ECC.MA CORTE COSTITUZIONALE
Udienza 10 luglio 2001
(Reg. Ord. n. 491/2000)


Memoria
del Comitato Bolognese Scuola e Costituzione e altri, con gli Avv. Massimo Luciani, Corrado Mauceri, Federico Sorrentino e Maria Virgilio,
nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale
promosso con Ord. TAR Emilia-Romagna - Bologna, Sez. II, 20 dicembre 1999 - 21 aprile 2000, n. 1/2000.

FATTO
1.- La questione in epigrafe è sorta nel corso di un giudizio introdotto da un ricorso del Comitato Bolognese Scuola e Costituzione ed altri, avverso una deliberazione del Consiglio comunale di Bologna, che aveva approvato i criteri per l'assegnazione dei contributi ai Comuni per l'anno 1995, al fine dell'attivazione di convenzioni per la qualificazione e il sostegno di scuole private per l'infanzia. Detta deliberazione era stata adottata in attuazione della l. reg. 24 aprile 1995 n. 52, la cui legittimità costituzionale è ora sottoposta al giudizio di codesta Ecc.ma Corte costituzionale. La legge, modificando la l. reg. 25 gennaio 1983 n. 6 (recante l'intitolazione "Diritto allo studio") ha:
a) modificato (con l'art. 1, comma 1) l'intitolazione della l. reg. n. 6 del 1983, che ora recita "Diritto allo studio e qualificazione del sistema integrato pubblico-privato delle scuole dell'infanzia";
b) inserito (con l'art. 2, comma 1) all'art.1, comma 2, dopo il punto 2), un punto 2 bis), a tenor del quale gli interventi previsti dalla legge sono volti, ora, anche a favorire "il perseguimento dell'obiettivo di realizzare un sistema integrato delle scuole dell'infanzia basato sul progressivo coordinamento e sulla collaborazione fra le diverse offerte educative, in una logica di qualificazione delle stesse che sappia valorizzare competenze, risorse e soggetti pubblici e privati";
c) aggiunto (con l'art. 3, comma 1) all'art. 2, comma 1, lett. B), un quinto alinea, a tenor del quale, ora, gli interventi nell'ambito della scuola sono volti a favorire la qualificazione del sistema scolastico anche a mezzo di un "sostegno finanziario a Comuni che attivino convenzioni finalizzate alla qualificazione ed al sostegno delle scuole dell'infanzia gestite da enti, associazioni, fondazioni, cooperative, senza fini di lucro";
d) aggiunto (con l'art. 4, comma 1) all'art. 10, comma 1, la lettera e bis), a tenor della quale, ora, per conseguire le finalità del programma per il diritto allo studio è istituito anche un "fondo per la promozione delle convenzioni fra Comuni e scuole dell'infanzia private";
e) aggiunto (con l'art. 5, comma 1) all'art. 10 un penultimo comma, a tenor del quale "il fondo di cui alla lettera e bis) è ripartito fra i Comuni che abbiano stipulato convenzioni con scuole dell'infanzia private nelle quali siano previsti oneri a carico dei Comuni per contributi di spesa corrente e di investimento";
f) aggiunto (con l'art. 5, comma 2), all'art. 23, comma 1, un ulteriore alinea dopo il quinto, a tenor del quale, ora, nello stato di previsione della spesa del bilancio regionale viene inserito anche il capitolo di spesa "Fondo regionale di cui all'art. 10, lettera e bis");
g) aggiunto (con l'art. 6, comma 1), dopo l'art. 21, un articolo 21 bis, a tenor del quale "Per monitorare le modalità di applicazione della presente legge da parte dei Comuni dell'intero territorio regionale e per seguire l'evoluzione del processo di realizzazione di un sistema integrato pubblico-privato della scuola dell'infanzia, presso la Regione è istituito un Osservatorio permanente composto da rappresentanti della Regione, degli Enti locali, delle associazioni delle famiglie e degli organismi collegiali di gestione, nonché dai rappresentanti delle associazioni dei gestori delle scuole dell'infanzia non statali".
2.- I ricorrenti nel giudizio principale censuravano la riferita deliberazione (nonché gli atti presupposti, connessi e consequenziali) contestandone la legittimità con varî motivi di ricorso, eccependo in subordine l'illegittimità costituzionale della legge regionale in epigrafe, in forza della quale la deliberazione impugnata era stata adottata. Con sent. 1° aprile 1997 n. 191, il TAR per l'Emilia-Romagna - Bologna - in parte accoglieva ed in parte dichiarava inammissibile il ricorso, mentre con ordinanza in data 17 ottobre 1996, rubricata al n. 574 R.O., pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, 1^ Serie spec., n. 38 del 17 settembre 1997 sollevava questione incidentale di legittimità costituzionale.
3.- Con ordinanza 12 marzo 1998, n. 67, codesta Ecc.ma Corte costituzionale dichiarava la manifesta inammissibilità della menzionata questione, con motivazioni che più distesamente si riferiranno appresso.
4.- Con l'ordinanza in epigrafe il TAR per l'Emilia-Romagna ha nuovamente sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale della l. reg. Emilia-Romagna 24 aprile 1995, n. 52, per violazione degli artt. 33 e 117 Cost.
DIRITTO
La questione in epigrafe appare sicuramente rilevante e fondata.
1.- E' necessario muovere, logicamente, dall'esame della rilevanza.
1.1.- Si deve ricordare, anzitutto, che, con ordinanza in data 17 ottobre 1996, una questione analoga era stata sollevata dallo stesso giudice e nel corso del medesimo procedimento. Codesta Ecc.ma Corte costituzionale, con ord. n. 67 del 1998, aveva pronunciato la manifesta inammissibilità della questione. Ora, il giudice remittente prospetta di nuovo il medesimo dubbio di costituzionalità, ma ponendo rimedio al vizio che aveva originato la surriferita declaratoria di manifesta inammissibilità.
L'esatta premessa dalla quale il giudice a quo prende le mosse è che l'ord. n. 67 del 1998 non precluda la riproposizione della questione di legittimità costituzionale della l. reg. n. 52 del 1995. In effetti, tale pronuncia si era limitata a constatare che il TAR per l'Emilia-Romagna, in una con l'ordinanza di rimessione, aveva pronunciato una sentenza di accoglimento parziale di uno dei ricorsi introduttivi del giudizio principale (sent. n. 191 del 1997) e che, nell'atto introduttivo del giudizio costituzionale, non aveva dato conto del mancato esaurimento del suo potere decisorio, in particolare in riferimento al fatto che le questioni di costituzionalità avrebbero potuto residuare come unico oggetto del giudizio principale, e che esse erano state prospettate (dai ricorrenti in quel giudizio) "in logica subordinazione all'ipotesi che l'impugnata delibera fosse ritenuta conforme a legge". Tale essendo il contenuto della pronuncia di manifesta inammissibilità, si può ben dire che essa quasi sollecitasse un ulteriore atto di rimessione da parte del TAR, nel quale si sarebbe dovuto "dar conto" della perdurante rilevanza della quaestio.
Erra, pertanto, nel proprio atto di costituzione (recte: di intervento, sulla cui ammissibilità dovrà codesta Ecc.ma Corte pronunciarsi) la FISM, nell'affermare che dopo una pronuncia di inammissibilità la questione di costituzionalità non potrebbe essere sollevata dallo stesso giudice e nel corso dello stesso giudizio. E' noto, infatti, che pronunce di tal genere esplicano simili effetti quando fanno valere una vera e propria (astratta) preclusione al passaggio allo scrutinio del merito (si pensi al caso dell'inammissibilità per carenza di forza di legge dell'atto censurato), non già quando - come è accaduto nella specie - fanno valere un mero vizio (per giunta della motivazione) dell'atto introduttivo (cfr. da ultimo, sent. n. 189 del 2001).
Invero, è noto che, dopo qualche iniziale incertezza, la giurisprudenza costituzionale ammette ormai da tempo, in numerosi casi, la riproposizione della stessa questione di legittimità costituzionale, già dichiarata inammissibile, anche da parte dello stesso giudice, nel corso dello stesso giudizio e nello stesso grado di esso. Come aveva osservato, in sede di conferenza-stampa di fine anno l'allora Presidente della Corte La Pergola, la riproposizione è ammessa "quando il titolo dell'inammissibilità dichiarato dalla Corte lo consente" (A. LA PERGOLA, La giustizia costituzionale nel 1986, in Foro it. 1987, col. 156). Ciò significa che solo qualora la declaratoria di inammissibilità "abbia natura decisoria" (così, testualmente, sent. n. 451 del 1989) la questione non può essere riproposta, mentre in tutti gli altri casi la riproposizione è perfettamente ammissibile.
Si deve dunque distinguere fra le declaratorie di inammissibilità "fondate su un vizio rimediabile da parte del giudice a quo (pronunce con carattere non decisorio), le quali non creerebbero preclusione, e quelle invece fondate su vizi insanabili da parte dello stesso giudice, che invece impedirebbero ad esso di sollevare nuovamente la stessa questione (pronunce con carattere decisorio)" (così R. ROMBOLI, Decisioni di inammissibilità o fondate su errore di fatto e limiti alla riproposizione da parte del giudice a quo della stessa questione nel corso del medesimo giudizio, in AA. VV., Giudizio "a quo" e promovimento del processo costituzionale, Milano, Giuffrè, pp. 173 sg.).
Orbene: è pacifico che fra le rationes di inammissibilità "sanabili" da parte del giudice a quo, e quindi fra quelle che possono (e anzi, debbono) essere rimosse in sede di riproposizione della questione già dichiarata inammissibile sia ricompreso il difetto di motivazione dell'ordinanza di rimessione in punto di rilevanza (così, fra i molti, R. ROMBOLI, Op. loc.cit.; ID., Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in AA. VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1993-1995), Torino, Giappichelli, 1996, p. 150; A. RUGGERI - A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, Giappichelli, p. 187). Nella specie, codesta Ecc.ma Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione sollevata con l'ord. n. 574/1997 proprio in ragione del difetto di motivazione della rilevanza. E' bene ribadire: come si legge al penultimo Considerato dell'ord. n. 67 del 1998, infatti, il giudice costituzionale lamenta che il giudice a quo non abbia ritenuto di "dar conto" dell'effettiva titolarità di un potere decisorio in materia, e ciò "ai fini della motivazione della rilevanza". Ed è sempre e solo il difetto di motivazione della rilevanza, che anche altrove si censura (si vedano il secondo Ritenuto e il quinto e il settimo Considerato).
Tanto l'incontrovertibile premessa maggiore (le questioni dichiarate inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza possono essere riproposte) che l'evidente premessa minore (l'ord. n. 67 del 1998 ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità della qui censurata legge dell'Emilia-Romagna solo in ragione del difetto di motivazione sulla rilevanza) conducono all'univoca e stringente conclusione del sillogismo nel senso che la questione di che trattasi può tranquillamente essere risollevata.
Non basta. La riferita questione doveva essere risollevata, in quanto la pronuncia della Corte, di natura meramente processuale e non di merito, non aveva modificato in nulla il dubbio sulla legittimità costituzionale della legge regionale. E' stato pertanto doveroso che il giudice, nutrendo ancora il dubbio di costituzionalità, abbia sospeso il giudizio e rimesso gli atti alla Corte costituzionale, ai sensi dell'art. 23 della l. n. 87 del 1953.
Consapevole di questo, il remittente spiega ora chiaramente, con congrua motivazione, che la propria sent. n. 191 del 1997 ha accolto solo uno dei motivi di ricorso, residuando, come thema decidendum, quello identificato dagli altri motivi, che lamentano l'illegittimità degli atti amministrativi impugnati in ragione dell'incostituzionalità della legge che li consente. Correttamente, pertanto, l'odierna ordinanza di rimessione afferma che la precedente sentenza di accoglimento parziale "ha definito soltanto una parte secondaria (e sostanzialmente marginale) dell'oggetto del contendere". Sicché solo una pronuncia di merito della Corte costituzionale consentirebbe al giudice del processo principale di rendere giustizia alle parti dello stesso (v. la parte conclusiva dell'ordinanza, spec. p. 23).
Il giudice remittente, infine, ricorda di aver già motivato, nella sent. n. 191 del 1997, in ordine a ciò che la FISM era controinteressata solo rispetto a talune censure e non a tutte, e che per questo i ricorsi introduttivi del giudizio principale erano stati dichiarati inammissibili solo pro parte. Tali motivazioni vengono espressamente ripetute dalla nuova ordinanza di rimessione, che ha cura di precisare, anche, che la correttezza o meno di quella statuizione può essere verificata solo dal giudice amministrativo di appello (e un appello della Regione Emilia-Romagna è, infatti, pendente innanzi il Consiglio di Stato).
L'obbligo di motivazione del quale codesta Ecc.ma Corte, con l'ord. n. 67 del 1998, aveva lamentato l'inosservanza, pertanto, appare, ora, pienamente rispettato. Né le argomentazioni del remittente si prestano a censure, e comunque non si prestano a censure rilevabili dal giudice delle leggi, poiché questi, per costante giurisprudenza, deve limitarsi ad un controllo "esterno" sulla motivazione del giudice a quo in tema di rilevanza.
Quasi inutile osservare, poi, conclusivamente sul punto, che non avrebbe alcun rilievo, in questa sede, prospettare una contraddizione tra la sentenza di accoglimento parziale e l'ordinanza di rimessione. Per la verità, tale contraddizione pare adombrata dall'ord. n. 67 del 1998, ove si osserva che l'accoglimento della questione "finirebbe col rendere inutiliter data la sentenza [che il TAR] ha già come sopra pronunciato in riconoscimento di un interesse legittimo fatto valere dai ricorrenti".
Anche nell'ipotesi in cui tale contraddizione, effettivamente, sussistesse, si deve infatti rilevare che essa non avrebbe la minima influenza sul giudizio costituzionale. Ciò che conta in tale giudizio, infatti, è solo la rilevanza della questione, e questa non è minimamente compromessa dal fatto che il giudice amministrativo abbia reso una sentenza nella quale ha fatto applicazione di una legge della quale, poi, ha contestato la generale legittimità. La rilevanza si misura, infatti, in ragione della necessità di applicare nel processo principale la normativa censurata, e non c'è il minimo dubbio che, nella specie, gli atti amministrativi impugnati riposino sulla legge della cui legittimità si dubita. L'auspicata declaratoria di incostituzionalità, pertanto, travolgerebbe la legge, e con essa quegli atti.
Né ha senso, qui, interrogarsi sulla sorte che, a seguito di tale declaratoria di incostituzionalità, toccherebbe alla sent. n. 191 del 1997, nei confronti della quale pende appello innanzi il Consiglio di Stato. Il fatto ch'essa abbia applicato una legge poi dichiarata incostituzionale, infatti, potrà - se lo potrà - aver rilievo sul terreno del giudizio amministrativo di appello, non mai su quello del giudizio costituzionale.
Quel che conta, infatti, è che il potere decisorio in capo al giudice amministrativo non si era esaurito con l'emissione della sent. n. 191 del 1997, e che la rilevanza della questione si era mantenuta anche dopo tale pronuncia. Si deve considerare che qui ci troviamo di fronte ad un caso del tutto particolare. E' ben vero, infatti, che vi sono casi in cui codesta Ecc.ma Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili questioni di costituzionalità sollevate dal giudice amministrativo dopo che questi aveva, con sentenza parziale, già applicato la norma della quale contestava la legittimità costituzionale. In questi casi si è osservato che il giudice aveva già definito la controversia, sicché l'eventuale accoglimento della questione di costituzionalità non avrebbe potuto influire sul giudizio principale.
Se, però, esaminiamo attentamente le ipotesi in cui questo si è verificato, ci accorgiamo che l'inammissibilità è stata pronunciata quando il giudice, con la sentenza parziale, aveva "definito quello che era l'unico oggetto del giudizio" (così, testualmente, sent. n. 315 del 1992; analogamente, ord. n. 264 del 1998). In casi di questo genere, è evidente, il requisito della rilevanza è carente, in quanto il giudice del processo principale si è già pronunciato sull'intera controversia, e quindi non ha nulla - diciamo così - da "chiedere" al giudice costituzionale. Inevitabile, dunque, la declaratoria di inammissibilità.
Ben diversa la situazione nel caso che ne occupa. A parte il fatto che, nelle pronunce prima riferite (e anche nelle altre che hanno simile contenuto: cfr. sentt. nn. 242 del 1990 e 166 del 1992), codesta Ecc.ma Corte aveva avuto a che fare con ordinanze emesse dopo decisioni di rigetto - e non di accoglimento - dei ricorsi introduttivi dei giudizi principali, vi è, qui, un chiaro elemento di differenziazione. E' infatti evidente che il TAR, con la sent. n. 191 del 1997, non si è pronunciato sull'intero thema decidendum, e anzi ha espressamente deciso nel merito solo su uno dei motivi di ricorso. Le altre censure sono state dichiarate inammissibili, ovvero sono state, per così dire, "messe tra parentesi" in attesa della pronuncia della Corte costituzionale, dalla quale dipendeva e dipende, per tale aspetto, la sorte del giudizio principale. Conseguentemente, il Giudice amministrativo non aveva e non ha esaurito il proprio potere decisorio con l'adozione della sent. n. 191 del 1997, e quindi ben poteva e doveva, come ha fatto, sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale in riferimento alle norme di legge che doveva e deve applicare in ordine ai residui temi del decidere. Piena titolarità, dunque, del potere decisorio.
Se così non fosse, del resto (e qui si dimostra anche l'importanza del fatto che in questo caso la sentenza parziale sia di accoglimento e non di rigetto), avremmo il paradosso che il giudice amministrativo, di fronte ad un provvedimento violativo in tutti i suoi profili e nella sua intierezza della Costituzione e allo stesso tempo, per un profilo determinato e in una sua parte, di una legge costituzionalmente illegittima, sarebbe costretto ad astenersi dal folgorarlo almeno in parte, in attesa della pronuncia del giudice costituzionale sulla legittimità della legge. Quel provvedimento, invece, è illegittimo sia in toto che in parte, e almeno in parte illegittimo resta, quale che sia la sorte della legge che ha violato. Delle due, infatti, l'una: o la legge è dichiarata incostituzionale, e allora il provvedimento è illegittimo in toto (e quindi anche nella parte dichiarata viziata) in quanto viene privato del suo fondamento legislativo; oppure la legge viene "assolta" dalla Corte costituzionale, e allora il provvedimento resta illegittimo almeno nella parte già folgorata.
In realtà, il caso in cui il giudice amministrativo applica una norma d'una legge sospetta di incostituzionalità allo scopo di pronunciarsi su alcuni dei motivi di un ricorso e allo stesso tempo solleva questione di legittimità costituzionale di altra norma è frequentissimo. Qui, la particolarità sta nel fatto che la legge oggetto della questione di costituzionalità è stata censurata nel suo complesso, e quindi comprendendo anche la norma applicata. La cosa, però, era inevitabile, in ragione del nesso che - come vedremo sub 1.3. - lega tutte le disposizioni della legge censurata.
Se queste non fossero state le conclusioni da raggiungere, del resto, codesta Ecc.ma Corte costituzionale avrebbe risolto direttamente il problema, chiarendo che la riproposizione della questione restava preclusa dalla declaratoria di inammissibilità. Tutt'al contrario, però (e basta leggere gli altri precedenti sopra ricordati per rilevare la radicale differenza), nell'ord. n. 67 del 1998 è solo il difetto di motivazione, che è stato rilevato. La pronuncia, anzi, ha addirittura indicato al giudice del processo principale i punti che erano rimasti più oscuri, quasi a volerlo implicitamente invitare a risollevare la questione, correggendo le carenze rilevate.
1.2.- La FISM, nel suo intervento, pretende una declaratoria di inammissibilità per irrilevanza, in quanto il TAR avrebbe "illogicamente" negato la qualificazione di controinteressata alla stessa FISM, limitatamente a certi motivi di ricorso. Tale pretesa è destituita d'ogni fondamento.
Come già ricordato, il remittente, ora, precisa con assoluta accuratezza l'itinerario argomentativo seguito, e, in particolare, chiarisce che la FISM non è stata ritenuta controinteressata rispetto a tutto l'ambito definito dagli atti introduttivi del giudizio principale, in quanto essi coinvolgevano anche "determinazioni a contenuto generale, non direttamente riferibili ad un soggetto preciso" (p. 24 dell'ordinanza). L'esattezza di tale statuizione è evidente, poiché nel processo amministrativo sono controinteressati solo "coloro che da un lato siano portatori di un interesse qualificato alla conservazione del provvedimento impugnato, di natura eguale e contraria a quello del ricorrente (c.d. elemento sostanziale), e dall'altro siano nominativamente indicati nel provvedimento stesso o comunque siano agevolmente individuabili in base ad esso (elemento formale)" (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 1° dicembre 1999, n. 2032, in Cons. Stato, 1999, I, 2085). Nella specie, come il TAR ha esaustivamente chiarito, la generalità di alcune delle determinazioni censurate ha reso non isolabile e separatamente qualificabile l'interesse della FISM, con la conseguenza che essa non possedeva la qualità di controinteressato nelle controversie concernenti dette determinazioni.
In ogni caso, la FISM può dolersi del presunto errore commesso dal giudice amministrativo di primo grado in sedi diverse da questa, nella quale il sindacato sulla rilevanza non può essere piegato in riesame della pronuncia del giudice remittente, in sostituzione dei gravami offerti dalle norme sul processo amministrativo.
1.3.- Sempre la FISM prospetta l'irrilevanza della questione in quanto essa sarebbe astratta ed ipotetica, attenendo alla legge regionale nel suo complesso, e quindi anche a norme della stessa che non potrebbero trovare applicazione nel giudizio principale.
A tal proposito, basti, qui, il richiamo all'ord. n. 67 del 1998, nella quale codesta Ecc.ma Corte costituzionale ha affermato espressamente che "il remittente ha denunciato la legge regionale n. 52 del 1995 nel suo complesso sottolineando, con condivisibile giudizio, lo <<stretto legame intercorrente tra le norme della stessa>>", sicché "la censura d'incostituzionalità presenta carattere unitario, per cui non è consentita la scissione di essa attraverso il frazionamento dei possibili diversi profili applicativi". Il carattere unitario della legge censurata, pertanto, è stato già affermato, sicché la pretesa della FISM si risolve, a ben vedere, nella richiesta, alla Corte eccellentissima, di smentirsi.
1.4.- Sempre la FISM, infine, prospetta un ultimo, ipotetico difetto di rilevanza, connesso all'abrogazione delle ll. regg. nn. 6 del 1983 e 52 del 1995 da parte della l. reg. n. 10 del 1999. In conseguenza di tale abrogazione, si richiede la restituzione degli atti al giudice a quo. Tale prospettazione è errata, se non addirittura incomprensibile.
Come ricordato sopra, in sede di descrizione dei fatti di causa, i provvedimenti censurati innanzi al giudice a quo riguardano l'applicazione della l. reg. n. 52 del 1995 ai finanziamenti richiesti per l'anno 1995. Il thema decidendum nel giudizio principale, pertanto, è temporalmente identificato e definito con precisione.
Alla fattispecie dedotta nel giudizio a quo, invero, si applica, senza possibilità alcuna di equivoco, la legge qui censurata, del tutto ininfluenti restando le successive vicende normative, ed in particolare la l. reg. n. 69 del 1999. Per soprammercato, l'art. 17, comma 1, della stessa l. reg. n. 69 del 1999 dispone, con assoluta chiarezza, che "Ai procedimenti di erogazione dei benefici di natura finanziaria in corso alla data di entrata in vigore della presente legge e fino all'approvazione del programma annuale di cui all'art. 9, comma 2, continuano ad applicarsi le disposizioni delle norme regionali abrogate dall'art. 16". A fortiori, pertanto, la disciplina di cui alla l. n. 52 del 1995 si applica alle fattispecie già definite, sicché - come anticipato - non si comprende quale sia il fondamento dell'eccezione opposta dalla FISM.
2.- Nel merito, le censure di illegittimità prospettate nell'ordinanza di rimessione, e le stesse argomentazioni da questa sviluppate, appaiono pienamente fondate.
2.1.- Seguendo l'ordine dell'ordinanza di rimessione, la legge in epigrafe risulta, anzitutto, chiaramente violativa dell'art. 117 della Costituzione.
2.1.1.- La Costituzione non conferisce alla Regione alcuna competenza in materia di istruzione in generale. In effetti, fra le materie di competenza regionale di cui all'art. 117 Cost. sono ricomprese la "istruzione artigiana e professionale" e la "assistenza scolastica". La materia "istruzione" in generale, invece, non è menzionata.
La stessa normativa primaria conferma (né potrebbe essere diversamente) il disegno costituzionale. In particolare, il d. lgs. n. 616 del 1977, vigente al momento dell'entrata in vigore della l. reg. n. 52 del 1995, non consente che si faccia confusione fra istruzione e assistenza scolastica, di tal che il "distinguo" fra le due materie è tutt'altro che "difficile", come opina la FISM a p. 18 dell'atto di intervento: il massimo che si può dire è che, tutt'al più, l'assistenza scolastica è "materia accessoria a quella dell'istruzione" (così S. MASTROPASQUA, Cultura e scuola nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1980, 177). Ai sensi dell'art. 42, comma 1, infatti, le funzioni amministrative in materia scolastica riguardano solo "i servizi e le attività destinate a facilitare... l'assolvimento dell'obbligo scolastico", nonché la prosecuzione degli studi per gli "studenti capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi". Il comma 2 del medesimo art. 42, poi, esemplifica le funzioni in materia con un elenco ("gli interventi di assistenza medico-psichica; l'assistenza minorati psico-fisici; l'erogazione gratuita dei libri di testo agli alunni delle scuole elementari") nel quale non v'è alcuna traccia di interventi in materia di "istruzione" in senso proprio (tanto è vero che il successivo art. 43 si premura di chiarire l'ambito delle competenze regionali in riferimento ai libri di testo, confermando la riserva allo Stato della scelta e del contenuto pedagogico degli stessi).
Quanto alla normativa successiva al d. lgs. n. 616 del 1977, non si registrano, per il profilo che qui interessa, mutamenti significativi. Invero, l'art. 1, comma 3, della l. 3 marzo 1997, n. 59, dispone che "Sono esclusi dall'applicazione dei commi 1 e 2 le funzioni e i compiti riconducibili alle seguenti materie: ... q) istruzione universitaria, ordinamenti scolastici, programmi scolastici, organizzazione generale dell'istruzione scolastica e stato giuridico del personale". Il d. lgs. 31 marzo 1998, n. 112, conferisce alle Regioni solo la "programmazione e gestione amministrativa del servizio scolastico" (art. 135), e dispone che "Agli effetti del presente decreto legislativo, per programmazione e gestione amministrativa del servizio scolastico si intende l'insieme delle funzioni e dei compiti volti a consentire la concreta e continua erogazione del servizio di istruzione". In concreto, "Ai sensi dell'articolo 118, comma secondo, della Costituzione, sono delegate alle regioni le seguenti funzioni amministrative:... e) i contributi alle scuole non statali".
Ora, che la competenza da ultimo menzionata (ammesso e non concesso che lo stesso Stato possa legittimamente esserne titolare) sia meramente delegata non è dubbio (v. anche i successivi commi 2 e 3), e la stessa Avvocatura dello Stato, che qui è intervenuta a "sostegno" della legge censurata, lo ha chiaramente riconosciuto nel ricorso n. 54/2000 R. Confl. Ebbene, poiché l'art. 2, comma 1, della l. n. 59 del 1997 stabilisce espressamente che "La disciplina legislativa delle funzioni e dei compiti conferiti alle regioni ai sensi della presente legge spetta alle regioni quando è riconducibile alle materie di cui all'articolo 117, primo comma, della Costituzione. Nelle restanti materie spetta alle regioni il potere di emanare norme attuative ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, della Costituzione", ne risulta che i conferimenti conseguenti alle c.d. leggi Bassanini non hanno spostato di una virgola la situazione preesistente, poiché hanno mantenuto (e come avrebbero potuto non farlo?) il vincolo all'elenco di cui all'art. 117 Cost., chiarendo che quanto eccede quell'elenco può spettare, alle Regioni, solo per delega, e con l'attribuzione di una potestà legislativa di mera attuazione.
2.1.2.- Ora, appare chiaro che il legislatore regionale ha inteso, in violazione del dettato costituzionale, disciplinare proprio la materia istruzione, fuoriuscendo appunto - come bene osserva il remittente - dai limiti ad esso assegnati, ed in particolare andando ben al di là della semplice "assistenza scolastica". Già la modificazione del titolo originario della l. reg. n. 6 del 1983 è rivelatrice. Mentre, come riferito in narrativa, tale legge si intitolava semplicemente "Diritto allo studio", il nuovo titolo è "Diritto allo studio e qualificazione del sistema integrato pubblico-privato delle scuole dell'infanzia". Come risulta da tale formulazione letterale, il legislatore regionale ha inteso andare ben oltre il campo (che, solo, avrebbe potuto legittimamente percorrere) della garanzia del diritto allo studio, invadendo quello della disciplina generale dell'istruzione. Tanto, oltretutto, con ambizioni di altissimo profilo, visto che l'obiettivo è - nientemeno! - la realizzazione di un "sistema integrato delle scuole dell'infanzia basato sul progressivo coordinamento e sulla collaborazione fra le diverse offerte educative", e che il legislatore regionale mira alla "qualificazione" di tali offerte, per "valorizzare competenze, risorse e soggetti pubblici e privati" (art. 1, comma 2, punto 2 bis, della l. reg. n. 6 del 1983, nel testo introdotto dalla l. reg. n. 52 del 1995). Le stesse ambizioni, si noti, che caratterizzano la l. reg. n. 10 del 1999, che peraltro - come già precisato - non si applica alla presente fattispecie.
Che le ambizioni del legislatore regionale fossero inaccettabilmente vaste si evince, del resto, proprio dalla vicenda oggetto del giudizio principale. Illuminanti sono le Premesse della proposta della Giunta regionale recepita dall'atto impugnato nel giudizio principale, nonché il Protocollo d'intesa con la FISM e la risoluzione n. 5172/5362, adottata dal Consiglio regionale in data 6 ottobre 1994. In quest'ultima, in particolare, il Consiglio regionale valuta "indifferibile un riordino strutturale e culturale che, ragionando in termini di <<sistema>>, abbia come obiettivi l'aumento dell'efficacia formativa e della scolarità come risorsa individuale e sociale", e impegna la Giunta a adottare interventi di qualificazione dell'intero sistema delle scuole dell'infanzia", etc. Cosa tutto questo abbia a che vedere con la materia "assistenza scolastica" non è dato comprendere (e sembrano, sul punto, troppo affrettate le conclusioni raggiunte da un commentatore, per altri aspetti, assai attento: cfr. F. RIMOLI, Scuole private e pubblici finanziamenti: la Corte prende tempo, in Giur. cost., 1998, 706).
L'intero impianto della legge n. 52 del 1995, dunque, risulta essere radicalmente illegittimo, poiché tutti gli interventi ivi previsti sono funzionalizzati al raggiungimento di tali obiettivi. E' perciò questo un caso in cui il dubbio di legittimità costituzionale deve riguardare l'intero testo legislativo, come, del resto, codesta Ecc.ma Corte - si è già visto - ha rilevato nell'ord. n. 67 del 1998. Tale ipotesi, come è noto, secondo la costante giurisprudenza ricorre tutte le volte in cui il legame fra parti e parti di una legge sia tanto stretto che esse risultino inautonome le une rispetto alle altre. E, in questa fattispecie, la chiara illegittimità costituzionale almeno degli artt. 1, 2 e 6 travolge comunque l'intera legge.
Ma torniamo alla illegittimità costituzionale della legge in epigrafe. Già nelle sentt. nn. 7 del 1967, 106 del 1968 e specialmente 36 del 1982, invero, codesta Ecc.ma Corte ha sottolineato che la materia "assistenza scolastica" è "distinta", ancorché collegata, rispetto alla materia "istruzione". Il collegamento, evidentemente, sta in ciò che l'assistenza è volta a rendere effettivo il diritto allo studio, che a sua volta è elemento essenziale del sistema dell'istruzione. La distinzione, invece, sta in ciò che un conto è occuparsi delle condizioni materiali per il godimento dell'istruzione, e cosa del tutto diversa è disciplinare direttamente l'istruzione, sotto il profilo dell'organizzazione, della struttura e dei programmi del servizio.
2.1.2.1.- L'intera problematica è assai chiara anche per la dottrina. Si è, infatti, osservato che la nozione di assistenza scolastica trova direttamente nella Costituzione "una sua più che sufficiente delimitazione", a tenor della quale le funzioni attinenti alla materia possono scindersi in due gruppi: funzioni di "assistenza sociale", in riferimento alla garanzia della gratuità e dell'obbligatorietà dell'istruzione inferiore (art. 34, comma 2, Cost.); funzioni di "assistenza pubblica" in riferimento all'apprestamento di mezzi in favore dei capaci e meritevoli (art. 34, comma 3, Cost.), perché essi possano raggiungere i gradi più alti degli studi (così, per tutti, S. MANGIAMELI, Le materie di competenza regionale, Milano, 1992, 100 sg.). L'assistenza scolastica, dunque, si intreccia con il diritto allo studio (B. CARAVITA, Artt. 33 e 34, in Commentario breve alla Costituzione, a cura di V. Crisafulli e L. Paladin, Padova, 1990, 235) e deve essere funzionalizzata alla rimozione degli ostacoli che si frappongono al suo effettivo godimento (V. ATRIPALDI, Diritto allo studio, Napoli, 1975, 261), ma in nessun modo e per nessuna ragione può e deve essere confusa con l'istruzione nel senso proprio di tale termine.
Del resto, se l'istruzione è caratterizzata dal coordinamento sistematico fra una pluralità di insegnamenti (così U. POTOTSCHNIG, Insegnamento, istruzione, scuola, in Giur. cost., 1961, 405), la diversità fra l'assistenza e l'istruzione si fa chiarissima: l'istruzione consiste nel coordinato agire dei singoli insegnamenti, l'assistenza è la funzione che si limita a far sì che quell'agire possa, in concreto, favorire tutti i discenti, a prescindere dalle loro condizioni economiche o sociali. Nulla, però, più di questo. L'assistenza scolastica è nella Costituzione, ed era già nella riforma Gentile, in primo luogo assistenza ai bisognosi (il punto è incontroverso: v. ad es. F. FENUCCI, L'assistenza scolastica nelle leggi delle regioni ad autonomia ordinaria, Napoli, 1976, 34). La formulazione dell'art. 34 Cost. è, sul punto, dirimente, atteso che l'intervento pubblico è ivi concepito a sostegno dei capaci e meritevoli che siano privi di mezzi, laddove "la sola premiazione del merito contrasterebbe… con il principio, enunciato nell'art. 3 della Costituzione, secondo cui è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana" (F. FENUCCI, Op. cit., 70).
Per convincersi ancor più chiaramente di questo è sufficiente, comunque, ricordare che la distinzione fra la materia "istruzione" e quella "assistenza scolastica" è scolpita, a livello delle fonti costituzionali, sia direttamente dalla Costituzione che dagli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale. Quanto alla Costituzione, essa distingue letteralmente fra assistenza ed istruzione laddove contrappone, nello stesso periodo dell'art. 117, comma 1, l'istruzione, artigiana e professionale, all'assistenza, per ciò solo dimostrando che le due materie sono ben distinte e che nel campo dell'istruzione in senso proprio le Regioni possono intervenire solo limitatamente al sottosettore dell'istruzione artigiana e professionale. Quanto agli Statuti, è banale osservare che, quando si è voluto conferire alla Regione una più ampia competenza in materia di istruzione, lo si è disposto a chiare lettere (cfr. artt. 14, lett. r, e 17 St. Sic.; 5 St. Sar.; 3, lett. g, St. V.d'A.; 11, n. 2, e 12 nn. 2 e 3 St. T.A.A.; 6, n. 1, St. F.-V.G.). Lo stesso Statuto della Regione Emilia-Romagna, d'altro canto, àncora le competenze regionali nel settore scolastico al diritto allo studio (art. 3, comma 3, lett. l), in conformità all'art. 117 Cost. (il che significa, per soprammercato, che la legge in epigrafe è in radicale contrasto con lo stesso Statuto regionale).
2.1.2.2.- Non varrebbe opporre che la legge regionale, disponendo finanziamenti a favore delle scuole materne private, non si occuperebbe di scuole vere e proprie, sicché non interverrebbe nella materia dell'istruzione. Questa singolare tesi (sostenuta dall'interveniente FISM) è destituita di fondamento. Che il servizio prestato dalla scuola materna sia vera e propria istruzione, invero, è (al contrario di quanto sorprendentemente afferma la FISM) principio consolidato nel nostro diritto positivo da decenni (né ne dubita la dottrina, che ha sempre parlato di insegnamento e di istruzione in riferimento alle scuole materne: cfr., ex plurimis, P. SACCO, L'organizzazione amministrativa della pubblica istruzione, Milano, 1986, 61 sgg.; N. DANIELE, Istituzioni di diritto scolastico, Milano, 1976, 72 sg.; G. COIRO - F. MAUTINO, La pubblica istruzione in Italia, Milano, 1974, 138 sg.). Già l'art. 26, comma 1, del R.D. 5 febbraio 1928 n. 577 (recante "Approvazione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche, emanate in virtù dell'art. 1, n. 3, della legge 31 gennaio 1926, n. 100, sulla istruzione elementare, post-elementare, e sulle opere di integrazione") precisava che "L'istruzione elementare si distingue in tre gradi: preparatorio, inferiore e superiore". Il successivo art. 28 disciplinava analiticamente il contenuto dell'istruzione (così la lettera della disposizione) impartita nei tre anni del grado preparatorio. L'art. 37 precisava che l'istruzione elementare del grado preparatorio doveva essere impartita nella scuola materna. Gli interi parr. 2 e 3 del Capo I del Titolo II del Testo Unico, infine, chiarivano che sulle scuole materne si esercitavano i poteri di indirizzo, di controllo e di vigilanza del Ministro della pubblica istruzione e del Regio provveditore agli studi. Istruzione, dunque, senza alcuna possibilità di ragionevole dubbio.
La legislazione dell'Italia repubblicana, certo non sorprendentemente, non ha mutato indirizzo, ed anzi ha ulteriormente valorizzato - sulla scia dei più moderni indirizzi pedagogici - il significato dell'istruzione impartita nella scuola materna.
Così, la l. 24 luglio 1962, n. 1073, ha ricompreso, tra le "istituzioni scolastiche" cui riconoscere alcune provvidenze, le scuole materne (v. la rubrica del Titolo II).
La l. 18 marzo 1968, n. 444 (recante "Ordinamento della scuola materna statale"), ha (pur precisando che essa opera ad integrazione dell'opera della famiglia) chiarito i "fini di educazione" della scuola materna (art. 1, comma 2), confidando al Ministro per la pubblica istruzione (che, come osserva l'ordinanza di rimessione, con d. min. 3 giugno 1991, ha rettamente interpretato la legge, rilevando che essa aveva qualificato la scuola materna come "primo grado del sistema scolastico") il potere di proporre i relativi "orientamenti" (art. 2), distinguendo fra vere e proprie "insegnanti" (gravate della "responsabilità educativa") e semplici "assistenti" (tenute a svolgere meri compiti di vigilanza e assistenza) (artt. 14 e 15), e istituendo apposite "direzioni didattiche" (art. 19).
Per suo canto, la l. 9 agosto 1978, n. 463, ha fatto venir meno la distinzione fra insegnanti ed assistenti (art. 7), epperò - anche qui significativamente - sopprimendo la figura dell'assistente e non già quella dell'insegnante, e disponendo l'inquadramento delle assistenti nel ruolo delle insegnanti solo a condizione del possesso di apposito titolo di abilitazione (di tal che ha ulteriormente chiarito che ai bambini delle scuole materne si impartisce vera e propria istruzione e non si dà solo mera assistenza).
La l. 20 maggio 1982, n. 270, ha espressamente qualificato come "docente" il personale impiegato nelle scuole materne (art. 1).
La l. 16 febbraio 1987, n. 46, disponendo la statizzazione delle sezioni di scuola materna gestite dall'Opera nazionale Montessori, ha precisato che quella svolta con il metodo Montessori è attività di insegnamento (art. 1, comma 4), e che tale attività è svolta da vero e proprio personale docente (art. 1, comma 5).
L'art. 1, comma 2, l. 5 giugno 1990, n. 148 (v. ora art. 119, comma 1, del d. lgs. 16 aprile 1994, n. 297), chiarisce la continuità del percorso dell'educazione e dell'istruzione: "La scuola elementare, anche mediante forme di raccordo pedagogico, curricolare ed organizzativo con la scuola materna e con la scuola media, contribuisce a realizzare la continuità del processo educativo".
Il cit. d. lgs. n. 297 del 1994 (recante "Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado"), chiarisce absque titulo la natura (di istruzione) del servizio assicurato dalle scuole materne; qualifica come "docente" il personale educativo che vi opera (art. 5, comma 1; 104 comma 2, etc.); prevede l'adozione di appositi orientamenti (art. 105, comma 1) e piani (art. 106) delle attività educative; garantisce la libertà didattica del docente (art. 105, comma 2)
La l. 6 marzo 1996, n. 151, recante ratifica ed esecuzione della convenzione sulle scuole europee, ancora, ha espressamente definito come "insegnamento" ed "istruzione" il servizio prestato nelle scuole materne (art. 3).
La recente riforma dei cicli scolastici (l. 10 febbraio 2000, n. 30) ha chiarito che "Il sistema educativo di istruzione si articola nella scuola dell'infanzia, nel ciclo primario... e nel ciclo secondario..." (art. 1, comma 2); che "La scuola dell'infanzia concorre alla educazione e allo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale dei bambini e delle bambine... promuovendone le potenzialità di autonomia, creatività, apprendimento..." (art. 2, comma 1); "La scuola dell'infanzia, nella sua autonomia e unitarietà didattica e pedagogica, realizza i necessari collegamenti da un lato con il complesso dei servizi dell'infanzia, dall'altro con la scuola di base" (art. 2, comma 3); che la scuola di base "è caratterizzata da un percorso educativo" che "si raccorda da un lato alla scuola dell'infanzia e dall'altro alla scuola secondaria" (art. 3, comma 1). La scuola materna (dell'infanzia), pertanto, fa pienamente parte del sistema educativo di istruzione; deve promuovere le capacità di apprendimento dei bambini; si distingue dai generali "servizi dell'infanzia"; fa parte di un percorso educativo unitario, che giunge sino all'istruzione secondaria.
Infine, ai sensi della l. 10 marzo 2000, n. 62, recante "Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione", sono "scuole paritarie" le "istituzioni scolastiche non statali, comprese quelle degli enti locali, che, a partire dalla scuola per l'infanzia, corrispondono agli ordinamenti generali dell'istruzione, sono coerenti con la domanda formativa delle famiglie e sono caratterizzate da requisiti di qualità ed efficacia di cui ai commi 4, 5 e 6" (art. 1, comma 2).
Né vale obiettare, come fa la FISM nel suo intervento (p. 20), che la scuola materna (dell'infanzia) non farebbe parte del sistema dell'istruzione in quanto non si prevede l'obbligo di iscrizione. A parte il fatto che tale obiezione condurrebbe a porre fuori del sistema dell'istruzione gli ultimi quattro anni (tre, dopo la riforma dei cicli) dell'insegnamento secondario, basta dire, a tal proposito, che un'attività di istruzione non comincia ad essere tale perché è obbligatorio seguirla, né cessa di esserlo se l'obbligatorietà viene meno. La stessa Costituzione, all'art. 34, comma 2, chiarisce questo punto. Vi si dispone, infatti, che "L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita". Per "istruzione inferiore", invero, non si intendeva certo il primo grado dell'istruzione, ma l'istruzione elementare e postelementare. L'on. Preti, in effetti, propose, alla seduta del 29 aprile 1947, un emendamento che intendeva risolvere semplicemente "una questione di carattere tecnico". A suo avviso, infatti, sarebbe stato opportuno dire, anziché "insegnamento inferiore", "insegnamento elementare e postelementare". Nella successiva seduta del 30 aprile, però, il Presidente della Prima Sottocommissione, Tupini, si pronunciò contro l'emendamento, osservando che "Per quanto si riferisce all'insegnamento elementare e post-elementare... è ovvio che, se sono otto gli anni in cui esso si distribuisce, i primi cinque anni siano elementari ed i tre successivi post-elementari". Ciò che si voleva dire, insomma, era soltanto che l'istruzione elementare e parte di quella post-elementare erano obbligatorie, non certo che erano "istruzione" in quanto...obbligatorie! Conseguentemente, prima della scuola elementare può ben esservi istruzione, anche se la Costituzione non impone che sia obbligatoria.
Il nostro diritto positivo, in realtà, non fa che recepire e tradurre la consapevolezza dell'importanza della scuola materna come servizio di istruzione, diffusa ormai da decenni (cfr., fra i molti, L. BORGHI, Riforme e spese, in AA.VV., Dibattito sulla scuola, Bari, 1956, 186 sgg.). Non è davvero dato comprendere da quale vetusto indirizzo pedagogico possa mai trarsi il convincimento che il servizio prestato nelle scuole materne non sarebbe servizio di (vera e propria) istruzione.
In definitiva, come è stato esattamente affermato, le "diverse esigenze didattiche ed organizzative" che distinguono la scuola materna da quella elementare "non possono far perdere di vista la unificante caratterizzazione della comune valenza educatrice dei due tipi di scuola che si pongono in un continuum formativo ed istituzionale" (L. CALCERANO - G. MARTINEZ Y CABRERA, Scuola (ordini e gradi), in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, 885). Continuum, questo, che ora è espressamente disegnato dal legislatore, sia nella l. n. 148 del 1990, sia nella l. n. 30 del 2000. Istruzione, in altri termini, nella scuola elementare (o di base). Istruzione nella scuola materna. Assenza, conseguentemente, di qualunque competenza legislativa delle Regioni a statuto ordinario (se non per ciò che concerne l'ambito della mera assistenza, nella specie ampiamente e clamorosamente oltrepassato).
Quel che più conta, comunque, è che ogni possibile dubbio sulla natura della scuola materna è stato dissolto proprio da codesta Ecc.ma Corte costituzionale, con una sua importante pronuncia. Si legge, infatti, nella recente ord. 30 marzo 2001, n. 89, che tra scuola materna e scuola elementare vi è pur sempre una diversità, ancorché meno marcata che per il passato, ma che si tratta della "diversità dell'insegnamento impartito in questi due gradi scolastici". Anche nella scuola materna, pertanto, si "impartisce" un "insegnamento", e la scuola materna è uno dei "gradi scolastici". Nulla, dunque, di più chiaro.
2.1.3.- A tale rigorosa conclusione la FISM, nel suo atto di intervento, tenta di sfuggire affermando che la gestione delle scuole materne, in quanto sovente apprestata da IPAB, sarebbe "connessa con le finalità tipicamente assistenziali" di tali soggetti (cfr. p. 22). L'inconsistenza di tale opinione, a fronte della logica e del diritto positivo, però, non ha più bisogno - dopo quanto riportato - di ulteriore dimostrazione. Del resto, la stessa interveniente si contraddice, mentre riconduce la legislazione sulle scuole materne all'assistenza scolastica (punti 8.7. e 8.8. dell'intervento), ma allo stesso tempo afferma che i limiti alle attività di finanziamento agli scolari, imposti dall'art. 42 del d.P.R. n. 616 del 1977, non si applicano ai sussidi erogati agli alunni delle scuole materne, poiché quei limiti riguarderebbero la sola scuola dell'obbligo (p. 23). Con il che, però, non si capisce più dove mai le scuole materne si collochino: nell'ambito dell'assistenza scolastica; in quello della beneficienza; ovvero in un singolare rechtsleerer Raum, libero e disponibile per le incursioni dei più disparati poteri?
Non può, infine, aver rilievo il fatto che le Regioni abbiano competenza in materia di IPAB, e che alcune di tali IPAB gestiscano asili infantili o scuole materne. Come dimostra proprio la sent. n. 363 del 1990 (richiamata dall'interveniente: cfr. p. 22), in questi casi ci troviamo di fronte ad istituzioni che affondano le proprie radici in un lontanissimo passato (anteriore allo stesso t.u. n. 577 del 1928), nel quale la funzione educativa e di istruzione delle scuole materne non si era ancora affermata e compresa, e l'ottica era quella caritatevole della beneficenza in favore dei "poveri". Né si può lamentare, come fa la FISM, che negando la competenza regionale sulle scuole materne si avrebbe una disparità, in quanto alcune verrebbero comunque attratte nell'orbita della Regione in quanto gestite da IPAB. E' palese, infatti, che non vi è la minima disparità, in quanto la competenza regionale riguarda comunque le sole IPAB, non certo le scuole da esse gestite.
3.- La legge in epigrafe è poi violativa dell'art. 33 della Costituzione. L'art. 33, comma 3, della Costituzione, dispone che "Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato". Il dettato costituzionale non si presta ad equivoci. Come ha osservato la più autorevole dottrina costituzionalistica, l'art. 33, comma 3, Cost., esclude "nei termini più larghi" che l'esercizio della (pur indiscutibile) libertà di istituire e gestire scuole private possa gravare sul bilancio dello Stato (così V. CRISAFULLI, La scuola nella Costituzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1956, 86; analogamente C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, 9^ ed., t. II, Padova, 1976, 1184; P. BARILE, Istituzioni di diritto pubblico, 6^ ed., Padova, 1991, 672; A. MURA, Scuola cultura e ricerca scientifica, in Manuale di diritto pubblico, a cura di G. Amato e A. Barbera, 5^ ed., Bologna, 1997, 234). Come è stato acutamente rilevato (in particolare da C. MORTATI, Op. loc. cit.), se così non fosse, se, cioè, la Costituzione dicesse semplicemente che lo Stato ha la facoltà ma non il dovere di astenersi dall'accollarsi gli oneri di gestione delle scuole private, la disposizione costituzionale risulterebbe inutiliter lata e non avrebbe senso alcuno.
Il divieto, peraltro, non riguarda solo lo Stato ma anche gli altri enti pubblici (così G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, 4^ ed., Milano, 1955, 352), fra i quali ovviamente le Regioni. La logica della disposizione costituzionale è infatti quella che l'iniziativa privata nel settore scolastico non debba - sì - essere compressa, ma non possa neppure essere sostentata da pubbliche risorse, ché altrimenti si stornerebbero fondi da impiegarsi per il necessario e imprescindibile intervento pubblico in materia, che è così vasto che lo Stato è tenuto ad istituire proprie scuole "per ogni ordine e grado" (art. 33, comma 2, Cost.).
Va del resto osservato che la Costituente respinse un emendamento (proposto da Bruni: se ne veda l'esposizione nella seduta del 18 aprile 1947 e la ripresentazione nella seduta del 28 aprile) che mirava ad introdurre il principio secondo cui "Le scuole di qualsiasi tipo compiono un servizio pubblico". La reiezione di tale emendamento era collegata (lo nota opportunamente A. SEMERARO, Il sistema scolastico italiano, Roma, 1996, 107) all'affermazione del principio del divieto di finanziamento per le scuole private, sicché anche da tale vicenda si comprende quanto questo fosse considerato stringente. D'altro canto, i partiti laici presenti in Costituente, avendo ceduto sul diritto dei privati di istituire scuole, passarono consapevolmente, dall'opposizione alla previsione costituzionale della possibilità di finanziamento pubblico alle scuole private, all'imposizione del divieto (così L. AMBROSOLI, La scuola nella Costituzione, Brescia, 1987, 84). Ed è questo, ciò che puntualmente ed inoppugnabilmente risulta dal testo della Costituzione.
Il testo, invero, è ciò che per l'interprete conta, e sul significato di questo testo non possono esservi dubbi. Anche, però, a voler misurare il dato oggettivo del testo con l'intentio dei Costituenti, "contemperando" i due elementi (il che è il massimo che possa concedersi: cfr. P. VIRGA, Origine, contenuto e valore delle dichiarazioni costituzionali, in Rass. dir. pubbl. 1948, 293), le cose non cambiano. Non si tratta, dunque, di affermare che l'esame dell'intenzione dei Costituenti non può, qui, rovesciare il significato del testo (come vuole S. MASTROPASQUA, Cultura e scuola nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1980, 94): è la stessa intenzione dei costituenti, che smentisce qualunque contraddizione con il testo.
Invero, l'Assemblea costituente approvò l'emendamento aggiuntivo all'(allora) art. 27, "senza oneri per lo Stato", nonostante che Gronchi avesse espressamente richiamato l'attenzione sul fatto che quell'emendamento avrebbe avuto l'effetto di "precludere per via costituzionale allo Stato ogni possibilità di venire in aiuto ad istituzioni le quali possono concorrere a finalità di così alta importanza sociale" (cfr. la seduta pomeridiana del 29 aprile 1947). Chi votò in favore dell'emendamento, dunque, lo fece nella piena consapevolezza del suo significato, e proprio sulla base del convincimento che ciò che ad alcuni (in particolare a Gronchi) pareva un suo difetto ne era, in realtà, un pregio. Non basta. Già prima (in apertura della stessa seduta) Dossetti, in replica alle perplessità di molti (ad esempio di Codignola) sul significato da attribuire al principio della "equipollenza di trattamento scolastico" aveva chiarito che ciò non implicava affatto un onere finanziario a carico dello Stato, e Binni aveva annunciato il proprio voto favorevole in quanto il testo concordato non comportava "neppure l'ombra di sovvenzioni" da parte dello Stato.
Certo, i sostenitori della legittimità del finanziamento alle scuole private si aggrappano all'intervento di Corbino in sede di dichiarazione di voto, nel quale si affermò che intenzione dell'emendamento aggiuntivo non era quella di proibire, bensì quella di non rendere obbligatorio il sussidio dello Stato. Non si deve però dimenticare (a parte quanto detto in precedenza sul dubbio valore che, così, avrebbe il disposto costituzionale) che Corbino interveniva in sede di dichiarazione di voto, e cioè in una fase del procedimento nella quale (come il Presidente Terracini ricordò espressamente) non si può riaprire la discussione. A quel punto, dunque, nessuno poteva ulteriormente intervenire per discutere il testo (e men che meno per cambiarlo), sicché l'intervento di Corbino valeva e vale per ciò che era ed è: la manifestazione del convincimento personale di un deputato alla Costituente. Per soprammercato, subito dopo Corbino intervenne Gronchi, dicendo: "Io vi faccio osservare che una dizione quale quella che si chiede in aggiunta al primo articolo potrà essere anche interpretata come vuole l'onorervole Corbino, ma può essere anche interpretata in senso assai più estensivo". Chi, dunque, ritiene che in astratto la intentio dei Costituenti potesse essere disvelata dalle due dichiarazioni, deve riconoscere che la contraddizione fra le medesime dichiarazioni è clamorosa, sicché in concreto nulla può desumersene (analogamente, S. MASTROPASQUA, Op. cit., 83). Una volta di più è quello del testo, il terreno sul quale l'interprete può muoversi rassicurato da certezze e non sviato da sottintesi o ambiguità.
Non basta ancora. Nella seduta del 30 aprile, Bernini rilevò che "è stato stabilito con l'articolo 27 che le scuole private non abbiano sovvenzioni", e addirittura lamentava il fatto che - con i sussidi agli alunni - il principio della sovvenzione, cacciato dalla porta, potesse rientrare dalla finestra. Identica riflessione nell'intervento, immediatamente successivo, di Tonello, mentre Laconi (che saggiamente richiamò sull'esigenza di non indagare sulle intenzioni di chi votava...) dichiarò di votare a favore delle norme sul diritto allo studio di tutti gli studenti, capaci e meritevoli privi di mezzi, di tutte le scuole, solo per ciò che dicevano, non certo per ciò che non dicevano (la reintroduzione, cioè, della sovvenzione alle scuole private).
Lo stesso Moro, del resto, proponeva tutt'al più un sussidio pubblico in favore non delle scuole private, bensì degli alunni capaci e bisognosi, ancorché inseriti in scuole private. Non solo, dunque, la legge censurata non rispetta la Costituzione vigente, ma non rispetterebbe neppure quelle che sarebbero le previsioni costituzionali se le proposte dei fautori del finanziamento alle scuole private fossero state accolte, in quanto non ne osserverebbe le condizioni (l'erogazione del sussidio agli alunni; la condizione di bisogno di questi).
Da qualunque punto di vista la si riguardi, la legge censurata è dunque costituzionalmente illegittima. E - è bene precisare - lo sarebbe anche accogliendo (peraltro erronee) tesi intermedie, che ammettano parzialmente il finanziamento pubblico per le scuole private. Ciò vale, in particolare, per l'opinione (cfr. ad es. G. ZANGARA, I diritti di libertà della scuola, in Rass. dir. pubbl., 1959, 429) che sostiene la legittimità dei finanziamenti alle scuole "a sgravio" (nella misura in cui, cioè, l'erogazione del servizio scolastico attraverso le scuole private determina un indiretto risparmio per l'erario). Per un verso, infatti, non risulta che il legislatore regionale si sia preoccupato di distinguere fra scuola e scuola in ragione dell'eventuale "sgravio" derivante dalla sua esistenza; per l'altro, uno sgravio non può esistere laddove non vi è scuola dell'obbligo (lo riconoscono anche i seguaci dell'opinione criticata: cfr. M. BERTOLISSI, Scuola privata e finanziamento pubblico, in Dir. soc., 1981, 550 sg.). E di obbligo scolastico, ovviamente, non può parlarsi per le scuole materne. La disciplina del (non) finanziamento alle scuole private è dunque inequivoca (e si può sottrarre al riconoscimento di questa verità solo chi - invero in modo a dir poco singolare - afferma che la disposizione di cui all'art. 33 Cost. sarebbe "recessiva" rispetto al sistema nel suo complesso, e che vi sono molte disposizioni costituzionali rimaste "lettera morta": così S. MASTROPASQUA, Op. cit., 97) .
Questa disciplina non solo non confligge, ma è graniticamente coerente con il principio di libertà che - come già accennato - ispira tutta la normativa costituzionale in materia di scuola. Tale principio illumina tutto il settore: libertà di istituire scuole private; libertà di insegnamento; libertà degli studenti di formarsi i propri autonomi convincimenti, etc. La preclusione del finanziamento pubblico non comprime, ma addirittura esalta la libertà, che - come esattamente rileva il giudice a quo - è inevitabilmente assoggettata a limiti e controlli quando la mano pubblica interviene per sostenerla finanziariamente (in questo senso, in dottrina, ad es. P. GASPARRI, L'autonomia didattica e amministrativa degli enti d'istruzione, in AA. VV, L'istruzione, Vicenza, 1967, 78; F. RIGANO, La libertà assistita, Padova, 1995, 290 sgg.). La cosa, qui, si è puntualmente verificata, come dimostra chiaramente il sistema degli "impegni" che le scuole private sono costrette ad assumere in sede di convenzione, se vogliono poi godere del pubblico sostegno. Il divieto di finanziamento con pubblico danaro delle scuole private non è dunque un limite, ma una vera e propria garanzia per la libertà (fondamentale!) di istituirle.
Per chiarire quanto gravemente vulnerate siano la libertà di insegnamento e la libertà di istituire scuole, garantite dall'art. 33, commi 1 e 3, Cost., basti riflettere su ciò che, nel sistema della legge qui censurata, per come in concreto attuata, qualunque istituzione scolastica privata che voglia accedere al sostegno previsto dalla l. reg. n. 52 del 1995, deve necessariamente conformarsi alle previsioni dettate dal Protocollo d'intesa tra la Regione e la FISM. Esso, però, incide profondamente sull'autonomia didattica, sull'organizzazione dei servizi, sullo stesso rapporto di impiego dei dipendenti, condizionando così in modo inaccettabile le libere scelte di chi voglia operare nel settore scolastico per l'infanzia. Per soprammercato, tale condizionamento è determinato da un atto (il Protocollo) che recepisce, oltre alla volontà dell'Ente regionale, la privata volontà della FISM, e cioè di una associazione privata, che possiede una specifica connotazione ideale e culturale. Come nell'orwelliana fattoria degli animali, dunque, anche se formalmente tutti sono eguali, sostanzialmente alcuni operatori scolastici finiscono per essere... più eguali degli altri (il punto è colto anche da F. RIMOLI, Scuole private, cit., 709). Cosa, questa, tanto più grave nel caso di specie, in quanto la FISM ha un preciso orientamento religioso, che impone uno scrutinio ancor più puntuale da parte del giudice delle leggi, in obbedienza al principio di laicità dello Stato (che - sent. n. 508 del 2000 - non vuole l'indifferenza nei confronti del fenomeno religioso, ma certo non legittima il privilegio).
Il fatto che le scuole materne private siano libere di richiedere o meno il finanziamento (assoggettandosi così ai connessi obblighi) non ha alcun rilievo (come invece si afferma nell'intervento della FISM, p. 11). E' infatti evidente che coloro che non volessero sottoporsi agli oneri limitativi della loro libertà dovrebbero "pagare" la difesa della libertà medesima con l'impossibilità di usufruire del finanziamento pubblico, subendo così un evidente danno. In realtà l'argomento qui criticato, non a caso, è stato utilizzato dalla dottrina (cfr. ad es. A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali, 2^ ed., Parte spec., Padova 1992, 499) per giustificare la "programmazione per incentivi" che i pubblici poteri impongono agli operatori economici privati subordinando la concessione di un beneficio al rispetto di limiti od obiettivi determinati dalla mano pubblica. Non a caso, si diceva, perché il ragionamento può funzionare quando ci si muove sul terreno di una libertà economica, nel quale la valutazione costi/benefici è connaturata all'essenza stessa della libertà, ma cade nel momento in cui si pretende di estenderlo ad una libertà peculiare come quella della scuola, che si collega intimamente a quella vera e propria precondizione di tutte le altre libertà che (dai tempi di Spinoza e Milton) è la libertà di coscienza (sul suo rango nel nostro sistema costituzionale, cfr., ex plurimis, sentt. nn. 334 del 1996; 329 del 1997; 508 del 2000). Qui, spazio per calcolare i costi (in termini di libertà) per avere i vantaggi (in termini di benefici economici) non ve n'è.
Tutto questo è stato completamente dimenticato dal legislatore regionale, che ha tranquillamente previsto che i Comuni possono contribuire alla gestione delle scuole private, addossandosi "oneri... per contributi di spesa corrente e di investimento" (art. 10, penultimo comma, della l. reg. n. 6 del 1983, nel testo introdotto dalla l. reg. n. 52 del 1995), e che essi possono attivarsi per il "sostegno" (sic!) delle scuole private (art. 2, comma 1, lett. B), della l. reg. n. 6 del 1983, nel testo introdotto dalla l. reg. n. 52 del 1995). Come si riconosce espressamente nel provvedimento impugnato nel giudizio principale (v. la parte dell'All. A nella quale si definisce la fascia di Comuni "B"), gli oneri finanziari che la legge regionale consente ai Comuni di assumere in materia scolastica sono diretti in favore delle scuole private. In questo modo, e in considerazione dell'enorme vastità degli obiettivi degli interventi di sostegno (ciò che si evince dall'ampiezza dei temi oggetto della convenzione-tipo), si chiarisce (checché ne dica la FISM nel suo intervento) che il finanziamento pubblico non riguarda i soli studenti (o le loro famiglie) per consentire che tutti, anche coloro che si rivolgono alla scuola privata siano posti in condizione di godere effettivamente del diritto allo studio. Esso si rivolge invece (addirittura primariamente!) agli istituti privati, e vale a sostenere direttamente la loro gestione. Come ha recentemente affermato codesta Ecc.ma Corte costituzionale (sent. n. 454 del 1994), però, l'art. 33, comma 3, Cost., non è violato solo laddove la "prestazione pubblica" di sostegno ("coerentemente con i principi propri dell'assistenza scolastica") abbia "come destinatari diretti gli alunni, e non le scuole". Anche coloro che sono favorevoli ad un maggior interesse nei confronti dell'istruzione privata, invero, sono consapevoli che oltre questo limite (del sostegno agli alunni, perché bisognosi o meritevoli) non si può andare (cfr., ad es., C. VIDAL PRADO, Stato sociale, parità scolastica e sussidiarietà, in Dir. soc., 2001, 89 sg.). Lo stesso legislatore statale ha seguito la strada del finanziamento agli alunni o alle loro famiglie, specie se in condizioni economiche disagiate (art. 1, commi 9-11, l. n. 62 del 2000), e quando ha erogato provvidenze alle scuole private (cfr. art. 31, comma 2, l. n. 1073 del 1962), lo ha fatto in proporzione all'accoglienza di alunni in disagiate condizioni economiche (sicché, a prescindere dai pur notevoli dubbi sulla legittimità di simili previsioni, esse riguardano ipotesi del tutto diverse da quella che ne occupa).
Alle scuole private, invece, si rivolgono, appunto, direttamente le provvidenze previste dalla l. reg. n. 52 del 1995, che pertanto viola in modo inequivocabile il parametro costituzionale invocato.
Nel suo intervento, la FISM sostiene che la legge censurata non disporrebbe finanziamenti in favore delle scuole, ma li destinerebbe "esclusivamente ai comuni" (pp. 13 e 22, ad finem). Tale sconcertante affermazione è indice dell'imbarazzo e della difficoltà dei sostenitori della legittimità della legge: come è possibile sostenere che le scuole non siano destinatarie dei finanziamenti, quando i fondi regionali sono destinati ai Comuni proprio per attivare convenzioni con le scuole private (alle quali i finanziamenti, poi, debbono essere erogati)? Quasi che il passaggio intermedio (dalla Regione alla scuola privata "attraverso" il Comune) modificasse l'identità del destinatario!
Il fatto che nel nostro ordinamento siano stati previsti sussidi alle scuole materne private che accolgono gratuitamente alunni in disagiate condizioni economiche (art. 31, comma 2, l. n. 1073 del 1962 e 339 d. lgs. n. 297 del 1994) non sposta affatto - come ora ricordato - i termini del problema, ed anzi dimostra che i finanziamenti sono stati diretti in realtà agli alunni, poiché: a) li si è subordinati allo stato di necessità degli alunni accolti; b) li si è commisurati al numero degli stessi.
Quanto, poi, alla numerosa legislazione regionale accavallatasi in materia, il richiamarla (come fa la FISM) è, per i difensori della legge, addirittura controproducente. Per un verso, qui si discute appunto della legittimità di un siffatto intervento regionale; per l'altro, proprio il rincorrersi di simili abusi dimostra la necessità e l'urgenza di una pronuncia chiarificatrice di codesta Ecc.ma Corte costituzionale.
P.Q.M.
si insiste perché codesta Ecc.ma Corte costituzionale voglia dichiarare l'illegittimità costituzionale della legge in epigrafe, così come prospettato dall'ordinanza di rimessione, introduttiva del presente giudizio.


Roma - Firenze - Bologna, 25 giugno 2001

Avv. Prof. Massimo Luciani
Avv. Corrado Mauceri
Avv. Prof. Federico Sorrentino
Avv. Maria Virgilio