Nonostante abbia attraversato più della metà del Novecento (le date di pubblicazione - pur sparute - lo attestano), snodandosi per circa un quarantennio, quella di Sandro Penna è un'opera che resta ancora assente dalla propria storia. I tentativi critici di rintracciare uno sviluppo interno al corpus penniano sono troppo spesso inficiati sia dalla natura stessa di questa poesia - quasi ossessivamente monotematica ed esemplare di un monolinguismo lirico nel quale sembra essersi esaurita, consumata la grande tradizione del petrarchismo - sia dalle difficoltà oggettive di ricondurre i singoli testi entro una cronologia attendibile.
Quando si consideri la produzione lirica di Penna nella sua totalità, non vada trascurato che se tutti questi elementi (lingua, stile, struttura) congiurano contro qualsiasi criterio di collocazione storica, questo si verifica anche secondo un'intenzione autoriale, che in questa prospettiva ci autorizza a leggere le Poesie, almeno a partire dalla prima raccolta organica del 1957, come un macrotesto anepigrafo, anche se non come un vero e proprio "canzoniere".
I grandi modelli del canzoniere sabiano o del "libro" montaliano, peraltro storicamente vicini al Penna degli esordi, non sembrano aver lasciato tracce visibili sull'organizzazione editoriale dei testi penniani, spesso affidata a cure esterne; del resto, anche nel caso di Montale, l'idea del libro poetico si è maturata in fieri e il solo esempio concreto, tra quelli frequentati dall'apprendista Penna, resta appunto il Canzoniere del 1921, sopravvissuto alla stagione del frammentismo. È innegabile tuttavia che la suggestione petrarchesca possa aver giocato un ruolo non trascurabile, in questa direzione, ma senza una diretta consapevolezza. Se il giovane poeta chiude alle prime pagine i Fragmenta dell'aretino, ciò accade per una sorta di transfert di marca tutt'altro che stilistica, ovvero per il riconoscimento di quella arrovellata sospensione che Penna tradurrà presto nella sua peculiare dinamica di desiderio e incanto. Così, una volta congedate, le singole raccolte non sembrano aver assunto agli occhi del loro autore un'intrinseca uniformità, al punto da dover intercalare, nel corpus completo, ampie sezioni di poesie inedite o ritrovate, la cui vicenda resta fortemente intrecciata a quella dei titoli a stampa.
Quando si parla di macrotesto, non si intenda rigidamente una struttura organica cui nulla può essere sottratto, pena la rottura degli equilibri; la stessa conformazione testuale ed editoriale della poesia penniana rimanda ad una nozione più ampia, dove l'uniformità di stile contemperi alcuni filoni tematico-espressivi a loro volta intrecciati e non privi di una eloquente reciprocità. Ciò che pertiene al piano denotativo reca in sé l'impronta di una pulsione primaria, che è il sigillo della straordinaria unità di questa poesia. Così, accanto ai topoi del viaggio, dell'ossessione amorosa, del desiderio del desiderio, della fascinazione destinata a non attuarsi se non nella dimensione di un "sogno confuso", di una strana, gioiosa follia fortemente interiorizzata e sempre "lontana" rispetto al mondo delle passioni concrete - come è l'amore di un sogno e non il sogno di un amore - non sarà difficile individuare una venatura metatestuale (un abyme nell'abyme del desiderio: "Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo / che il mio bianco taccuino sotto il sole"). Dalle poesie giovanili ora raccolte in Confuso sogno, alla raccolta d'esordio e oltre, Penna coltiva una sottile quanto esplicita riflessione intorno al proprio scrivere versi, per la quale l'artificio letterario si stempera nella naturale scorrevolezza della vita sensuale, nella sua reiterata e compiaciuta empiria ("Sempre fanciulli nelle mie poesie!"), ma sempre entro il limite di una potenza che non può trasmettersi sulla pagina come atto definitivo. Ricordo e desiderio restano pertanto i cardini di un'ispirazione che sembra romanticamente "discendere" come frutto di un genio inquieto e confuso, e che invece ribadisce, novecentescamente, quella condizione di separatezza e di lontananza, radice dello "psicogramma" penniano: "Sempre affacciato a una finestra io sono, / io della vita tanto innamorato. / Unir parole ad uomini fu il dono / breve e discreto che il cielo mi ha dato"; "Dal chiuso libro adesso approdo a quella / vita lontana. Ma qual è la vera / non so". Nel vasto cantiere degli anni Trenta, in quella zona rimasta ai margini dell'eredità simbolista e piuttosto immune dalle tentazioni analogiche del moderno, non sarà azzardato rintracciare richiami di una diversa sensibilità parimenti condivisa da una raccolta come Lavorare stanca; ma laddove Pavese, sulla base di una comune tendenza alla diegesi, istituisce una mitografia, Penna traduce un'antitesi radicale in una dialettica esistenziale ancor prima che letteraria, destinata semmai a sintetizzarsi solo attraverso la poesia, ma ancora visibile attraverso le innumerevoli tracce ossimoriche.
Se di narrazione si è parlato, è per verificare come nel registro di Penna giunga al suo limite, corrodendosi, la lingua della tradizione, che filtrata attraverso i modelli recenti di Carducci e Pascoli s'incunea nella modernità perdendo il suo carattere dominante di astrazione dal flusso della storia. Nel monolinguismo delle Poesie, dove spesso si ripetono sintagmi designati a veri e propri moduli espressivi, a sigle, l'hic et nunc di matrice leopardiana afferma se stesso restituendo questa scrittura ad una temporalità ancora assente dal grande referente petrarchesco. Nel lessico umile degli "operai", dei moderni mezzi di trasporto, degli "orinatoi" dove l'eros si elegge a mistero, il quotidiano desiderio e la sua ostentazione, la sua compiaciuta leggerezza parlano il linguaggio della realtà storica attraverso il tono melodico di una pulsione sempre uguale a se stessa, autoriflessiva e mai smentita, e proprio per questo "confusa" e astratta: "Forse l'ispirazione è solo un urlo / confuso [...]"; "L'amore di se stessi non è forse un sogno / vissuto ad occhi aperti per le strade?".
Questa dimensione del sogno-sonno confuso, del velo sensuale che riveste il concreto e lo rende irrimediabilmente lontano dalla pervasiva fluvialità amorosa di Penna - la cui consapevolezza ricade per intero sul soggetto lirico - rappresenta uno dei due poli entro i quali si contiene lo psicogramma a suo tempo individuato da Pasolini. Il carattere "ipnotico" o per certi versi "afrodisiaco" della poesia penniana, come ebbe a definirla Montale, è direttamente conseguenziale all'ipnosi dell'esperienza; letteratura e vita si pongono su uno stesso piano, ma contrariamente agli ermetici, è sempre il secondo termine a trascinare e corrodere il primo. Alieno da una condizione di letterarietà, il dettato penniano si svolgerà senza aperte soluzioni di continuità fra il vissuto e la pagina scritta, ma con il viatico di alcune, fondamentali mediazioni che appartengono ormai alla storia di una formazione autodidatta ed eterogenea, con visibili ascendenze europee, tutt'altro che indagata. Con ciò si considerino i diversi livelli dell'intertestualità penniana, dal calco alla citazione alla riscrittura all'imitazione, al fondo di un'assimilazione e di una proteiforme identificazione, che parimenti compongono un Bildungsroman solo parzialmente registrato nei diari e negli appunti in prosa inediti. La letteratura è, per il giovane Penna, l'occasione per ampliare e chiarire i confini di un modello antropologico, entro il quale il suo vitalismo sensuale possa infine riconoscersi alla stregua di un percorso espressivo-conoscitivo; la letteratura (in particolare quella che si snoda dal romanticismo tedesco e inglese al tardo simbolismo francese) si fa strumento di nominazione e agnizione del presente.
Se il mondo dei fanciulli e la sua poesia sono tutt'uno, l'eros penniano si diffonde sia da una dimensione empirica che dalla letteratura che lo individua. L'ascendenza culturale ha quindi indirizzato - e altresì cristallizzato - l'originario, indifferenziato moto platonico di eros e armonia, di laica comunione con l'Essere (che il poeta mutua dal sostrato della spiritualità umbra) verso una pulsione di incessante quest, placabile solo nell'attimo - brevissimo ma non irripetibile - di una rivelazione epifanica, che si accompagna all'apparizione del dio-fanciullo. Quel che ancora una volta si rende visibile, però, è l'ineluttabilità del desiderio.