Eraldo Affinati, Bandiera bianca, Milano, Mondadori, 1995, pp. 203.

Bandiera bianca è il «diario segreto» di un folle, il racconto della sua rivolta contro l'apparato di una clinica psichiatrica, della sua fuga e del ritorno frustrante ad essa, a cui il titolo fa allusione. Ma se il tema letterario della follia può riportare ad una serie di topoi, stratificati dalla tradizione, queste pagine, in cui la follia non solo viene rappresentata, ma piuttosto agìta e comunicata, paiono equidistanti dalle «navi dei folli» e dai «mondi alla rovescia», come dalle prevedibili polemiche a sfondo socio-politico, di cui pure non mancano accenni. L'importanza, il valore del romanzo risiede anche in questa differenza e, prima di tutto, nell'elaborazione di una scrittura sostanziata da una violenta retorica del corpo, dalla vitalistica tensione verso il «basso», in senso bachtiniano. Il confine fra normalità ed abnormità viene spostato dalla dilatazione - che troppo facilmente si sarebbe tentati di definire espressionistica - dei particolari, dalle «imperscrutabili bizzarrie fisiognomiche» delle figure-simbolo dei folli, che si impongono nella loro grandguignolesca evidenza, pirandellianamente fissate dalle definizioni delle loro manìe: «Uomo-aquila», «Uomo-squalo», «Uomo-cane». Ed anche la lingua che li esprime forza continuamente i propri limiti, nel ricorso seriale a metafore e similitudini che riportano ogni possibile astrazione ad una urlata consistenza materiale. [Anna Frabetti]


Marco Belpoliti, Italo, Ripatransone, Sestante, 1995, pp. 397.

Coadiuvato da una tenera dispensatrice di assistenza (e di materiale sussistenza), un personaggio di nome Italo racconta la «storia bislacca» dei suoi «giorni passati» attraverso l'espediente annalistico della revisione di una raccolta di francobolli. Italo riscrive ciò che avrebbero vissuto i suoi precursori, Don Chisciotte e Tristram Shandy, se avessero sperimentato il dopoguerra e il dopotelevisione nel nostro Paese: finti partigiani, preti, notabili di apparato e nuclei eversivi del «Piano Solo» compongono una disorientata comunità di pasticcioni, impegnata a costruire nicchie d'ossigeno per sopravvivere all'italiana (avanti a quieto vivere, ritualità e conformismo), oppure ferma in posa ebete di fronte ad una telecamera anni Sessanta, o ancora tutta intenta all'architettura di buffi complotti eversivi. Dietro la collezione di francobolli di Italo, il Marco Belpoliti umorista ha rinunciato, talora dolorosamente, alla propria tecnica anodina, per ricercare dove vadano a piantarsi le radici linguistiche e lessicali della piccineria italiana. Danno un'idea di sfottimento già solo alcuni cognomi di personaggi: una Monticon (che ricorda da vicino qualche recente e reale burletta golpista), e un Settoni, e un Berlicche (frenetico e ambizioso impresario televisivo, con villa barocca in Brianza), e un Giavotti, e un Besozzi; fauna umana da filastrocche, precipitata come una folla indifferenziata di caricature in un imbuto di mediocrità nazionale. [Stefano Colangelo]


Roberto Cotroneo, Presto con fuoco, Milano, Mondadori ("Voltapagina"), 1955, pp. 230.

Il romanzo d'esordio di Cotroneo porta in epigrafe un frammento significativo della Ballata n. 4 op. 52 di Chopin, le battute 211-212 che sono l'incipit dello sviluppo conclusivo. Ed è proprio quest'ultima Ballata chopiniana, datata 1849 e quindi dell'ultima fase creativa del musicista, a mettere in moto il meccanismo complesso della narrazione, poiché nel romanzo se ne ripercorre tutta la vicenda competitiva fino alla scoperta di una sua versione sconosciuta, dedicata a Solange Dudevant, figlia di George Sand, e caratterizzata da una coda difficile, da eseguirsi come un presto con fuoco. Solo un pianista "eletto", quale il protagonista del romanzo, sembra essere l'unico destinato a possedere il manoscritto inedito e ad interpretarlo, ed anche a conoscere la storia della sua elaborazione e trasmissione. Un artista così singolare, ultimo erede della grande tradizione interpretativa radicata proprio nel pianismo romantico di Chopin, si pone quindi al centro di più vicende umane; il ritrovamento della variante autografa della Quarta Ballata gli appare come un segno d'elezione, ed al contempo come scoperta di una inesplorata "calligrafia delle passioni" nella scrittura chopiniana, che egli deve rivivere su di sé. Egli si situa così in un crocevia di destini in cui si legano passato e presente in un gioco di simmetrie tra l'intreccio principale, dallo sviluppo analettico, e la trama storico-biografica con la storia compositiva dell'opera ritrovata. Tutto il romanzo, dalla sapiente costruzione "musicale", appare così nella forma del viaggio interiore narrato in prima persona, in cui si disvelano luoghi e personaggi "unici" all'interno di trame esemplari, amplificando in tal modo l'interesse e la suggestione del racconto per il lettore. [Stefania Filippi]


Silvio D'Arzo, All'insegna del Buon Corsiero, Milano, Adelphi, 1995, pp. 147.

Sospeso in una rarefatta atmosfera settecentesca accentuata dal travestimento di sapore stevensoniano e dalla disinvolta fantasia goldoniana, All'insegna del Buon Corsiero è sembrato il sogno o la fantasticheria di un adolescente precocemente maturo. Ma la serenità incantata della locanda viene improvvisamente turbata dall'apparizione del Funambolo, misterioso e surreale angelo caduto che incrina al suo passaggio la "dolce calma senza tempo" che avvolge i personaggi.
Si insinua allora negli animi il tormento sottile dell'incertezza e l'ombra dell'inquietudine oscura l'incanto effimero di questo mondo trasognato. La superficie levigata della scrittura, dominata con eleganza sapiente, appare lievemente increspata da movimenti repentini che lasciano intuire un turbamento sotterraneo.
Sulla malinconica dolcezza di questa rappresentazione immersa nella luce lunare si addensano le ombre del crepuscolo. Un presentimento fatale offusca l'imperturbabilità di questo capriccio settecentesco, concepito all'inizio degli anni Quaranta, quando già incombeva sulle coscienze il senso della fine. Non si tratta dunque di evasione, quanto piuttosto di trasfigurazione della realtà. Con un riserbo e un pudore che ricordano la scrittura e il destino di Serra, il giovane D'Arzo nasconde l'inquietudine sotto la maschera disinvolta dell'ironia. Ma questa maschera mostra ormai un'incrinatura profonda. [Daniela Baroncini]


Daniele Del Giudice, Staccando l'ombra da terra, Torino, Einaudi, 1994, pp. 122 (Premio Bagutta 1995).

Sfugge a facili categorizzazioni di genere questo libro di Del Giudice, definito finora - quasi indifferentemente - «romanzo» e «raccolta di racconti» e fondato sull'abile, sorvegliata contiguità di registri, tonalità, scritture diverse. Proprio nell'alternanza e nella trasformazione vanno riconosciuti i principali fattori di continuità della ricerca linguistica, non meno che della costruzione narrativa e tematica del testo. Al centro è posta l'esperienza del volo, luogo dell'immaginario letterario ed insieme evento tecnico, privato di ogni aura mitica, minuziosamente scomposto nei suoi dettagli. Metafora polivalente, della vita, della morte, dell'infanzia, il volo è inteso come dimensione esistenziale estrema, al limite di un autobiografismo consapevole, ma quasi differito, per mezzo dei continui spostamenti delle parti narranti dall'«io» al «tu», all'«egli», all'impersonalità di cosa. La scrittura stessa è informata da una tensione metamorfica, dell'uomo nelle cose (prima fra tutte, l'aereo), delle cose nel nominalismo definitorio del linguaggio che le oggettiva: «il più irreale dei linguaggi, il massimo di densità nel minimo di parole, ma anche il massimo di immaginazione, poiché ogni parola disegnava istantaneamente una geografia di traiettorie, di posizioni, di intenzioni, di provenienze e di destinazioni» (p. 83). Ed è soprattutto questa consistenza verbale, che filtra e seziona la complessità eterogenea di ciò che descrive, raggiungendo talvolta un'essenzialità lirica, montaliana, a restituire, nitido e tangibile, il tracciato del testo. [Anna Frabetti]


Marcello Fois, Picta, Marcos y Marcos, Milano 1995, pp. 135.

Difficile definire un romanzo che non è un romanzo, ma una catena di microracconti riuniti entro tre temi (capitoli?): dei pittori, delle tele, dei soggetti, che rimandano a un unico tenace filo conduttore: la pittura. Un testo in cui la pittura ci parla della poesia per affermare che essa non esiste; che discute dell'infinito, del vuoto, del tempo e dello spazio, dei rapporti fra le parti e il tutto e sostiene di voler "distruggere i nessi fra le cose ed affermarne comunque la validità". A osservarlo bene, essa sembra dirci, il mondo appare talmente casuale! Contemporaneamente però, in questo stesso testo, è una scrittura agile e penetrante a rendere concreta la pittura nella sua materialità di trama, pennello, colore, reazione chimica, fisicità.
L'unitarietà data a Picta da tale filo conduttore e l'apertura e molteplicità delle forme e dei procedimenti espressivi adottati di volta in volta da Fois (dal soliloquio al sogno al testamento; dalla narrazione in prima persona al montaggio quasi filmico - visivo - per sequenze) si compenetrano fortemente ed offrono al lettore un mondo aperto, che cresce per frammenti, ma non è incoerente. Anzi, l'apertura che lo domina conferisce alle parti una salda, profonda unità. L'universo di Picta prende forma dall'intrecciarsi delle molteplici voci che entrano in gioco: "Non c'è coerenza in tutto questo, non c'è continuità. Bello il mondo in cui le cose sono liquide e penetrano l'una nell'altra. Si implicano a vicenda".
La pittura suggerisce inoltre l'angolatura da cui inquadrare il mondo: l'occhio del pittore, il suo sguardo "mentale", si fa protagonista e produce infinito. L'artista esce da sé e proietta il suo corpo nel vuoto circostante, diventandone parte. La percezione dei sensi invece deve tener conto dell'inganno: occorre rifiutare la "fascinazione" della realtà. "Bella la mente che sa immaginare le immagini della mente e non quelle degli occhi". [Eleonora Conti]


Mario Giorgi, Biancaneve, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 125.

Libri come quello di Mario Giorgi hanno la preziosa capacità di mettere in discussione quella acriticità totalizzante, quella svergognata confidenza con icone, immagini e stereotipi, quella accettazione indifferente della pacificazione del già-detto, che potrebbe essere ormai tranquillamente definita «eredità del postmoderno», se ciò non valesse a innescare un ennesimo tentativo di «oltrepassamento» e quindi di falsificazione. Non deve infatti sfuggire, in Biancaneve l'assenza da copertine e risvolti della tranquillizzante paroletta-guida che in genere, come tutti i falsi custodi, non fa che esigere un prezzo amaro dal lettore per consentire l'attraversamento della soglia. Che cosa è oggi romanzo? Rimandando ad altre occasioni per una attenta riflessione sui generi, va poi notato come questo bisogno di riconsiderare l'abitudine e la parola troppo pronunciata non porti alla scelta del silenzio, ma al contrario ad una costante ed instancabile urgenza di fare il punto, di rifare i calcoli da principio, di tornare sui propri passi e spiegarsi così il panorama circostante. L'approdo è dunque uno studio dell'ambiente dell'esperienza umana, colto nelle sue linee di forza fondamentali, che si segnala per la sua attenzione al problema della costruzione, articolata attorno alla cura della inquadratura: l'espressività visiva come tecnica narrativa non resta espediente narratologico, ma si dispiega in scrittura, imbastisce una rigorosa ed impeccabile messa in scena del dramma dei rapporti umani, e di quel rapporto particolare che è l'amore. Su un palinsesto di archetipi e nodi psicoanalitici teatralizzati si costruisce allora un dialogo con un «terribile partner», la cui identità, rivelata solo alla fine, costituisce il bruciante segreto al centro della trama - o meglio della tela. [Vincenzo Bagnoli]


Maurizio Maggiani, Il coraggio del pettirosso, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 316.

Figlio di un anarchico indomito e coraggioso, Saverio Pascale vive nella babele misteriosa di Alessandria d'Egitto, in esilio dalla propria terra d'origine. Egli intraprende la ricerca degli antenati e delle radici con il pensiero costante di Ungaretti e della poesia del Porto Sepolto. Dopo un viaggio nel deserto, che lo lascia senza risposte, incontra in Italia il poeta, dal quale riceve il "foglio di Pascal", una carta quasi illeggibile che propone un enigma da risolvere. Questa carta consunta che contiene il mistero della sua origine lo induce a continuare la ricerca nel passato. Inizia allora un faticoso cammino a ritroso sui libri della biblioteca del monastero di Abu Makar, dove Saverio scopre la Bibbia, colpito dalla strana familiarità di quell' "italiano antico dalle inflessioni morbide" che gli ricorda la lingua dei padri. Nella biblioteca concepisce la storia di Pascal, l'antenato condannato al rogo per eresia all'epoca della Controriforma, e di Sua, la quale porta dentro di sé un figlio e un libro da scrivere. L'intera narrazione è percorsa dall'idea del libro che nasce non solo dai libri, ma anche dalla vita, perchè solamente attraverso la scrittura si ha l'illusione di afferrare il senso dell' esistere. Saverio scrive infatti il romanzo di Pascal per decifrare il proprio destino, ritrovando nella scrittura la guarigione e la vita. Il ritorno alla vita segna dunque il termine della narrazione scritta e il racconto viene completato oralmente alla presenza degli amici anarchici, con l'ultimo pensiero rivolto a Ungaretti, il vecchio poeta che forse è riuscito a ritrovare il proprio porto sepolto. [Daniela Baroncini]


Piero Meldini, L'avvocata delle vertigini, Milano, Adelphi, 1994, pp. 123.

Come in un thriller, nel primo romanzo di Meldini si snoda una trama apparentemente semplice, ma in cui gioca un ruolo decisivo la progressiva accumulazione degli elementi indiziari, insieme ad un delicato equilibrio della "suspense" fino allo scioglimento conclusivo dell'enigma. Il titolo di questo romanzo breve si spiega con una immaginaria leggenda agiografica riferita all'immaginaria beata Isabetta, che nel Medioevo ebbe fama di avere salvato un aspirante suicida dal suo proposito, solo procurandogli un attacco di vertigini.
Lo sviluppo di questo dato di partenza è condotto, tra ironia leggera e vere e propria "suspense", nell'ambito insolito di una ricerca delle fonti di tale agiografia. Il protagonista è infatti uno studioso malinconico e appartato che ritrova un manoscritto del '500 contenente un messaggio crittografato rivolto ad un futuro incauto lettore; la decifrazione di esso comporterà quindi per lui l'avverarsi delle sette profezie apocalittiche che vi sono descritte. Il ritrovamento, troppo causale per esserlo davvero, di un tale scritto, che poi si rivelerà un falso, dà inizio alla storia di una ricerca ed anche ad un "racconto del mistero" che solo alla fine si rivela nella sua facile soluzione. Nell'equilibrata sintesi di più generi e tradizioni letterarie, il lettore può ritrovarsi in contesti già esperiti dalla narrativa moderna, quali il racconto fantastico e il thriller in biblioteca, che rinnovano la consolidata finzione del manoscritto ritrovato. [Stefania Filippi]


Filippo La Porta, La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di fine secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 230.

Nella discussione - spesso declinata in fastidioso chiacchiericcio - sulle sorti della recente produzione narrativa italiana, il volume del La Porta si distingue per l'utile tentativo di cartografare l'esistente, dall'altezza dei primi anni ottanta sino ad oggi, secondo alcune categorie stilistiche mirate a comprendere (prima ancora di affrettarsi a giudicare e selezionare) la morfologia culturale del contemporaneo nella sua complessità. Per una serie di motivazioni riconducibili sotto il segno del postmoderno, «almeno inteso come tendenza e non come enunciazione propositiva di una "filosofia"», la narrativa nata nell'ultimo quindicennio sembra essere accomunata dalla percezione di uno scollamento nei confronti della tradizione precedente, un profondo iato emotivo e culturale prima che letterario. E, per leggere le diverse risposte a questo senso di disagio di fine secolo, il La Porta analizza una serie di stili e atteggiamenti letterari alla cui definizione contribuisce un intreccio di voci culturali, dalla televisione al cinema, dal fumetto alla musica. All'interno dei diversi approcci stilistici sono passati in rassegna i postcalviniani, i «libertini» che rispondono alla modernità con i più svariati travestimenti (Tondelli e Busi fra tutti), il fenomeno crescente di una narrativa «midcult» per l'immaginario piccolo borghese, le voci femminili (in nome di una particolarità lontana dalla rivendicazione di una differenza), le forme di scrittura - dalla saggistica al giornalismo - capaci di lasciare profonde traccie di sé, le forme della comicità (svelando come le «poligrafie del riso» spesso nascondano una simulazione letteraria di anticonformismo), concludendo con un'analisi delle sperimentazioni che hanno messo a nudo i limiti del letterario. Al di là dei singoli giudizi, mossi da un onesto disincanto, il merito principale del volume risiede nello sforzo compiuto di individuare alcune linee storico-culturali che permettono di leggere i diversi esiti della «nouvelle vague» narrativa su di uno sfondo comune, uno sforzo comunque capace di non irrigidirsi in schematiche proposte tassonomiche. [Franco Tomasi]


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