Il libro di Stefano Calabrese Intrecci italiani. Una teoria e una storia del romanzo (1750-1900) - Bologna, Il Mulino, 1995 - ambisce a riconfigurare una teoria del romanzo che consenta di interpretare la vicenda e le funzioni del novel nella sua età classica in maniera differente dalla vulgata storicistica, che lega la genesi storica del romanzo moderno all'ascesa della borghesia e al disincanto del mondo (ipotesi che, peraltro, - lo confesso subito - continua, con i necessari distinguo, a convincermi). La dispositio dei capitoli del libro è a cornice (e la cosa sembra significativa in un libro che esalta il valore modellizzante del plot classico): apre il volume un capitolo "teorico" (ricco di informazioni sul caso paradigmatico del romanzo inglese del Settecento), cui seguono tre capitoli "storici", dedicati al romanzo italiano dal Settecento, alla "decostruzione" dannunziana dell' intreccio, e un ultimo capitolo "teorico" che si impegna a definire la natura del "possibile" romanzesco.
Quasi ad apertura di volume è lo stesso Calabrese a fornirci un perspicuo riassunto delle tesi di fondo del suo libro: «In questo volume si sostiene che la nascita settecentesca del romanzo moderno, e la sua sostanziale tenuta fino al tardo Ottocento, siano da correlare non tanto al formarsi di un ceto borghese o all'avviarsi di un processo di secolarizzazione, bensì a fattori quali il mutamento degli orizzonti d'attesa dell'uomo e la maggiore imprevedibilità del futuro, impliciti nel diffondersi di una cultura urbana; il crollo dell'etica classica, sostituita da un orientamento probabilistico, e la necessità di raffrontarsi a modelli d'azione osservati nel loro contesto situazionale; il bisogno claustrofilico di proiettarsi in un intreccio concluso, di "ridurre" le complessità storiche e tenere sotto controllo la categoria pragmatica del "caso", mai del tutto assente dalla forma-romanzo; una "perdita d'esperienza" ininterrotta e consistente, tale da vanificare ogni competenza sulla storia passata come indicazione per una virtuosa gestione del futuro» (p. 8). Da ciò consegue un'idea di romanzo come strumento di orientamento etico-pragmatico (cui si connettono le inevitabili patologie dell'identificazione romanzesca su cui l'autore si sofferma nell'ultimo capitolo) volto a compensare la perdita d'esperienza reale tramite la retorica romanzesca del possibile. Non è difficile individuare a questo punto il retroterra teorico di questo lavoro, che si basa fondamentalmente sulle tesi dell'estetica della ricezione di Jauss e sulla riflessione storico-filosofica di autori quali Blumenberg, Marquard e Koselleck. Altrettanto semplice è individuare l'obiettivo polemico di Calabrese: Hegel e, di conseguenza, la nostalgia lukácsiana per l'epos. Ma Calabrese polemizza anche con Bachtin (rimproverandogli ad es. la «mistificante insistenza sul plurilinguismo» (p. 11), salvo poi accettarne fondamentalmente le tesi sull'intreccio) e si avvale di ulteriori "fonti" di riflessione: tra i nomi più citati ricordo solo Ricoeur, uno degli studiosi oggi più attenti ai rapporti tra teoria letteraria ed etica, mentre pure consistente mi pare il debito di Calabrese verso certa narratologia americana poststrutturalistica (un nome per tutti, Peter Brooks).
Questo regesto intertestuale (ovviamente incompleto) vuole solo suggerire la grande complessità del discorso interpretativo tentato da Calabrese: in casi come questo i vantaggi della duttilità metodologica comportano inevitabilmente il rischio di una perdita di "presa" sull'oggetto del discorso. Pur nei limiti di spazio impliciti in una mera nota informativa quale è questa, cercherò di discutere alcuni degli spunti offerti da questo lavoro.
Credo che sia complessivamente condivisibile l'idea (qui centrale) che l'intreccio romanzesco, regno del possibile e del casuale "controllato", assolva ad una funzione antropologica (d'altro canto, già Aristotele non insisteva nella Poetica sul ruolo primario delle trame?), ma il nesso di "apertura" di possibilità e di "chiusura" diegetica non richiedeva ancora qualche riflessione? Non è forse significativo che l'intreccio chiuso abbia collassato nel momento in cui, a cavallo tra Otto e Novecento, la perdita d'esperienza, da cui nascerebbe il moderno romanzo "claustrofilico", registrava un incremento traumatico, mentre alcuni avvertiti osservatori della realtà europea avevano già sperimentato su di sé la sensazione dell'eterno ritorno dell'eguale? Forse dovremmo disporre di una fenomenologia della perdita d'esperienza, integrando al minimo le riflessioni di Koselleck con quelle di Benjamin, o forse semplicemente si dovrebbe accogliere con maggiore discrezione la teoria dell'Erfahrungsverlust, pur riconoscendone il contenuto di verità? Resta tuttavia il fatto che il capitolo dedicato alle funzioni del romanzo italiano del Settecento mi pare il meglio riuscito tra quelli "storici". Qui Calabrese ci offre una serie di stimolanti riflessioni sui temi del caso e della ricerca delle cause come "calcolo delle probabilità" nel romanzo italiano del XVIII secolo: il solo fatto, ad esempio, che il testo forse più fortunato del Chiari si intitoli Le memorie di Madama Tolot ovvero la giocatrice di lotto assume qui come minimo un valore di forte suggestione "euristica".
Su molte cose avremmo desiderato ragguagli più dettagliati: per esempio, sui rapporti tra il probabilismo gesuitico e il romanzo italiano, ma la mole tutto sommato esigua del volume obbliga Calabrese a limitare gli "affondi" verticali a vantaggio di una tessitura "orizzontale" di motivi e di microsondaggi testuali, mediati da una scrittura saggistica sovente disamena. Ma passando alle trame romantiche mi pare che le difficoltà aumentino. Ogni modello "forte" di teoria della letteratura sembra funzionare meglio se applicato ad una classe di oggetti omogenea e priva di particolari "devianze": è uno dei problemi ad esempio della narratologia post-proppiana, che Calabrese cerca di superare ricorrendo a Jauss, Marquard, Blumenberg. Ma il "nuovo" modello teorico, applicato con una certa rigidezza, se risolve il problema ermeneutico posto dal modesto romanzo italiano del Settecento, si scontra con la maggiore complessità - di là dagli effettivi risultati artistici - della fase romantica. Qui ci sono dei problemi concreti di cui Calabrese non mi sembra renda conto: ontologizzando, per così dire, la perdita d'esperienza, egli sembra dimenticare che il romanzo storico dipende anche dall'accresciuta consapevolezza storicistica determinata dalla rivoluzione francese e dagli eventi che la seguirono. Questa è anche l'età delle filosofie della storia e della "religione della libertà", ma Calabrese preferisce glisser, concentrandosi piuttosto, ad esempio, sullo "scetticismo storiografico relativo agli esiti degli eventi" (p. 133) osservabile in certo romanzo storico italiano. Ora, il problema che Calabrese solleva è reale, ma egli finisce per illuminare un lato solo della questione, semplificando la contraddizione dell'età romantica, proiettata nel futuro ma consapevole allo stesso tempo che la nottola di Minerva si leva in volo solo al tramonto. Non mi sono qui richiamato ad Hegel per caso: questo lavoro si presenta come dichiaratamente antihegeliano, ma forse Calabrese dimentica quanto scrive uno dei suoi auctores, Odo Marquard: «La teoria hegeliana della forma romantica d'arte non è oggi frequente, né amata. Essa appare, ciò nonostante, corretta a chi scrive...: non c'è ragione di abbandonarla» (1). Faccio mia questa osservazione di Marquard, ricordando altresì che se un residuo di dialettica hegeliana permane, a ben vedere, anche nelle ricostruzioni storiografiche di Jauss, come ha recentemente chiarito Guglielmi (2), ciò che rimane "vivo" di Hegel è la sua straordinaria capacità di situare l'arte moderna (e dunque anche il romanzo) all'interno di una concreta contraddizione storica. E forse oggi è venuto il momento per quella "fruttuosa alleanza" tra la scienza della letteratura e l'estetica hegeliana che era negli auspici di Peter Szondi (3). Con questo non è mia intenzione censurare l'antihegelismo di Calabrese: voglio soltanto sottolineare che una teoria del romanzo come risultato di una perdita d'esperienza, compensata da una rimodellizzazione del reale ad opera del plot, otterrebbe un di più di concretezza se tenesse in maggiore considerazione l'analisi hegeliana della modernità artistica.
Superato in qualche modo l'ostacolo del romanzo storico (cui sono dedicate, mi pare, le pagine meno coese del libro), l'analisi di Calabrese può procedere spedita: lo sternismo, il romanzo d'appendice, il romanzo naturalistico e infine quello dannunziano, che liquida in Italia il plot "classico", ci scorrono velocemente davanti senza porre particolari problemi ermeneutici: tra le pagine più riuscite di questa sezione voglio segnalare quelle dedicate al romanzo d'appendice, nei suoi rapporti con la cultura a oralità residua del pubblico massificato delle grandi città (pp. 160 e sgg.) - mentre del "behaviorismo" verghiano (p. 182) credo si possa quantomeno discutere -.
Nell'ultimo capitolo Calabrese tira le fila del suo discorso, concentrandosi sulla natura del "possibile romanzesco", attraverso la riproposizione delle riflessioni, tra gli altri, del filosofo del bovarismo, Jules de Gaultier, e del classicista tedesco Erwin Rohde, vicino a Nietzsche e autore di un importante studio sul romanzo greco (1876), che avrebbe poi avuto una qualche influenza su Bachtin. E qui inevitabilmente, come già nel primo capitolo, dove alla "categoria ontologica dell'io" si contrapponeva la "categoria etico-pragmatica dell'azione" (p. 21), compare il fantasma di Nietzsche ad autenticare la retorica romanzesca del possibile. Mi sembra evidente, a questo punto, come la costruzione romanzesca, "chiusa", di questo saggio sottintenda, come in ogni buon romanzo, una serie di difficoltà non risolte che la finzione ironica della trama (in questo caso, della disposizione dei capitoli) consente, in qualche modo, di controbilanciare. Non posso più discutere ora dell'uso molto disinvolto che Calabrese fa di Nietzsche, come ho dovuto di necessità trascurare altri aspetti del suo discorso (come ad esempio il recupero, sulle orme di Jauss, della nozione di Einfühlung, che finisce per enfatizzare il valore della compensazione estetica dell'esperienza).
Vorrei concludere riflettendo soltanto sulla scelta, apparentemente ovvia per chi si occupa di trame, di escludere il romanzo del Novecento dal proprio discorso. Il problema è in realtà più complesso: nel romanzo del Novecento viene esplicitamente allo scoperto quel nesso profondo di ironia e mimesi (ben chiaro al Lukács hegeliano e romantico della Teoria del romanzo) che avrebbe consentito di includere il romanzo di questo secolo in una trattazione storica della forma-romanzo. Ma, come è naturale, il rifiuto di una tradizione di pensiero obbliga a delle scelte.
(2) Cfr. Guido Guglielmi, La parola del testo. Letteratura come storia, Il Mulino, Bologna 1993, p.25.
(3) Cfr. Peter Szondi, La poetica di Hegel e Schelling, Einaudi, Torino 1986, p.187.