MARIASTELLA GELMINI, Ministro
dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Come darò
atto dando lettura dell'intervento programmatico di questa mattina, nelle
settimane che hanno preceduto la mia audizione mi sono astenuta dal rilasciare
interviste e dichiarazioni in ordine al tema dell'istruzione, dell'università e
della ricerca proprio per il grande rispetto che nutro nei confronti del
Parlamento. Mi sono state rivolte molte domande sull'intendimento programmatico
del mio dicastero, ma non ho rilasciato alcun tipo di dichiarazione, se non
laddove vi era la necessità di prendere decisioni, come nel caso dei famosi
debiti.
L'incontro con il Presidente della Repubblica non ha avuto come oggetto
l'illustrazione dettagliata delle mie linee programmatiche, bensì una
valutazione sugli esami di maturità e sul tema della prova scritta ad opera dell'INVALSI per quanto riguarda la scuola media.
Non nego che all'interno di questo colloquio, molto cordiale, si sia discusso
ovviamente di quella che anche il Presidente Repubblica, condividendo le parole
del Papa, definisce «comune emergenza educativa», ma
non credo francamente di aver mancato di rispetto nei confronti della Commissione,
posto che le linee programmatiche verranno illustrate
per la prima volta qui oggi.
Non intendo rispondere di quanto scrive Il Messaggero. Nella mia
relazione, non vi sono certamente solo i temi da esso
citati. Probabilmente la testata giornalistica è andata a
intuito, consapevole della posizione programmatica dell'attuale Governo. Ignoro
come abbia avuto quelle informazioni, che credo non corrispondano esattamente
ai contenuti del mio programma. Vi garantisco comunque
che non vi sono state indiscrezioni giornalistiche per quanto di mia
competenza.
Entrerei dunque nel merito della relazione.
Signor presidente, onorevoli deputati, il grande
rispetto che nutro per il lavoro del Parlamento e l'importanza che assegno al
confronto con le Commissioni mi hanno indotto a chiedere al presidente Aprea e al presidente Possa di separare in due distinti
momenti la mia audizione. Istruzione, università e ricerca scientifica
costituiscono un tutt'uno, hanno
per protagonista lo stesso soggetto, la persona nel suo cammino di crescita e
di conoscenza, e sono parte dell'unica infrastruttura dell'educazione e del
sapere. Tuttavia, la loro complessità, la diversità di linguaggi e in parte di
problemi, la necessità di focalizzare sia pure a grandi linee il dibattito e di
dare alla Commissione la più ampia possibilità di
esprimersi meritano da parte di tutti noi l'esercizio di un duplice sforzo.
Oggi, quindi, discuterò con voi dalla scuola primaria e secondaria. È
necessario sottolineare innanzitutto un aspetto che mi
preme e che ritengo voi abbiate il diritto di sapere e io il dovere di
esprimere, ovvero il criterio affettivo, il sentimento razionale con cui ho
deciso di accettare questo incarico gravoso ed esaltante. So bene che esso è
pesato su spalle di grandi filosofi e di eminenti
letterati, ai quali non mi permetto certo di paragonarmi, se non per
l'essenziale, che non è la scienza e la cultura, ma la passione per
l'educazione, il desiderio che questa Italia cresca nel bene più prezioso che
oggi si usa definire «capitale umano», ma che più semplicemente si chiama
«persona».
In continuità con l'intendimento delle famiglie, la scuola è il luogo primo e
decisivo di questa possibilità, in cui sola sta la speranza. Per
definire la crisi che attraversa non solo l'Italia ma
l'intero Occidente, il Santo Padre non ha esitato a parlare di «emergenza
educativa» come del punto di debolezza maggiore della nostra società, parole
che rispecchiano i sentimenti di preoccupazione che il Presidente Napolitano ha voluto manifestarmi.
Nel dibattito sulla fiducia lo scorso 13 maggio, questa espressione
è stata richiamata dai deputati di entrambi gli schieramenti, in particolare
dagli onorevoli Renato Farina del Popolo della Libertà e Marina Sereni del
Partito democratico. L'emergenza educativa non si affronta semplicemente con
nuovi contenuti e nuove metodologie pur utili, né con
il richiamo a valori astrattamente affermati. I valori, per essere condivisi e
vissuti, devono essere convincenti per i ragazzi, come sono quando testimoniati
da adulti (genitori, insegnanti, personale non docente), che propongono un
senso positivo della vita.
Signor presidente, onorevoli deputati, ho deciso in
queste settimane di mantenere il più assoluto riserbo sulle linee di indirizzo,
salvo rispondere ad alcune urgenze rispetto alle quali il silenzio del ministro
poteva essere male interpretato. Non ho concesso interviste né scritto
articoli, ma ho invece iniziato a studiare i dossier, a leggere quanto
di buono o meno buono è stato scritto in questi ultimi anni sulla scuola, a
riflettere per impostare proposte ragionevoli e utili.
Oggi non intendo fare la lista della spesa, soprattutto perché i singoli
capitoli di questa lista meritano (e credo li avranno) momenti di confronto
focalizzato. Intendo invece esporre i princìpi e i
metodi di un piano di legislatura. Sono sicura che il presidente della
Commissione, l'onorevole Valentina Aprea, sia la
persona più qualificata, anche per temperamento ed indole, a trasformare questo
metodo in realtà quotidiana.
Signor presidente, onorevoli deputati, il Governo e il ministro hanno piena
consapevolezza dei gravi e complessi problemi della scuola. Consentitemi di
risparmiarvi una serie di dati di largo e pubblico dominio e di valutazioni,
che in questi ultimi mesi ho visto largamente
condivise, limitandomi solo ad alcuni numeri fondamentali.
Nelle comparazioni internazionali i nostri studenti risultano
tra i più impreparati d'Europa. Le indagini OCSE-PISA, che misurano le
competenze in ambito matematico e scientifico, la capacità di lettura e di
soluzione dei problemi da parte dei quindicenni,
collocano l'Italia ai livelli più bassi della classifica. Tra 57 Paesi siamo al
trentatreesimo posto in lettura, al trentaseiesimo in cultura scientifica, al
trentottesimo in matematica. Peggio di noi in Europa sono solo Grecia,
Portogallo, Bulgaria e Romania, mentre meglio di noi Lituania
e Slovenia. Negli ultimi sei anni siamo scivolati ancora più in basso.
Vorrei però sottolineare preliminarmente come i risultati
cambino sia riguardo alla tipologia di scuola - meglio i licei, peggio gli
istituti tecnici professionali - sia rispetto all'area geografica - meglio il
nord, peggio il sud e le isole - sia all'interno di ciascuna area, con una
distribuzione di emergenze e di eccellenza a macchia di leopardo.
Va anche sottolineato che, se tutti i commentatori
hanno fermato la propria attenzione sui dati preoccupanti dei quindicenni, ben
pochi hanno parlato delle scuole elementari, che mantengono invece un livello di
eccellenza. Lo studio IEA PIRS pone i nostri bambini di 9 anni all'ottavo posto
al mondo come capacità di lettura, secondi in Europa solo a Russia e
Lussemburgo. Ritengo opportuno evitare di cercare soluzioni indifferenziate,
giacché trattare malattie diverse con la stessa cura non è certamente un
approccio razionale.
Premesso il quadro nazionale unitario, cui siamo
chiamati dai princìpi espressi dall'articolo 117
della Costituzione, occorre superare una vecchia e deleteria logica centralistica, che non tiene conto delle specificità
sociali e territoriali. Il nuovo ruolo delle regioni, sancito
dal Titolo V della Carta costituzionale e da definire compiutamente
nell'attuazione della legge n. 53, così come il necessario rafforzamento
dell'autonomia scolastica, devono costituire una sorta di federalismo
all'insegna della sussidiarietà, che rappresenta il
quadro istituzionale entro cui affrontare i problemi.
Dobbiamo adottare la miglior cura per chi è più malato. Se siamo tutti convinti
che l'istruzione è storicamente la più formidabile leva di emancipazione
e di riscatto sociale, è ancora più urgente riparare questa leva nel
Mezzogiorno d'Italia, dove i bassi livelli di apprendimento, la povertà e il
degrado sociale rappresentano un male da estirpare. Quasi centocinquanta anni
di studi e interventi dei grandi meridionalisti, sin dalle prime indagini di Sonnino e Franchetti, ci insegnano che solo attraverso il riscatto del Mezzogiorno
e il dispiegamento delle sue enormi potenzialità l'Italia potrà considerarsi
pienamente nazione.
A fronte di questi dati serve, a mio modo di vedere, uno scatto d'orgoglio
nazionale. Ciascuno di noi è chiamato a reagire e a togliere quel velo di
rassegnazione che troppo spesso accompagna l'analisi del sistema scolastico.
Dai posti più bassi delle classifiche l'Italia può e deve risalire. Non
possiamo rassegnarci, inoltre, di fronte al dato preoccupante della dispersione
scolastica. È un dovere cui siamo chiamati non solo
dal Protocollo di Lisbona, ma anche dalla necessità di garantire alle nuove
generazioni tutti gli strumenti atti ad affrontare il futuro. Due milioni di
studenti delle scuole superiori (oltre il 70 per cento) riportano una o più
insufficienze al termine del primo quadrimestre, negli istituti professionali
gli insufficienti sono ben 8 su 10, mentre duecentomila studenti delle superiori nel corso del quinquennio abbandonano la
scuola o vengono bocciati.
In una scuola in cui, per riconoscimento unanime, seri e rigorosi criteri
selettivi sono venuti scemando e in cui si registra
un'enorme dispersione di capitale umano, o meglio di persone in carne ed ossa
che vedono il proprio futuro pregiudicato, occorre una presa di posizione
lontana da inutili visioni ideologiche. Il Paese ci chiede a gran voce di
lasciare lo scontro politico fuori dalla scuola. Non
basta elevare sulla carta l'obbligo scolastico ed è negativa la scorciatoia di
semplificare i processi di apprendimento. Nostro
compito è quello di offrire al Paese una scuola che ciascuno, secondo le
proprie propensioni individuali, consideri strumento utile e necessario. Credo
che sia giunta l'ora del buonsenso, del pragmatismo e delle soluzioni
condivise.
Questo principio vale anche sul fronte degli insegnanti. Non possiamo ignorare
che lo stipendio medio di un professore di scuola secondaria superiore, dopo 15
anni di insegnamento, è pari a 27.500 euro lordi
annui, tredicesima inclusa. In Germania ne guadagnerebbe 20.000 in più, in
Finlandia 16 .000 in più. La media OCSE è superiore a 40.000 euro l'anno.
Questa legislatura deve vedere uno sforzo unanime nel far sì che gli stipendi
degli insegnanti siano adeguati alla media OCSE. Ma
per fare questo le difficoltà sono molte ed è necessario aggredire le cause
delle iniquità del sistema, mediocre nell'erogazione dei compensi, mediocre nei
risultati, mediocre nelle speranze.
Una scuola ostaggio di rivendicazioni, più finalizzata allo scontro ideologico
che non al recupero dei compiti del sistema, ha prodotto un esito che credo né
i sindacati, né i partiti, né la società italiana tutta possano
ritenere sensato: stipendi da fame, tramonto della cultura del merito, tramonto
del senso della scuola.
È una sconfitta nazionale, cui tutti abbiamo il dovere
di reagire invocando un vero cambiamento e non presunte riforme. Per troppi
anni abbiamo creduto tutti che le riforme legislative potessero
produrre una palingenesi del sistema educativo e abbiamo affidato
all'approvazione parlamentare di leggi di sistema la nostra speranza di
migliorare la scuola. Abbiamo investito le nostre energie sull'attività
legislativa. Abbiamo discusso troppo e troppo a lungo di cicli, di modelli
pedagogici, di indirizzi, di dottrine e di ideologie
formative. Abbiamo imbullonato e sbullonato leggi e
decreti, badando più al colore politico che alla sostanza dei problemi. Oggi
dovremmo tutti renderci conto che abbiamo bisogno di buona amministrazione,
di buongoverno, di semplificazione e di chiarezza. Il ministro prende qui l'impegno
solenne di rispettare queste considerazioni.
Proporrò modifiche legislative solo laddove sia strettamente
necessario; cercherò di contenere l'irresistibile tendenza burocratica a
produrre montagne di regolamentazione confusa e incomprensibile, di favorire
l'adozione di criteri generali e indicazioni nazionali leggibili, evitando la
metastasi delle norme di dettaglio. Soprattutto cercherò di preservare e di
mettere a sistema quanto di buono fatto dai miei
predecessori. Per questo motivo non ho avuto tentennamenti rispetto alla cosiddetta «circolare Fioroni» sul recupero dei debiti
scolastici attraverso prove supplementari. Nonostante il suo ritiro mi fosse
chiesto da più parti - e mi avrebbe certamente garantito una facile popolarità
- ho preferito rischiare di essere impopolare
piuttosto che antipopolare. Ho provveduto certo a modificare aspetti che mi
sembravano troppo dirigistici, ma non ne ho cambiato la sostanza. Questi anni
hanno dimostrato che non c'è alternativa possibile e
praticabile al ritorno della scuola dell'impegno e del rigore.
Per troppi anni la scuola, come altre istituzioni, è stata amministrata con una
visione ribaltata rispetto alla logica e al buonsenso. Si è pensato che
l'abbassamento della qualità potesse agevolare gli studenti offrendo agli
insegnanti qualche garanzia in più in grado di compensare la perdita di ruolo e
di status, con il risultato di non favorire né gli uni né gli altri. La
scuola ha smesso di essere un servizio ai cittadini e alla nazione per diventare
un enorme ammortizzatore sociale. Non c'è Paese al mondo che abbia
fatto così. Non ci sarebbe organizzazione in grado di sopravvivere a
queste procedure. È ingiusto per gli studenti e per i
docenti, è soprattutto mortale per la qualità del sistema educativo.
Accanto a questo criterio autodistruttivo ne abbiamo
introdotto un altro, che ha mortificato il senso di responsabilità. Abbiamo
livellato le retribuzioni verso il basso e quindi - verrebbe da dire - toccato
il fondo. Nella scuola abbiamo troppi dipendenti e poco pagati, con una
carriera pressoché piatta. Non c'è quindi da stupirsi se tantissimi bravi
maestri e professori non si sentono motivati, se tantissimi giovani preparati,
con la vocazione all'insegnamento, scelgono altre strade; se lo Stato dà poco,
non potrà che chiedere poco, in una spirale di frustrazione inarrestabile.
Dobbiamo trovare il modo di rovesciare questi criteri. La rivalutazione del
ruolo dei docenti, a partire dal pieno riconoscimento
del loro status professionale, che non può essere confuso con chi nella
scuola ricopre altri ruoli, ancorché essenziali, è un nodo da sciogliere.
Affermo questo ringraziando tutti quegli straordinari insegnanti, quegli eccezionali dirigenti scolastici, i membri del
personale amministrativo, che non solo svolgono il proprio dovere, ma
nonostante tutto vanno ben oltre. Abbiamo delle eccellenze da cui desidero
imparare, andando non a fare visite rituali, ma vivendo la scuola con loro.
Dobbiamo trovare insieme il modo di migliorare le prestazioni della scuola, la
retribuzione degli insegnanti e la qualità dei servizi accessori, sapendo che
non disponiamo di risorse economiche illimitate, e
che, anzi, dobbiamo compiere un grande sforzo di riqualificazione della spesa
pubblica. Il precedente Governo aveva avviato un piano triennale di
contenimento della spesa pubblica nel settore della scuola, che abbiamo ereditato e rispetto al quale non possiamo che
procedere. I conti dello Stato e la situazione economica internazionale lo
impongono. Va anche detto, tuttavia, che la coperta è corta, ma che la scuola è
una priorità, anzi «la priorità». Non si tratta di un
capitolo di bilancio qualsiasi, perché da essa dipende
il futuro del Paese e il Governo dovrà tenerne conto.
Se vogliamo migliorare concretamente il sistema
scolastico in Italia, non si può eludere il tema dell'autonomia e
dell'assunzione di responsabilità a tutti i livelli. Parlare di
autonomia significa innanzitutto valorizzare le governance
degli istituti, dotarle di poteri e di risorse adeguate e puntare alla loro
valutazione. Autonomia e valutazione sono due facce della stessa medaglia: non
possiamo rendere piena l'autonomia scolastica senza un sistema di valutazione
che certifichi in trasparenza come e con quali risultati venga
speso il pubblico denaro.
Roger Abravanel in Meritocrazia
definisce l'Italia un Paese pietrificato e come tale destinato al declino,
precisando la sua idea di merito, che condivido pienamente. Meritocrazia è un
sistema di valori che promuove l'eccellenza delle
persone, indipendentemente dalla loro provenienza sociale, etnica, politica ed
economica. Il merito non è una fonte di disuguaglianza, ma, al contrario, uno
strumento per garantire pari opportunità ed è, dunque, la più alta forma di
democrazia. Secondo Abravanel l'equazione del merito
è «intelligenza più impegno. La scuola e l'università devono premiare gli
studenti migliori. Se i risultati sono uguali per
tutti, saranno sempre i figli dei privilegiati a prevalere». Ritengo che il
punto di approdo del merito sia rappresentato dalla
valutazione oggettiva degli studenti, degli insegnanti e delle scuole, che deve
riguardare, scuola per scuola, non la presunta qualità dei processi e delle
strutture, ma misurare il risultato dell'azione educativa sul singolo ragazzo
quanto a valore aggiunto di cognizioni e crescita rispetto all'ingresso. Deve
altresì tenere conto della dispersione scolastica. Serve un cambiamento epocale
di mentalità, ma la società è pronta e se lo aspetta. Non sarà semplice e non
sarà immediato, ma desidero dare il mio contributo per
spargere i semi dal merito. Germoglieranno, ne sono sicura, perché l'Italia è
pronta.
Se condividiamo il valore della valutazione, questa
legislatura deve dare stabilmente all'Italia un sistema avanzato e riconosciuto.
Se condividiamo il ruolo delle autonomie scolastiche,
non solo a parole, ma nei fatti, sarà più facile liberare le loro potenzialità.
Ritengo fuorviante in questo senso parlare di parità scolastica marcando la
diversità degli istituti scolastici in statali e
privati. Si dice paritaria e paradossalmente con ciò si finisce per allargare
il solco. Con la legge n. 62 del 2000, varata otto anni fa da un Governo di
centrosinistra, esiste oggi in Italia un sistema pubblico di istruzione
in cui convivono, in piena osservanza costituzionale, scuole dello Stato e
scuole paritarie, istituite e gestite da privati. Tutte svolgono un servizio
pubblico, in quanto tenute a rispondere a precise indicazioni ordinamentali stabilite dal sistema legislativo.
Le scuole statali servono oltre il 90 per cento dell'utenza e sono quindi una
realtà estremamente ampia, importante e capillarmente
diffusa su tutto il territorio nazionale. D'altra parte, sta
crescendo in tante zone d'Italia la domanda delle famiglie per percorsi educativi
con specifiche connotazioni, cui la scuola paritaria può fornire risposte
adeguate. Un sistema pubblico d'istruzione, che fondi sul principio di sussidiarietà forme di pluralismo educativo, è la risposta
alle esigenze di istruzione e di formazione del
cittadino.
L'affermazione della parità scolastica sarebbe un espediente retorico, se si
lasciassero languire o morire valide esperienze educative. Oltretutto, un
dossier dell'AGESC rivela che il risparmio per l'erario, determinato nell'anno
corrente dall'esistenza di queste libere iniziative, è di circa 5,5 miliardi, a
fronte di un contributo di circa 500 milioni di euro.
Invito tutti a pensare non agli istituti, ma agli studenti e alle loro
famiglie. Ritengo infatti che tutte le famiglie meritino
di poter liberamente scegliere dove far educare i propri figli.
Le risposte finanziarie fin qui sperimentate costituiscono un valido punto di
partenza per individuare forme efficaci di sostegno alle famiglie. Le scelte
che il Governo farà in proposito avranno tutto lo spazio del dibattito
parlamentare, per arrivare ad un sistema equo e condiviso. In questo senso,
sarà interessante valutare non solo le soluzioni messe a punto dai Governi
nazionali succedutisi, ma anche le strategie promosse dai governi regionali più
sensibili alla soluzione del problema. Per quanto riguarda la condivisione
degli obiettivi, al di là dei singoli temi e capitoli,
occorre percorrere la strada del cambiamento condiviso, per dare stabilità al
sistema. Solo condividendo la necessità di cambiare e rifuggendo da logiche
conservative si entra in sintonia con larga parte del corpo sociale e si
garantisce un senso al nostro ruolo. Quattordici
associazioni di genitori, di dirigenti scolastici e di docenti hanno
recentemente promosso un manifesto-appello, che chiede la condivisione di obiettivi che vanno dalla libertà di scelta educativa
alla piena attuazione dell'autonomia scolastica, dalla personalizzazione dei
piani di studio alla rivalutazione del ruolo del corpo docente. Altre spinte nella medesima direzione provengono dal mondo della
scuola, dell'imprenditoria, dagli enti locali e dalle regioni, altre ancora
dall'indagine conoscitiva condotta nella precedente legislatura dal Ministero
dell'economia e delle finanze e dal Ministero dell'istruzione, i cui esiti sono
stati raccolti e analizzati nel Libro bianco sulla scuola del settembre 2007. Autonomia,
valutazione e merito sono i grandi temi sui cui il Paese aspetta una risposta,
in primo luogo dalla sottoscritta, e su cui il Parlamento ha il diritto e il
dovere di esprimere la propria potestà legislativa. Mi sembra di poter
registrare una convergenza anche con l'opposizione sulla necessità di avviare,
citando dal programma del Partito democratico «una vera e propria carriera
professionale degli insegnanti che valorizzi il merito e l'impegno» e ancora
«nel realizzare un nuovo salto nell'autonomia degli istituti scolastici,
facendo leva sulle capacità manageriali dei loro dirigenti all'interno di organi di governo aperti al contesto sociale e
territoriale sulla valutazione sistematica dei risultati». Celebrando la
Costituzione italiana, il mio predecessore, onorevole Fioroni, parlava di
questa come della possibile legislatura del buonsenso. Condivido le sue parole.
Se esiste un campo in cui il buonsenso e la politica
devono incontrarsi, questo è proprio quello della scuola. Proprio sotto l'egida
del buonsenso, mi sembra si sia avviato il confronto con Maria
Pia Garavaglia in qualità di
ministro ombra dell'istruzione, che ringrazio, più ancora che per le parole di
stima che ha voluto rivolgermi, per essere da subito entrata senza preclusioni
nel merito dei primi atti compiuti dal mio dicastero. Oggi dobbiamo
interrogarci anche su cosa chiediamo alla scuola. La risposta potrebbe apparire
scontata, ma in realtà non lo è. Pochi si aspettano
dalla scuola che fornisca conoscenze disciplinari,
formazione culturale, formazione professionale ed educazione. Non se lo
aspettano molti, troppi studenti. Non è un caso se abbiamo portato al 93 per
cento il tasso di partecipazione all'istruzione secondaria superiore della
fascia dei giovani tra i 15 e i 19 anni.
Nel 2006, un giovane su cinque tra i 18 e 24 anni aveva abbandonato
prematuramente gli studi senza acquisire un diploma di scuola superiore o
almeno una qualifica professionale entro il diciottesimo anno di età. Possiamo tendere a raggiungere gli obiettivi di
Lisbona solo se a quei giovani e a quelle famiglie riusciamo a dimostrare e non
a dire che in quel diploma e in quella qualifica
risiede non un pezzo di carta, ma un futuro migliore.
Oggi i dati statistici indicano che la società italiana è immobile. Il figlio
dell'operaio è drammaticamente condannato, se è fortunato, a fare l'operaio.
Ditemi voi se questo può essere ritenuto un sistema equo.
Antonio Gramsci asseriva che il merito e la fatica
dello studio sono gli unici possibili fattori di
promozione sociale. È una citazione dai Quaderni dal carcere, che voglio
ricordare prima di tutto a me stessa. Gramsci
scriveva: «Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e
molto faticoso, con un suo speciale tirocinio. È un processo di
adattamento. È un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la
sofferenza». La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con
sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio e a domandare
facilitazioni. Occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non
può esserlo senza essere snaturato. Abbiamo di fronte a noi un'occasione: il
precedente Governo ha stabilito, di concerto con le regioni, di rinviare al 1o
settembre 2009 l'entrata a regime della legge n. 53. Il tempo è poco, ma il
Parlamento e tutti gli attori coinvolti hanno la possibilità di dare al Paese
una straordinaria prova di produttività. Ci sono due pilastri da rafforzare: il
primo riguarda il nocciolo dell'istruzione, il secondo riguarda la personalizzazione dell'istruzione.
Lo Stato è chiamato dalla Costituzione a determinare i livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale e a dettare le norme generali sull'istruzione.
I livelli essenziali nella società della conoscenza non possono che essere
costituiti da una formidabile preparazione di base, che oggi è venuta
drammaticamente a mancare.
La patente delle tre «I» - inglese, internet e impresa -, indispensabile a
percorrere le strade del terzo millennio, non può essere presa a discapito della
quarta «I», quella di italiano, termine con cui ricomprendo l'antico trinomio «leggere, scrivere e fare di
conto», da declinare e approfondire a seconda dei livelli e dei percorsi di
istruzione, senza indulgere nello spezzettamento dei saperi e nei «progettifici», che, come segnalato dai moniti
internazionali e dai documenti elaborati dal precedente Governo, producono nei
nostri studenti inevitabili corto circuiti e deficit nella conoscenza,
impossibili da recuperare.
Come fa dire Leonardo Sciascia al professore
Carmelo Franzò «l'italiano non è l'italiano, è il
ragionare». L'italiano è quindi il territorio in cui si esercita la ragione, la
ricerca del senso, la matematica e infine le tre «I», che fioriscono bene solo
in questo alveo di significato. Le indicazioni
nazionali saranno concentrate su questo obiettivo,
lasciando alle autonomie scolastiche le più ampie possibilità, nella parti a
loro riservate, di esaltare le proprie specificità, sempre - mi auguro - con
l'obiettivo dell'eccellenza.
Si sarà notato che uso spesso la parola «eccellenza» e che non cerco sinonimi,
perché lo scopo che con voi vorrei pormi è il seguente
ossimoro: «la normalità dell'eccellenza». Non è un paradosso, ma l'attenzione
che anima ogni educatore.
Quanto alla personalizzazione dell'istruzione, non intendo riassumere un
dibattito troppo vasto e troppo ben conosciuto dai presenti, la cui leva principale è nell'interazione, nella sinergia tra autonomie
scolastiche, docenti, studenti e famiglie. Al mondo non esiste legge o
circolare ministeriale che possa indicare come e
quando personalizzare. Esistono invece quadri di riferimento in grado di
aiutare i soggetti della personalizzazione a parlare tra di
loro e ad individuare le soluzioni concrete. Servono uno sforzo innanzitutto umano e il cuore dell'educatore che
personalizzi l'istruzione.
Mi concentro ora, seppur per sommi capi, sulla scuola secondaria di secondo
grado, sul sistema dei licei, degli istituti tecnici e professionali, sulla
formazione professionale. Ho ereditato materiali
utilissimi, come il rapporto della cosiddetta «Commissione De Toni»
sull'istruzione tecnica e professionale, che ci consentono di non iniziare
ancora una volta da capo.
La mia prospettiva - spero la nostra prospettiva - è
quella di portare tutto il sistema in serie A. Ogni pezzo del sistema deve
avere pari dignità, perché ogni persona deve avere gli strumenti atti ad
edificare il proprio progetto di vita.
Vorrei che il dibattito sulla cosiddetta «scelta precoce» si trasformasse nella
costruzione dei percorsi più adeguati per permettere ad ogni ragazzo di trovare la propria strada. Il substrato di quel
dibattito, magari sottaciuto, è permeato da una concezione classista, per cui il liceo è di serie A, l'istruzione professionale e tecnica
sono di serie B, il sistema regionale delle qualifiche è di serie C. Non è
così, o meglio, non è scontato che debba essere così. Non è così per gli
istituti tecnici, ad esempio, da cui proviene - mi limito a citare un dato - lo
zoccolo duro dei nostri laureati in ingegneria. Mi rifiuto, inoltre, di
considerare il sistema della formazione professionale come una sorta di
suburra, in cui relegare forzosamente sui banchi adolescenti per così dire
difficili.
Alcune regioni hanno costruito un sistema di grande
qualità, che offre prospettive ai giovani e garantisce al mondo del lavoro
persone preparate e predisposte alla formazione permanente.
L'indifferenziazione dei percorsi, la pretesa di uccidere le propensioni
individuali per pretendere ope legis che ogni adolescente percorra la stessa strada
sono la traiettoria più sicura verso gli abbandoni e la dispersione. Diamo ad
ogni persona la sua scuola e ogni persona troverà
nella sua scuola le ragioni per frequentarla con profitto. Ridare senso alla scuola significa ridare senso a ciascuno dei
percorsi per gli studenti e per le loro famiglie, ridare una motivazione per
ciascuno a stare sui banchi, per stare meglio nella vita. Alcune di queste
motivazioni possono essere rintracciate nella permeabilità tra mondo della
scuola e mondo del lavoro.
Alcune delle eccellenze nei settori dell'istruzione tecnica e della formazione
professionale si fondano su questo interscambio, ma
non credo che il sistema dei licei debba essere considerato una turris eburnea, tutt'altro.
L'interazione tra scuola e lavoro, tra scuola e vita reale ha
un ruolo inestimabile: far comprendere allo studente, in un'età difficile,
l'utilità concreta di quanto sta facendo, che imparare serve ad essere promosso
non solo a scuola, ma anche nella vita. Nello spirito di una scuola che sia realmente per tutti, affermo il diritto all'istruzione
di chi presenta abilità diverse. Gli obiettivi didattici, le metodologie e gli
strumenti devono essere personalizzati e coerenti con le abilità di ciascuno,
per definire i livelli di apprendimento attesi. Molte
sono le buone pratiche costruite su competenza, professionalità, disponibilità
e impegno delle diverse componenti scolastiche, dagli
insegnanti di sostegno agli insegnanti curriculari,
dai dirigenti scolastici alle associazioni. Occorre fare tesoro
dell'esperienza. Il mio impegno è indirizzato ad ascoltare le esigenze, le
criticità, le proposte delle famiglie e di tutte quelle realtà associative che
si occupano di disabilità, al fine di individuare
insieme anche percorsi formativi più adeguati al bisogno con la necessaria
flessibilità, superando le rigidità non coerenti con l'azione educativa.
La scuola coinvolge la responsabilità dell'intera società, a cominciare dalle
famiglie e dagli insegnanti. Elevare la qualità della scuola richiede
un'assunzione di responsabilità collettiva. I fallimenti sperimentati nella
quotidianità con i gravi fatti di violenza, di bullismo,
di tossicodipendenza rendono consapevoli insegnanti e famiglie dell'impossibilità
di farcela da soli, ciascuno per proprio conto, e della necessità di una
cooperazione corresponsabile tra tutti i protagonisti del processo di crescita
umana e professionale dei giovani.
Se avvicineremo famiglia, scuola, comunità civile e
mondo del volontariato, con il suo patrimonio di valori vissuti e di conoscenza
del prossimo, e li faremo convergere su un'attenzione disinteressata nei
riguardi dei giovani, sarà possibile far fronte alla sfida dell'emergenza
educativa. Solo una partnership tra scuola e famiglia è
in grado di affrontare disagi e difficoltà e di perseguire la qualità nei
rapporti e negli apprendimenti, in modo che ogni studente possa trovare nella
scuola le condizioni per valorizzare le proprie capacità e realizzare il proprio
progetto di vita.
Difficoltà di apprendimento, scarso rendimento
scolastico, abbandono degli studi, inconsapevolezza delle regole, abuso di
sostanze stupefacenti si trovano alla base di fenomeni antisociali, quali la micro delinquenza e il bullismo e
si manifestano sempre più precocemente. Va anche osservato che troppo a lungo
si sono delegate alla scuola responsabilità e azioni che competono
alla famiglia, che, pur nelle sue difficoltà, rappresenta la base fondamentale
su cui sviluppare le attività didattiche, formative ed educative.
In questi ultimi anni, in particolare, la crisi della famiglia rende ancora più
complesso il compito della scuola. Il manifestarsi delle diverse forme di
disagio, infatti, chiama in causa innanzitutto gli
affetti, i sentimenti, la vita di relazione dei giovani. Se
si vuole rispondere efficacemente alla profonda esigenza di trasmettere il
valore del rispetto e dell'osservanza delle regole, il valore della legalità,
dei diritti e dei doveri, occorre agire sin dai primi anni di vita, sin dalla
scuola dell'infanzia e dalla scuola primaria.
Veniamo al tema dell'integrazione, una parole chiave: integrazione
nella comunità, nella civitas. Non possiamo
chiudere gli occhi di fronte alla spinta migratoria,
che coinvolge centinaia di migliaia di adulti e centinaia di migliaia di
bambini. Il nostro primo obbligo è insegnare a tutti loro la lingua italiana e
la Costituzione della Repubblica.
Non sono passati secoli, ma pochi lustri, da quando
un'altra spinta migratoria all'interno del Paese è stata l'occasione per
alfabetizzare centinaia di migliaia di italiani, che sono diventati l'ossatura
della nostra industria e gli artefici, con la doppia fatica dello studio e del
lavoro, del miracoloso boom economico italiano. Oggi dobbiamo garantire
la stessa alfabetizzazione agli immigrati e ai loro
figli, per loro e per i nostri figli. In numerose classi il processo di apprendimento è frenato dalla necessità di non lasciare
indietro, di non escludere quote sempre più alte di alunni extracomunitari,
ragazzi e ragazze con competenze proprie, ma penalizzati dalla barriera
linguistica.
Occorre trovare soluzioni atte ad abbattere questa barriera e concentrare su
quelle le nostre risorse professionali ed economiche, uscire dalle
sperimentazioni per entrare nella normalità. Sulle modalità vorrei che si
esprimesse la Commissione, ma chiederò anche l'aiuto di chi si trova in prima
linea ad affrontare il problema, a partire dagli
insegnanti delle classi in cui il numero di studenti stranieri è più elevato.
Alfabetizzazione significa anche alfabetizzazione
civile per i figli degli extracomunitari, che devono apprendere le regole della
comunità italiana, così come noi apprendiamo e applichiamo le regole delle case
in cui veniamo ospitati, ma anche per i giovani italiani. Giusto cinquanta anni
fa, un grande statista e Ministro della pubblica istruzione, Aldo Moro,
introduceva nelle scuole lo studio dell'educazione civica. Mi sembra che
potremmo celebrare degnamente questo cinquantenario e i sessanta anni dalla
nascita della Costituzione restituendo un ruolo centrale all'educazione civica.
Signor presidente, onorevoli deputati, mi avvio ormai
a concludere. Prima delle elezioni, un gruppo di volenterosi uomini di
conoscenza, il cosiddetto «gruppo di Firenze», si è riunito per proporre agli
italiani e in particolare alle forze politiche un manifesto-appello. Vorrei
farlo mio e impossessarmi del suo messaggio più importante, laddove recita: «Sia le riforme sia il Governo e la vita della scuola, a
tutti i livelli, dovranno ispirarsi ai criteri di merito e di responsabilità. L'aggiornamento
dei programmi, la riorganizzazione dell'istruzione superiore, l'autonomia delle
scuole potranno dare risultati effettivi e duraturi
solo recuperando e mettendo in pratica questi elementari princìpi
dell'etica pubblica e privata. Dobbiamo offrire ai nostri ragazzi una scuola
più qualificata ed efficace, ma insieme più esigente sul piano dei risultati e
del comportamento. Dobbiamo restituire ai docenti, spesso demotivati e resi
scettici da troppe frustrazioni, il prestigio e l'autorevolezza del loro ruolo,
intervenendo, però, con tempestività e rigore nei casi - pochi,
ma negativi per l'immagine della scuola - di palese negligenza o di
inadeguatezza. I dirigenti scolastici, infine, andranno valutati in primo luogo
per la loro capacità di garantire nel proprio istituto professionalità e
rispetto delle regole da parte di tutti».
Desidero rivolgermi ai firmatari di questo appello,
chiedendo loro aiuto. Sono infatti convinta che
invertire la tendenza al degrado della scuola richieda un grande sforzo
nazionale, cui sono chiamati il Parlamento e le parti sociali nelle loro
definite responsabilità, cui è partecipe il mondo della cultura, il mondo dei
giovani e le loro famiglie. Abbiamo bisogno di una grande alleanza
per la scuola, che restituisca al Paese la parola «speranza».
A chi ha sottoscritto quel documento, ai tanti che in queste settimane mi hanno
dato utilissimi consigli chiedo collaborazione, così come anche alle associazioni
degli studenti. Recentemente, ho incontrato il loro forum e so che non sarà
facile trovare una lingua comune, perché spesso sono stati dati per scontati
una sostanziale incomunicabilità e un atteggiamento in cui ministro
e rappresentanti degli studenti sono controparti. Non lo do per scontato e
chiedo loro di non darlo per scontato, prendendo l'impegno di tenere aperto un
canale non episodico di discussione. Su alcuni punti avremo probabilmente
posizioni diverse, ma ci saremo parlati e confrontati.
La scuola ha bisogno di un grande impegno civile. Non dobbiamo rassegnarci e
credere che la scuola italiana sia un malato terminale, ma è necessario uno
scatto di orgoglio da parte di tutti. Personalmente ci
credo, sono ottimista e intendo spendermi fino in fondo. Vi chiedo
collaborazione e aiuto in questo sforzo di ricostruzione della principale
infrastruttura italiana. Grazie. (Applausi).