Il "panificio pubblico", Gaetano Miti
Contemporaneamente alla costituzione dell'Ente Autonomo dei Consumi, l'amministrazione comunale prese la decisione di realizzare un impianto per la panificazione a prezzi popolari, così da costituire un vero e proprio pubblico servizio. Il pane quotidiano, scriveva Zanardi, "è fra uno dei prodotti che devono essere sottratti ad ogni speculazione; è necessario che questo alimento possa essere distribuito a tutti, sano, igienico e abbondante".
La costruzione di un forno comunale dunque fu uno dei primi progetti della nuova giunta socialista bolognese. Un Regio Decreto del 22 settembre 1914 aveva concesso ai comuni la possibilità di contrarre mutui per l'esecuzione di lavori dove fosse prevalente l'impiego di mano d'opera. La giunta, desiderando utilizzare appieno questa possibilità, domandò allora all'ufficio tecnico comunale di predisporre subito un elenco di lavori per l'importo di un milione di lire da far finanziare immediatamente, e fra questi troviamo anche "lavori murari e in terra per costruire un locale ad uso panificio comunale, capace di produrre 150 quintali di pane al giorno (esclusi i forni e il macchinario) per la somma preventivata di L. 77.000". La realizzazione di un panifico pubblico fu dibattuta nel consiglio comunale dell'8 ottobre successivo, e, dopo una animata discussione, venne approvato il progetto, che potremo definire solo di larga massima, anche perché la cifra stanziata era notevolmente insufficiente ed il dimensionamento produttivo superiore a quello che in realtà fu realizzato.
Iniziò così la storia del panificio comunale di Bologna: nell'ottobre del 1914 vennero avviati gli studi di fattibilità da parte dell'ufficio tecnico comunale per valutare i risultati di un nuovo tipo di forno che era stato nel frattempo messo in esercizio presso un panificio privato. Avendo poi questo forno felicemente superata la prova, venne individuata l'area sulla quale erigere il fabbricato e predisposto il relativo progetto. L'area scelta era una porzione di terreno, di circa 1.800 metri quadrati di superficie, situata nella zona di espansione edilizia interna alle mura prevista dal piano regolatore del 1889, al margine di quella zona che veniva chiamata "gli orti Garagnani", nella zona nord occidentale della città, nelle immediate adiacenze del Porto Navile. Il fronte nord dell'edificio venne così previsto allineato su quella che allora si chiamava ancora via dei Mille, oggi via Don Minzoni, mentre la facciata est correva lungo via Marghera, oggi via Fratelli Rosselli.
L'assessore Levi, nella seduta del 7 aprile 1915, presentò alla Giunta il progetto aggiornato dell'intervento, questa volta accompagnato da un preventivo sintetico di 90.000 lire per il fabbricato, in grado di ospitare 10 forni, e di 60.000 lire per i macchinari, per totali 150.000 lire. Con l'occasione l'ufficio tecnico chiedeva l'autorizzazione a trattare l'appalto con la Cooperativa Lavoranti Murari, alla quale affidare direttamente i lavori, autorizzazione che fu senz'altro concessa. Ma non era finita qui perché, forse proprio in base a tali trattative, la giunta, nella seduta del 19 maggio successivo, si vide presentare un nuovo preventivo, ancora aumentato, che prevedeva una spesa totale per lavori di 224.700 lire, oltre a 45.000 lire per l'acquisto dell'area.
Si arrivò quindi ad una nuova seduta di Giunta, il 28 luglio 1915, durante la quale fu esaminato e discusso il progetto generale ed il relativo preventivo, ancora una volta aggiornato, con il costo stimato, per i soli lavori, raggiungeva 265.000 lire (un bell'investimento per quell'epoca).
La Giunta comunale, assumendo i poteri del Consiglio, deliberò di realizzare il panificio e la delibera fu ratificata dal Consiglio comunale il 4 settembre 1915. In tale occasione il progetto incontrò il parere decisamente contrario dell'opposizione, che lo criticò aspramente prevedendone un clamoroso fallimento, interprete anche della ribellione dei fornai privati, che vedevano minacciati i propri interessi. Comunque la delibera passò senza problemi, ma con il solo voto della maggioranza socialista.
La lettura dei documenti d'epoca, che hanno consentito di ripercorrere quasi al completo le modalità della costruzione dell'edificio, ci ha fatto rendere conto quale opera veramente ragguardevole sia stata realizzare anche questa iniziativa in mezzo alle mille difficoltà createsi nel periodo bellico, con il continuo aumento dei prezzi, la requisizione di tutti i mezzi di trasporto operata dalle autorità militari, le sempre più scarse possibilità delle casse comunali, le difficoltà tecniche realizzative e l'ostilità dei ceti conservatori. Da questa complicata vicenda emerge chiaramente che solo una grande capacità organizzativa e altrettanto grande volontà politica, nella sicurezza di agire per il bene materiale di tutti i cittadini bolognesi, può aver sostenuto Zanardi ed i suoi collaboratori in questa infaticabile opera.
L'edificio, progettato dall'ingegnere Rienzo Bedetti, dell'Ufficio Tecnico del Comune di Bologna aveva le dimensioni lorde in pianta di 60,05 x 26,40 metri e presentava i caratteri peculiari dell'architettura industriale dell'epoca, caratterizzato sulle due facciate est e ovest da grandi vetrate decorative ed ingentilito da sobrie decorazioni in sommità e da ariose finestrature.
La struttura portante verticale venne realizzata in mattoni, lasciati a vista nella parte corrispondente al primo piano. Era invece decorata esternamente al piano terra, con elementi prefabbricati in conglomerato cementizio, realizzati su disegno del prof. Roberto Cacciari. I prospetti, pressochè identici fra di loro, erano mossi da una rientranza/sporgenza centrale (lati est ed ovest) ed evidenziata da belle decorazioni angolari fitoformi, che, unica concessione estetica alla severità delle facciate, raffigurano spighe di grano, in corrispondenza della copertura.
Il Panificio venne costruito utilizzando alcune soluzioni tecnologiche allora all'avanguardia.
Per impedire la risalita di umidità dalle pareti fu steso uno strato di asfalto sul piano della risega della fondazione, per evitare il deposito della polvere della farina e per rendere più agevoli le pulizie, all'interno non furono realizzate cornici o motivi decorativi e le tubazioni di acqua calda e fredda furono collocate in canali sottopavimento, coperti in lamiera striata. Per facilitare la pulizia i pavimenti erano in battuto "alla veneziana" ed infine ogni cura era prevista perché la polvere di carbone, il combustibile dei forni, non potesse venire a contatto con le farine. Erano anche previsti impianti ed attrezzature moderne ed efficienti a servizio dei fornai.
La copertura fu realizzata con capriate in ferro dette allora "all'inglese", a due falde, mascherate all'esterno da eleganti decorazioni a scalare sulla parte frontale dell'edificio. Le travature erano dodici, simmetriche, poste all'interasse di 4,45 metri, della luce centrale di 12,75 metri e di due luci laterali di 6,65 metri, travature ancora oggi esistenti e visibili. Il tetto, a tegole piane, poggiava su tavelloni in cotto, incastrati su correnti sagomati, a loro volta appoggiati su arcarecci metallici posti alla mutua distanza di 2,40 metri. La scelta sul sistema realizzativo dei solai del primo piano, con la necessità di portate piuttosto elevate dato il tipo di utilizzo previsto, si indirizzò verso quella che allora era ancora una tecnologia costruttiva d'avanguardia e per certi versi sperimentale: il conglomerato cementizio armato. A quei tempi erano infatti poche le imprese che sapevano realizzare tali opere, in buona parte coperte da brevetto, e progettate sulla base di codici di calcolo inglesi e americani.
L'organizzazione della produzione era basata per quei tempi su criteri della massima automazione e si basava principalmente su dieci moderni forni a vapore disposti in linea e disimpegnati anteriormente da un'ampia corsia di lavorazione. I forni erano suddivisi in tre gruppi, i due laterali composti da tre forni, quello centrale, composto da quattro forni; a ciascuno dei due gruppi laterali era associato un camino in muratura, dell'altezza di 20 metri. Posteriormente ai forni erano situate le camere di lievitazione, riscaldate per irraggiamento dalla parete dei forni stessi. L'ulteriore attrezzatura di lavorazione consisteva in cinque impastatrici-gramolatrici meccaniche e in due spezzatrici per la pasta da pane. Queste erano situate nella corsia di lavorazione dove i fornai, sugli appositi tavoloni, preparavano le forme di pasta per la cottura. Completava la dotazione dello stabilimento un battisacco ed una svariata quantità di diversi tipi di attrezzi e arredi per la panificazione, in gran parte di legno, che vennero tutti appositamente realizzati da esperti "artieri" bolognesi.
Ogni forno era così in grado di cuocere una quantità massima di 200 kilogrammi di pane all'ora, con una potenzialità complessiva oraria dello stabilimento di 2.000 kilogrammi e quindi una produzione teorica complessiva giornaliera, su dodici ore di funzionamento, di 24 tonnellate di pane, pari a quasi la metà dell'intero fabbisogno cittadino.
Il piano superiore, nel quale era prevista la collocazione del pastificio, con un impianto capace di una produzione giornaliera di 1.200 kilogrammi, era tutto un unico loggiato e la movimentazione verticale era assicurata da montacarichi elettrici. La farina veniva sollevata dal magazzino al pastificio e la pasta veniva calata dall'essiccatoio al locale di vendita.
L'edificio venne realizzato suddividendo l'intervento in tanti appalti diversi quante erano le opere specialistiche da eseguire, al fine di consentire un migliore e diretto controllo sulla qualità delle varie opere ed anche un maggiore risparmio sui costi di costruzione, evitando infatti così i ricarichi sui subappalti e sulle subforniture di una impresa generale di costruzioni, come sarebbe avvenuto nel caso di un appalto chiavi in mano per l'intera realizzazione dell'intervento. Alla costruzione dell'edificio lavorarono così circa trenta fra imprese e ditte fornitrici, e fra queste molte cooperative di produzione ed alcune fra le più rinomate ditte in campo nazionale. L'incarico di Direttore dei lavori venne affidato allo stesso progettista ingegner Bedetti, con l'assistenza in cantiere del signor Matteo Grimaldi.
A consuntivo la spesa complessiva per la realizzazione del Panificio Municipale risultò di più di 500.000 lire (quasi il doppio della spesa inizialmente preventivata), e di queste oltre 100.000 lire erano state spese per i macchinari e le attrezzature.
Il giorno 1 febbraio del 1917, il Panificio iniziò la produzione, anche se non con tutti i forni, solo con cinque, che però diventeranno i dieci previsti di li a poco. Vista l'importanza del complesso così realizzato, vennero invitati i cittadini, aderenti all'Ente Autonomo dei Consumi a visitarlo fino al giorno 10 febbraio. L'accesso era consentito solo dietro presentazione della tessera di socio. L'8 febbraio 1917 anche la redazione al completo dell'Avanti visitò l'impianto, dandone ampio resoconto sul giornale. Avvertiva con orgoglio il foglio socialista in tale articolo, che se i fornai privati avessero effettuato una serrata, il forno era in grado di provvedere quasi totalmente alle necessità di pane della città.
Il Comune affidò da subito il confezionamento del pane alla Lega Lavoranti Panettieri. Il personale addetto alla preparazione ed alla cottura del pane, posto sotto la sovrintendenza del signor Guastaroba Menotti, era costituito da 2 squadre composte da 50 fornai ciascuna, la prima operava dalle 4 del mattino alle 12, la seconda dalle 12 alle 21 di sera. Molto curata era anche l'igiene dei fornai: il regolamento interno prevedeva che appena entrati nello stabilimento dovevano portarsi nello spogliatoio per cambiarsi d'abito, indossando quello da lavoro, ed una volta alla settimana era obbligatorio un bagno per tutti nelle apposite docce.
Nel 1917, primo anno di attività, il forno, gestito direttamente dal Comune, sviluppò una produzione media giornaliera di 24.400 kilogrammi di pane, quasi la metà del fabbisogno cittadino, oltre a 10.000 kilogrammi di pane per l'esercito. Il controllo era espletato dall'Ufficio Municipale d'Igiene ed il pane prodotto fu anche sottoposto al giudizio dei professori Albertoni, Bellei e Silvagni che lo giudicarono eccellente, come ci riporta la rivista del Comune. Il primo esercizio venne chiuso con un utile di 6.759,26 lire che fu devoluto dal Comune in beneficenza.
Nell'edificio fu aperto anche il previsto pastificio, che però non riuscì mai a raggiungere produzioni elevate rispetto ai possibili 1.200 kg giornalieri di pasta fresca.
Per questa realizzazione arrivarono a Zanardi gli elogi personali del Re, in occasione della sua visita a Bologna del giugno 1918, nel corso della quale il Sovrano visitò pure il panificio comunale. La cronaca giornalistica dell'avvenimento ci racconta che il corteo d'auto del Re e del Sindaco giunse all'angolo fra via Marghera e via dei Mille, accolto da una folla festante; all'ingresso del panificio si trovavano gli assessori Scabia ed Alberti, gli ingegneri comunali Carpi e Bedetti ed i signori Rocchi, Bolognini e l'ispettore Montini, tutti presentati dal Sindaco al Sovrano. Seguì una visita allo stabilimento durante la quale Vittorio Emanuele III si soffermò a lungo nel salone centrale, dove erano in piena attività i dieci forni e le altre macchine per la confezione del pane, domandando chiarimenti sul processo produttivo, lusingando, con un trattamento quasi familiare, Sindaco e panettieri. Giunto davanti ad una catasta di pagnotte appena sfornate, che emanava un profumo invitante, il Re ne assaggiò una complimentandosi per la bontà del prodotto. Zanardi, molto diplomaticamente, al momento del commiato gli offrì un mazzo di fiori bianchi e rossi (i colori della città di Bologna), con palme verdi.
La gestione di un tale complesso mal si adattava, però, ai limiti ed alle regole amministrative che il Comune era tenuto a rispettare. Pertanto il Sindaco si rivolse ben presto al neonato Ente Autonomo dei Consumi per affidargli la gestione diretta del panificio comunale, gestione che ebbe inizio l'1 maggio 1917, e che fu sempre largamente positiva, sia in termini economici che di efficienza.
Per concludere non resta che accennare a cosa rimane oggi dell'edifico. Oggetto alla fine degli anni Venti di una profonda ristrutturazione ed ampliamento, per realizzare la sede produttivo-direzionale dell'Ente Autonomo dei Consumi, è stato di recente di nuovo ristrutturato e destinato a sede del MAMbo intervento che ha consentito di restaurare le parti ancora visibili: la facciata ovest, solo ridisegnata al piano terra ed invece originale al piano primo, le facciate nord e sud, per le porzioni del primo piano, ed infine la grande sala dei forni con i due camini, oggi sala espositiva al piano terra del museo.
Gaetano Miti