13
aprile
I tre gravi
rischi dell'anomalia Pd
Alberto Asor Rosa
All'inizio non ci volevo quasi
credere, pensavo fosse uno scherzo. Come! Con una
legge elettorale come quella che ci ritroviamo le due
parti «storiche» del centro-sinistra si presentano al voto separate, scegliendo
di andare incontro ad una quasi certa sconfitta?
Poi, con lentezza, ho capito che la scelta veltroniana andava al di là della scadenza elettorale attuale, guardava a una
prospettiva diversa da quelle tradizionali, lanciava ponti in direzioni
inconsuete. Insomma, era una scelta seria. Anzi, molto seria. Anzi, grave.
Non c'è molto spazio per motivarlo, ma io lo direi
così.
Il Pd - partito
sostanzialmente di centro che non guarda a sinistra, intenzionato
a presentarsi da sé e in sé come la soluzione del problema politico italiano e
destinato perciò per propria natura a rinunciare ad un sistema preventivo di
alleanze, esplicitamente percepito come un ostacolo alla propria autonoma
manovra programmatica e politica - rappresenta un'anomalia non solo nella
tradizione politica italiana ma in quella europea (se qualcuno è in grado di
additarmene un esemplare analogo fra l'Atlantico e i confini della Russia,
gliene sarei grato). Qualche elemento ispirativo se ne può ritrovare nel
Partito democratico americano, tanto caro a Veltroni (e
infatti il nome è lo stesso: nomen omen), anche se altri - per esempio,
il confessionalismo spinto di certi suoi settori - nettamente divergono. E - potremmo dire ancora una volta: infatti - esso manifesta
l'ambizione di ricondurre il bipolarismo italiano - che indubbiamente è
all'origine, per la sua composizione eccessivamente molteplice, di molti degli
inconvenienti del nostro sistema politico - ad un più sano e semplice bipartitismo.
Per raggiungere questo obiettivo si tende fra l'altro
a cancellare definitivamente dalla nostra carta politica qualsiasi presenza e
sigla socialista: un'altra delle nostre più pesanti e innaturali anomalie.
L'abilità e la forza comunicativa, che indubbiamente caratterizzano il suo
principale ispiratore e leader, Walter Veltroni, non
celano però - se si esce per un istante dal clima (neanche tanto) agitato del
confronto elettorale - alcuni gravi rischi strategici. Io ne vedo tre, che
segnalo, perché forse, nell'immediato o in un lontano futuro, si troverà modo
di correggerli.
Innanzitutto. Per avvalorare la tesi secondo cui il Pd era legittimato a fare
da solo, Veltroni ha dovuto riconoscere il medesimo diritto al suo principale
antagonista, il Popolo delle libertà, con il quale forma in duetto il futuro
bipartitismo virtuoso. Così facendo, ha portato avanti, con
atti e con parole che il suo concorrente ha subito ripreso, il processo di
legittimazione di Silvio Berlusconi in persona all'interno del quadro
politico-istituzionale italiano. Se viene meno la persuasione che la
principale anomalia del sistema politico italiano - oltre che una grande vergogna nazionale - è la presenza nell'agone
politico di uno come Berlusconi, tutto il quadro si corrompe e si offusca e in
nome della «governabilità» (ricordate Craxi?) si possono compiere le peggiori
turpitudini.
Dice: metà degli italiani lo vota. Gli italiani hanno votato anche Mussolini e
i tedeschi Hitler. Insomma, il voto democratico non è sempre in grado di sanzionare - depurandole - le aberrazioni che si verificano
in giro per il mondo: talvolta ne prende atto e le esalta. Non penso
soprattutto, a dir la verità, alle ipotesi di Grosse
Koalition, che pure da qualche parte si ventilano. Penso ad una caduta di
tensione (quasi mi vergogno, dati i tempi, a definirla morale), che sembra
caratterizzare l'attuale momento storico-politico (il fine giustifica i
mezzi...). Basterebbe una buona, precisa e incontestabile presa di posizione
nel merito per cancellare molti dubbi e preoccupazioni.
Esprimo in secondo luogo una convinzione ideal-politica, che per me ha valore
pienamente strategico. Io sono persuaso che l'Italia possa essere decentemente
governata (se non temessi l'enfasi, salvata) solo da quel complesso di forze
che in Italia costituisce il centro-sinistra «storico»
e che, per intenderci, va da Fanceschini a Migliore. Naturalmente,
per motivare convenientemente questa convinzione, dovrei scrivere un libro.
In mancanza del quale, accontentatevi dell'enunciazione: le
particolari condizioni della storia italiana nel corso degli ultimi due
secoli hanno sempre evidenziato l'imprescindibilità di questa alleanza ai fini
del destino nazionale (e anche di ognuno dei principali protagonisti che lo
compongono e lo determinano). Ancor più oggi: a me pare cioè,
per esprimermi in una maniera un po' approssimativa, che il raggiungimento di
un punto di equilibrio tra «riformismo» e «radicalismo» sia la formula a cui
consegnare il nostro futuro: formula difficile da impostare e da gestire, ma
tutt'altro che impossibile.
In questa prospettiva strategica salta all'occhio non
solo la clamorosa divaricazione veltroniana - che va alla ricerca di altri
destini, presumibilmente ben diversi - ma anche l'inadeguatezza delle forze
della cosiddetta «sinistra radicale» a sostenere, praticare, riempire di
contenuti nuovi tale prospettiva. Con il corredo culturale e ideale di cui
esse, più o meno a seconda dei casi, dispongono e con
il ritardo d'iniziativa di cui han dato prova negli ultimi anni, non si va
lontano. Dico questo: la divaricazione veltroniana è stata resa possibile anche
(soprattutto?) dall'assenza sulla sinistra di un interlocutore in grado di
condizionare anche i movimenti del centro del centro-sinistra. Il centro del
centro-sinistra ha deciso di andare per proprio conto, anche perché non aveva
contrappesi validi sulla propria sinistra, che gli rendessero
più difficoltosa la manovra.
Infine. Pochi, mi pare, hanno notato che il prossimo voto mette gli elettori
italiani di fronte al massimo d'incertezza possibile riguardo all'uso che del
loro voto verrà fatto. Walter Veltroni ha detto: non siamo soli; siamo liberi.
Ha ragione. Si vota al buio. Il bipolarismo imperfetto delle tre precedenti
consultazioni politiche consentiva tuttavia di votare non solo per un partito
ma per un governo. Ora non più: possiamo votare solo per un partito o un
raggruppamento di partiti, ai quali è demandata dopo il voto
l'intera facoltà di contribuire a formare, a seconda della forza loro
attribuita dagli elettori, questo o quel governo.
Io trovo questo intollerabile. Tolte di mezzo le preferenze;
attribuiti agli stati maggiori (Andrea Manzella parla di cinque-sei persone!)
tutti i poteri nella formazione delle liste: interrotta qualsiasi circolazione
rinnovatrice fra i partiti e il resto della società: ci si toglie ora anche il
diritto di scegliere il governo che desideriamo. Il massimo della
delega, dunque, coincide con la fase di maggiore scadimento, autoreferenzialità
e discredito del nostro ceto politico. Nonostante il
successo di alcuni dei comizi di Walter in piazza, la forbice secondo me
s'allarga. E non si sa cosa di nuovo sarà in grado di
combinare un parlamento che uscirà da questo voto.
Da questo punto di vista non c'è niente che si possa fare nell'immediato.
Bisognerebbe forse pretendere che al primo posto delle tanto
conclamate riforme ci sia l'annosa, mai affrontata, sempre più
indispensabile «riforma della politica»: la quale vuol dire essenzialmente
messa in discussione del ceto politico, rottura dell'autoreferenzialità, nuovo
rapporto società-politica (gli inserimenti adottati a tal fine nelle liste
fanno sorridere, quando non indignano), cambiamento radicale delle regole del
gioco.
In conclusione, e per non lasciar spazio ad equivoci. Penso che questa volta si
debba assolutamente andare a votare, e non solo per sbarrare la strada a
Berlusconi (che pure è un argomento non da poco). Bisogna soprattutto impedire
che si cada in quell'acquiescenza passiva, che si traduce nel detto famoso: «in
malora!» e che sarebbe la situazione peggiore di tutte,
l'anticamera della morte. Per chi votare, invece, oggi è affare di
ognuno.(Alberto Asor Rosa)