Il pdl dell’Emilia Romagna sul sistema regionale integrato dell’istruzione, formazione e transizione al lavoro

Sono state presentate ufficialmente (vedi sito della Regione) le "Idee guida per il progetto di legge regionale in materia d’istruzione, formazione e transizione al lavoro" ormai in gestazione da mesi. Già in aprile era pronta una bozza di articolato di 34 pagine. E’ seguita una prima traccia per la discussione, una seconda stesura e ora questo documento per la discussione.

L’obiettivo del pdl è ambizioso: la Regione intende "stoppare" la riforma Moratti, utilizzando le nuove competenze assegnate alle regioni dalla riforma costituzionale del titolo V approvata con il referendum confermativo dello scorso ottobre.

La Regione intende perseguire la "continuità dei percorsi formativi" ed "evitare il rischio di creare due canali" separati, che propongono il modello di due sistemi della formazione: quello dell’istruzione, riservato ai ceti più abbienti, e quello della formazione professionale destinato ai figli dei lavoratori subordinati.

La gravità di tale modello finalizzato a introdurre nella scuola italiana la divisione di classe nel campo scolastico è reso ancora più grave dal progetto di anticipare la scelta fra i due canali a partire dai 13 anni.

La prima considerazione da fare riguarda proprio lo strumento utilizzato per raggiungere l’obiettivo.

E’ positivo che la Regione intenda impedire che la riforma Moratti, prevedendo una netta separatezza fra il sistema nazionale dell’istruzione liceale e quello regionale dell’istruzione e formazione professionale, dia un colpo decisivo alla funzione della Scuola della Repubblica quale strumento di coesione sociale e di garanzia per tutti i cittadini di un’offerta educativa eguale per tutti.

Ciò che è discutibile è lo strumento usato: la Regione non solleva il problema dell’incostituzionalità della legge nazionale, non esercita il suo potere contrattuale nella conferenza stato-regioni, non esprime un atto di indirizzo, ma ripropone l’idea della legge apripista unilaterale, che ha causato nel 1999 pesanti danni a tutta la sinistra ( vedi la devastante sconfitta bolognese).

Emanare una propria legge "utilizzando al massimo le nuove competenze regionali" in un momento in cui non c’è alcuna chiarezza sulle modalità di applicazione delle nuove norme costituzionali è una fuga in avanti, che sul breve periodo potrebbe portare consenso alla Giunta regionale, ma nei tempi lunghi rischia di favorire la rincorsa delle Regioni verso la "devolution" bossiana.

Se infatti ogni Regione emanerà una propria legge, senza attendere e sollecitare la definizione del quadro di riferimento nazionale (vedi la definizione dei livelli delle prestazioni essenziali e le norme generali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale dai commi m) e n) del nuovo art. 117), verrà sancita nei fatti la disgregazione localistica del sistema scolastico nazionale definito dall’art. 33 della Costituzione.

E’ necessario precisare che la riforma costituzionale del titolo V non può mettere in discussione i principi fondamentali degli articoli 3 e 33.

La funzione istituzionale della scuola statale come garanzia di un uguale diritto di cittadinanza per tutti (art. 3) rimane ferma; l’obbligo costituzionale della Repubblica di istituire "scuole statali per tutti gli ordini e gradi" rimane fermo; anche il carattere nazionale dei contenuti culturali resta centrale (art. 33).

L’esplosione delle leggi delle diverse Regioni rischia di travolgere proprio il principale strumento di difesa che hanno i cittadini per opporsi alla deriva del governo di destra: la Costituzione.

La Regione non si cura di attendete che il Parlamento definisca"i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale", in base al comma m) del nuovo art. 117. Afferma addirittura che, se ci saranno interventi, modificherà la legge.

Per questi motivi le enunciazioni di principio, che accompagnano la proposta di legge, non possono essere determinanti al fine del giudizio sulla stessa.

Alcune di queste, come l’intenzione di "trasferire alle scuole ogni competenza propria sulla didattica e sui piani di studio", che fossero eventualmente assegnate alle Regioni, fanno riferimento al futuro e non hanno direttamente a che fare con il progetto di legge.

E’ allora necessario analizzare attentamente i capisaldi del progetto di legge per quello che esso è: il primo progetto di legge di una regione sul sistema scolastico, dopo la riforma costituzionale del titolo V.

Allo scopo si possono fare le seguenti osservazioni:

  1. La visione delle finalità della scuola che si evince dal progetto.

La Regione, proseguendo la linea già portata avanti dalla Legge "Rivola" del 1999 intende la scuola come formazione al lavoro, più che luogo istituzionale di formazione del cittadino.

Con ciò non oppone al modello del centrodestra una visione strategicamente diversa della funzione della scuola, ma modalità organizzative integrate, che tendono certamente a limitare la separazione fra i sistemi dell’istruzione e della formazione, ma che non ribaltano una visione opportunistica della scuola per le classi meno abbienti.

L’insistenza sulla necessità che l’offerta scolastica debba rispondere alle richieste delle famiglie e del sistema economico è chiarissima, così come è estremamente rivelatrice della cultura aziendale di questa Giunta l’affermazione che "istruzione e formazione professionale devono avere pari dignità".

Se il centro destra si prefigge l’obiettivo di far uscire dal percorso scolastico l’ultimo anno delle superiori, prevedendo la possibilità di adempiere all’obbligo all’interno della formazione professionale, la Regione prevede che "l’offerta integrata di istruzione e formazione professionale" "deve essere prevalentemente rivolta ai ragazzi che non intendono proseguire il percorso formativo dell’istruzione".

La Regione si preoccupa molto della possibile decadenza del sistema della formazione tecnica e professionale nella nostra regione a favore dei licei.

E’ necessario allora evidenziare che l’Italia è uno dei paesi con la più forte presenza di scuole tecniche e professionali (gli alunni che frequentano tali istituti sono il 60% del totale, mentre in tutta Europa la percentuale è sotto il 50%).

In Emilia Romagna la percentuale sale al 65%.

In tutti gli anni passati la percentuale di nuovi iscritti agli Istituti professionali è andata aumentando del 4-5% all’anno; solo quest’anno si è invertita la tendenza per cui gli iscritti alle prime classi dei professionali sono calati del 1,1% (i tecnici però +1,6%), a fronte di una aumento degli alunni di prima classe dei licei classici del 12,3% e degli scientifici del 9,8% (dati nazionali MIUR).

I dati disponibili a livello regionale dimostrano un aumento del numero totale degli iscritti ai professionali (+ 0,4%) a fonte di un calo di iscritti ai licei scientifici (-0,5%) e una situazione complessivamente stabile.

Ogni azione legislativa dovrebbe partire da una seria analisi dell’esistente.

Il sistema scolastico nazionale ha una missione fondamentale: quella di operare per far superare alle nuove generazioni nel campo dell’istruzione le differenze di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona e la sua partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale del paese. (art. 3 della Costituzione)

Si può verificare che questo sia il principale obiettivo del sistema da tre fenomeni:

  1. il numero crescente di diplomati (ormai il 70% di chi inizia le scuole medie, con livelli vicini a quelli degli altri paesi, con una forbice che si è enormemente ristretta rispetto a 50 anni fa e con risultati particolarmente significativi per le giovani);
  2. le variazioni nei risultati degli studenti 15enni nei tests prodotti dall’OCSE nel progetto PISA 2000 sono al di sotto della media dei paesi OCSE: 94,3, contro i 127 del Belgio, i 125 della Germania, i 118,7 degli stati Uniti;
  3. gli studenti italiani raggiungono risultati sotto la media OCSE, ma, dividendo gli studenti i base al reddito famigliare, dimostrano discreti risultati per i redditi bassi e scarsi per i redditi alti.

Il sistema mostra quindi difficoltà opposte a quelle evidenziate dalla Regione.

Anzi appare chiaro dalla ricerca il fallimento del sistema tedesco, che viene preso spesso come un riferimento. Tale sistema produce livelli di apprendimento medi simili a quelli italiani, ma con differenze molto più marcate.

2) Il ruolo dell’autonomia scolastica, attaccata dal neo centralismo morattiano. La proposta regionale non tende ad opporsi alla messa in discussione della "libertà di insegnamento" in modo strategico, ma l’introduce poteri di "governo dell’offerta scolastica" che tendono a far nascere un nuovo centralismo regionale.

L’articolato di legge(art. 12) prevede un organismo "Comitato di coordinamento interistituzionale" composto in maggioranza da rappresentanti degli Enti locali e da alcuni rappresentanti delle istituzioni scolastiche di nomina dell’amministrazione (come ?), che formuli pareri sugli indirizzi regionali e che si dovrebbe raccordare con l’organo collegiale regionale previsto dal D. lvo 300/2000. Non riconosce pertanto alcun ruolo autonomo agli organi collegiali di autogoverno del sistema scolastico. Indicativo in tal senso è l’atteggiamento pervicace di non riconoscimento della funzione ancora in capo ai Consigli scolastici provinciali, mai consultati neppure sulle precedenti leggi (vedi anche il recente episodio della delibera sul calendario scolastico, che disconosce l’autonomia delle Istituzioni scolastiche nell’azione di adattamento del calendario ).

La stessa previsione di inserimento di corsi di istruzione e formazione professionale all’interno di tutte le scuole statali va nella stessa direzione.

La Regione non propone un modello di piena autonomia scolastica, nel quale le funzioni di governo, di progettazione, di innovazione siano di competenza del sistema.

Le attività di ricerca e proposta educativa delle scuole devono essere centrali nel processo, non sottoposte all’indirizzo degli enti locali. Solo così si potrà creare una rete istituzionale fra scuola e territorio, in caso contrario saranno gli interessi e i poteri forti del territorio ad imporre modelli organizzativi e contenuti culturali alle scuole.

La Regione intende trasferire alle scuole ogni competenza propria in materia di curricolare e didattica.

Chiede però per sé (e non per le scuole) un "fondo regionale" finalizzato al "miglioramento delle attività caratterizzanti l’istruzione, quali l’innovazione, progetti di qualificazione dell’offerta, progetti di rete…..".

La Regione definisce da sé le priorità, non le costruisce attraverso il confronto con le Istituzioni scolastiche: attraverso l’erogazione di fondi intende indirizzare l’attività delle scuole verso obiettivi definiti dall’esterno, sia sul piano didattico che gestionale.

Esemplifica bene il concetto la affermata "priorità per la diffusione di modelli organizzativi e gestionali per gli istituti comprensivi, che la Regione intende generalizzare su tutto il territorio".

L’altro nodo irrisolto riguarda le competenze reali assunte dalle Regioni. La Regione Emilia Romagna afferma correttamente che le norme riguardanti i cicli, l’età d’accesso ai cicli, i curricola, ecc…sono definite dalla legislazione nazionale.

Intende però intervenire direttamente sugli ordinamenti nel momento in cui prevede la possibilità che "in ogni scuola superiore sarà possibile frequentare o il corso di studi tradizionale o quello più professionalizzante". Pertanto o si prevede l’introduzione in ogni scuola di un canale professionale regionale o si intende obbligare le scuole statali ad introdurlo.

3) La Regione ripropone come punto di riferimento di tutta la sua azione il sistema integrato pubblico-privato: sono soggetti del sistema di istruzione tutti quelli riconosciuti come paritari dalla L. 62/2000, quindi anche le scuole private.

L’attuale offensiva della Chiesa cattolica sui crocefissi in aula dimostra che la legge 62 ha avuto l’effetto di rafforzare il fronte di chi vuole mettere in discussione la funzione istituzionale della Scuola della Repubblica per rilanciare l’idea della scuola di tendenza non solo in quanto parte essenziale del sistema, ma addirittura come modello per il sistema (vedi la concezione dell’autonomia come sviluppo di un progetto educativo autonomo da parte delle singole scuole).

La Regione si pone il problema della generalizzazione della scuola dell’infanzia attraverso la riproposizione del ruolo centrale delle scuole private; non una parola è spesa per la carenza di posti nelle scuole pubbliche, per le crescenti liste d’attesa.

Le poche considerazioni su un momento cruciale per la formazione del bambino sono rivolte al finanziamento dei progetti realizzati dai soggetti gestori (privati) per raggiungere standard organizzativi adeguati.

La confermata idea, espressa con chiarezza dalla delibera regionale del 18 giugno 2002, che stanzia 6 miliardi per finanziare "il contesto educativo delle scuole materne private" è una scandalosa presa in giro ai 60.000 cittadini che avevano richiesto un referendum perché fossero tutti gli elettori a decidere se la regione dovesse sostenere o meno finanziariamente le scuole private.

Tale delibera ha già indotto decine di Comuni a rinnovare le convenzioni con le scuole private come se nulla fosse successo. Gli oltre 70 miliardi all’anno (65 milioni per classe) di fondi pubblici che giungono da anni alle sole scuole materne private della nostra regione gridano scandalo di fronte ai tagli inferti alle scuole pubbliche dall’ultima finanziaria.

Perché la Regione non impegna questi soldi per indirizzare i Comuni all’espansione dell’offerta pubblica nell’infanzia ?

All’interno di questo nodo agisce il tema della sussidiarietà orizzontale, che la regione ripropone. Ciò significherebbe davvero lo smantellamento del sistema scolastico nazionale statale, cui la Costituzione affida il compito fornire a tutti un livello di istruzione capace di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano di fatto l’uguaglianza e la libertà dei cittadini" (art. 3 Costituzione).

4) Si inserisce nella questione la riproposizione del sistema integrato fra istruzione (statale) e formazione professionale (privata), senza prevedere alcun filtro nel rapporto fra istituzioni che hanno finalità completamente diverse (istruzione statale pubblica e formazione professionale privata).

Non è ben chiaro nel progetto il legame fra l’istruzione professionale regionale, che verrebbe istituita dalla legge, e l’istruzione professionale statale.

Appare evidente che il modello regionale è diverso da quello statale: composto da un primo anno di completamento dell’obbligo all’interno delle scuole statali, caratterizzato da un’offerta integrata di istruzione e formazione professionale.

Questo anno dovrebbe essere gestito sia dallo Stato che dalla Regione per la parte professionale ? Come si concilia questo con l’autonomia delle Istituzioni scolastiche ?

E se lo Stato non ci sta ? La confusione è alta.

Il secondo anno prevede un aumento dei contenuti professionalizzanti e si collega al primo in un percorso biennale.

Non si capisce però come ciò sia possibile alla luce dell’affermazione che "Al termine del primo anno, assolto l’obbligo scolastico, lo studente adempie all’obbligo formativo fino ai 18 anni iscrivendosi all’istruzione professionale (regionale o statale ?) o passando alla formazione professionale (solo regionale)"

Cosa poi succederà nelle altre regioni non è cosa che sembra riguardare l’Emilia Romagna.

Resta delicata la funzione dell’istruzione professionale statale, che rischia o di vedere stravolto il suo ordinamento o di essere affiancata da un canale regionale.

In realtà la Regione non propone alcun modello innovativo per quanto riguarda il tema della formazione per il lavoro.

Invece di porre la questione del saper fare come problema culturale di un sistema nel suo complesso fortemente caratterizzato verso la teoria delle discipline e sicuramente carente sul piano delle applicazioni, si propone il vecchio modello della formazione professionale per gli studenti che non intendono proseguire gli studi, che, per quanto integrata, formalizza un canale separato da quello dell’istruzione per gli altri.

Per finire desta forti preoccupazioni la parte riguardante la certificazione delle competenze, sia per la riproposizione di un’azione unilaterale regionale, sia per l’introduzione fra le competenze certificate di "attestati di frequenza in esito a percorsi dell’educazione non formale ed i crediti formativi comunque acquisiti".

Questa "deregulation" nel campo del riconoscimento formale delle competenze rischia di favorire la campagna del centro destra per l’annullamento del valore legale del titolo di studio, iniziata con gli interventi sull’esame di stato.

Bruno Moretto