I vari provvedimenti che riguardano la scuola, avviati negli ultimi mesi da parte del governo, partono dalla premessa che sia necessario tagliare la spesa pubblica relativa a quel capitolo. Un’incessante ripetizione di questo presupposto sembrerebbe averlo reso quasi assiomatico per tutti. Nella Legge 133 del 6 agosto 2008, articolo 64, comma 6, si trova che “… devono derivare per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa, non inferiori a 650 milioni di euro per l’anno 2009, di 1.650 milioni per l’anno 2010, di 2.538 milioni di euro per l’anno 2011 e di 3.188 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012”. Di fronte a tagli di una tale entità, è doveroso chiedersi se il presupposto e i provvedimenti siano corroborati dai dati forniti dall’OCSE, dall’ISTAT, dal MPI e MIUR e dal Bilancio dello Stato. Vorrei esaminare alcuni di questi dati, relativi a tre aspetti della spesa complessiva, che sono frequentemente oggetto di affermazioni approssimative o inattendibili da parte di politici e commentatori.
Un presupposto infondato
In primo luogo occorre chiarire che la spesa pubblica sulla scuola è costituita per l’82% da spese sostenute dal Ministero competente e per il 18% da spese sostenute dalle Regioni e dagli Enti locali. Dal 1990 al 2007 la quota del PIL destinata alle spese sostenute dal MPI o dal MIUR ha infatti subito una notevole contrazione ed è passata addirittura dal 3,9% al 2,8%. Questa riduzione, di oltre un punto percentuale, è pari a 16,9 miliardi di euro. Il grosso della riduzione è stato effettuato nel periodo 1992-1996, quando la quota è scesa dal 3,9% al 3,0%. Negli ultimi 10 anni la riduzione è stata dello 0,2%, pari a 3,07 miliardi di euro. Allo stesso tempo, la spesa pubblica sostenuta dalle Regioni e dagli Enti locali è rimasta complessivamente stabile e ammonta allo 0,5% del PIL. Sommando le due quote, si vede che la spesa pubblica per la scuola nel 2007 equivale al 3,3% del PIL, mentre nel 1990 era del 4,4%. Forse nessun altro capitolo della spesa pubblica ha contribuito altrettanto al risanamento dei conti pubblici.
Se poi consideriamo che la quota media del PIL destinata alla scuola nei paesi dell’OCSE è del 5% e che alcuni dei paesi citati come esempi di eccellenza in base alle rilevazioni effettuate dallo stesso OCSE spendono ancora di più, sembra assolutamente fuori luogo ritenere che l’Italia spenda troppo. La spesa pubblica per la scuola è l’investimento più importante che una società intraprende per il proprio futuro. Sostenere che occorra ridurre ulteriormente una quota del PIL già molto bassa rasenta semplicemente l’irresponsabilità.
L’attuale composizione della spesa
Un altro dato sovente sbandierato, ma palesemente errato, è che il 97% della spesa pubblica per la scuola è destinata al pagamento degli stipendi del personale. Come già visto, il 18% della spesa complessiva (circa 9,5 miliardi) è di competenza delle Regioni e degli Enti locali. Tale quota riguarda l’edilizia scolastica, i servizi di trasporto e mensa, e numerose altre voci. L’82% di competenza ministeriale è relativo al personale e ai trasferimenti per il funzionamento delle istituzioni scolastiche autonome e l’ampliamento della loro offerta formativa. Dalla pubblicazione “La scuola in cifre” (MPI-MIUR 2007) risulta che nel 2006 la spesa del Ministero è stata pari a 42,4 miliardi. Di questi, 3,1 miliardi (il 7,3%) sono costituiti da trasferimenti alle scuole. La stessa pubblicazione dimostra che la spesa per il personale è mediamente inferiore al 90% della spesa complessiva del Ministero. Dunque la spesa per il personale costituisce il 73,8% (il 90% dell’82%) della spesa pubblica complessiva, una cifra molto diversa dal 97% citato da molti come dimostrazione di presunti squilibri interni alla spesa stessa. I dati OCSE dimostrano che in tutti i paesi membri la spesa per il personale varia dal 60% al 80%. Dunque l’Italia rientra perfettamente nella media.
Comparazioni improprie
Altrettanto sovente altri dati OCSE vengono citati per dimostrare che in Italia la spesa media per studente è del 10% superiore alla media OCSE. Anche in questo caso, però, un’analisi dei dati non supporta assolutamente la frettolosa conclusione che si spende troppo e che occorre ridurre un rapporto fra insegnanti e studenti ritenuto troppo alto. Diversi sono i fattori che influenzano questo rapporto. Per esempio, ormai molti anni fa l’Italia ha fatto la scelta di inserire gli studenti diversamente abili nelle classi normali. E’ stata una scelta di grande idealismo e civiltà che nessuno sembra voler mettere in discussione e che ha indubbiamente portato dei vantaggi sul piano culturale, sociale e anche economico. In molti altri paesi gli studenti diversamente abili sono collocati in scuole speciali che non vengono considerate parte del sistema scolastico e che, di conseguenza, non sono contabilizzate nella spesa pubblica sulla scuola e non fanno parte dei dati utilizzati nelle comparazioni internazionali. Evidentemente ciò non significa che non siano un costo all’interno della spesa pubblica complessiva. Semplicemente vengono imputati ad altre voci nel bilancio dello Stato. In ogni modo non è lecito confrontare dati disomogenei.
In Italia gli insegnanti di sostegno alle classi dove sono inseriti gli studenti diversamente abili sono circa 93.000 e costituiscono il 12,5% dei docenti. Gli studenti diversamente abili sono circa il 2% della popolazionePopolazioneL’insieme delle unità statistiche (persone, fenomeni, oggetti) oggetto dell’indagine, aventi una o più caratteristiche in comune. scolastica. Allo stesso tempo, le classi in cui sono inseriti hanno normalmente un numero di studenti inferiore a quello delle altre classi. Ciò comporta che circa 40.000 docenti in più (il 5,5%) sono necessari per permettere questa riduzione. Dunque si può stimare che il 18% dei 723.353 docenti a tempo indeterminato e determinato nell’anno scolastico 2007/2008 sia dovuto a una politica scolastica di integrazione da sempre considerata all’avanguardia. Se togliamo questa frazione - circa 130000 insegnanti - dal totale, il rapporto fra insegnanti e studenti cambia radicalmente, ma una diversa politica scolastica, o una diversa collocazione delle figure professionali in altri capitoli di spesa, non gioverebbe né ai conti pubblici (con ogni probabilità costerebbe di più) né alla qualità dell’intervento e al beneficio globale che ne deriva per la società.
Un discorso analogo varrebbe per gli insegnanti di Religione, inesistenti in molti altri paesi o imputati ad altri bilanci. In Italia sono 23.000, il 3,2% del totale, oppure per altro personale addetto al funzionamento della scuola (mensa, attività sportive, assistenza allo studio, orientamento, ecc.) che in Italia fa parte del personale docente ma che in molti altri paesi appartiene ad altre amministrazioni e sono a carico di altre voci del bilancio.
In conclusione, occorre affermare che, se si parte da premesse infondate e si procede per ragionamenti basati su dati inesatti, si fa solo confusione. Non entro nei motivi della confusione, anche se ognuno dovrebbe chiedersi come mai ci sia così tanta cattiva informazione in giro nel momento in cui si stanno prendendo decisioni di vitale importanza per la scuola e la società. Allo stesso tempo occorre che tutti si rendano conto che la confusione non permette di prendere decisioni per il bene del paese. Rischia solo di dare l’impressione di economie che sono in realtà false o addirittura propagare un’idea di economia che è fasulla e dannosa.
Inserito il 29 ottobre 2008 da Martin Dodman