna, nel più radicale deserto morale.
Come è potuto accadere? Non lo so. Scrivendo cerco di scoprirlo, e di indurre i lettori a condividere le mie riflessioni, presentate sotto le spoglie del racconto popolare.