Una prima osservazione può riguardare la particolare connotazione del "monologo interiore" nell'opera di Italo Svevo. Se conveniamo che a partire dalla Coscienza di Zeno l'opera di Svevo si connota fondamentalmente come un nevrotico agglomerato monologante, come un costante ed ineliminabile flusso diagnostico che non prevede alternative, si dovrà anche constatare l'avvenuto superamento dell'"ambiguità" di tipo pirandelliano; alle spalle è definitivamente lasciata la tecnica contrappositiva, in quanto è definitivamente risolto il dualismo attore-personaggio che aveva tormentato Pirandello lungo tutto il corso della sua attività. Il "doppio" non esiste più, sostituito com'è dalla perfetta aderenza tra maschera e volto, tra realtà e spazio della coscienza. Ne consegue che il modulo monologante subisca - ed era inevitabile - una profonda trasformazione. Se ne rese conto molti anni fa Giacomo Devoto, quando parlando del rapporto tra indiretto libero e discorso diretto affermava che per Svevo la differenza non esisteva più in quanto il discorso diretto era solo apparente, trasformato com'era nella ´traduzione in forma diretta di pensieri che all'analisi di Svevo non apparivano ormai se non intellettualizzati, allungati e sciolti nei loro elementi costitutiviª. In questa situazione anche l'indiretto libero rinuncia inevitabilmente alla sua rilevanza autonoma, fino ad adeguarsi al nuovo sistema adottato per il discorso diretto. L'appiattimento è inevitabile, ma dà origine ad un nuovo ed originalissimo modulo stilistico, riconducibile per altro a quel dialogo in interiore homine, a cui accennava Marziano Guglielminetti nel suo Struttura e tempo narrativo del romanzo italiano del primo Novecento (1966). Parliamo dunque, per Svevo, di un monologo di tipo diagnostico, come paradigma unico e assoluto di una realtà non più antitetica ma totalmente disintegrata. Il referente stilistico non può che essere l'abbandono della dialettica tra discorso diretto e discorso indiretto libero, con la conseguente nullificazione dell'autonomia espressiva del primo e del secondo.
Svevo non ha più bisogno, per documentare la realtà schizoide del proprio mondo interiore, di ricorrere all'alternanza dei piani narrativi. Gli basta utilizzare un costante e ossessivo scarto nell'uso sintattico del verbo, adottando un tempo misto di grande durata, connotato dall'uso alterno del passato e imperfetto risolti infine nel condizionale, così come avviene se la partenza è affidata anche al presente esplicativo. La chiave di volta del monologo è quindi il condizionale adoperato come tempo esterno dell'ipotesi, carico com'è di una valenza introspettiva altrimenti irrealizzabile. È questo il sistema che consente a Svevo di procedere all'assemblaggio strutturale, di realizzare un procedimento idoneo a rendere sulla pagina il flusso delle libere associazioni che dominano la sua memoria, con una parallela utilizzazione dello strumento evocativo e della inevitabile rimozione. La novità stilistica della Coscienza - e forse anche il segreto della originale struttura del romanzo - è da cercarsi in questa dimensione scoperta d'improvviso (ma forse non così d'improvviso come afferma Svevo) e utilizzata poi senza esitazioni e senza remora alcuna per creare la cosiddetta "tecnica" dell'ironia testimoniata da una continua disposizione al monologo interiore.
Tornando al punto di partenza, si dovrà concludere che, a conti fatti, la nuova concezione del tempo "misto" che corrisponde alla struttura della Coscienza coincide con l'individuazione di un sistema di monologo astratto, per cui gli avvenimenti non hanno senso se non riflessi nell'unica e instabile misura della "coscienza". Si determina così un mutamento profondo nella fisionomia del personaggio che ora, per la prima volta, si fa avanti nella sua posizione soggettiva di osservatore di una realtà svalutata radicalmente nei suoi dati esteriori, e unicamente recuperabile mediante la fluttuazione dei piani coscienziali. Ne deriva una nuova, sperimentale, visione del mondo e della storia, caratterizzata dalla sfiducia nella razionalità e nella conoscibilità della vita. La realtà fugge continuamente a causa del frapporsi di uno schermo tra l'uomo e il "reale", nel momento stesso in cui lo si individua. L'uomo non è più inquadrato naturalisticamente in una prospettiva storica, in linea di sviluppo, ma al contrario è immerso senza scampo nella fluttuazione discontinua di un organismo preda del patologico, destinato alla malattia e alla disgregazione. La tendenza al monologo presente nel personaggio-autore soprattutto nella parte iniziale e in quella conclusiva del romanzo è - a mio parere - il segno tangibile dell'accettazione ormai avvenuta di una più complessa situazione esistenziale. Freud non è passato invano per le vie di Trieste.
La patologia del vivere concretizza così nel monologo della Coscienza il suo tempo astorico: diviene emblematico dato di partenza, filo conduttore e tragicomico punto d'arrivo del personaggio nel suo "corto viaggio sentimentale".