Stefano Casi
Il teatro di Pasolini


Per Pasolini la necessità della scrittura teatrale si manifesta fin dalla giovinezza accanto a quella della pratica teatrale (di cui, però, non ci occupiamo in questa sede). La prima delle sue dodici opere teatrali è del 1944 (aveva ventidue anni) e risale al soggiorno in Friuli dove Pasolini aveva dato vita a un importante «laboratorio» centrato sul rapporto fra parola parlata e parola scritta. Centrale nel progetto di qualificazione del dialetto come lingua è il teatro, che Pasolini frequenta sia sul palcoscenico, sia sulla pagina. Il suo primo testo teatrale si basa sulla storia di un'antica invasione turca in Friuli vista come metafora dell'attuale invasione tedesca nel nord-est italiano: I Turcs tal Friùl, un atto unico in cui l'autore riprende segni e motivazioni della tragedia greca nell'obbiettivo di fondare una tradizione mitopoietica nel paesino di Casarsa «promosso» a vera e propria polis tragica.

Dopo altre due opere scritte nel 1945 ma andate perdute (ci rimangono solo i titoli e qualche abbozzo di trama: I fanciulli e gli Elfi e La Morteana), Pasolini trasferisce sul teatro nuove riflessioni dedicate a un'auto-analisi profondamente legata a mutamenti esistenziali che l'autore stesso interpreta nel quadro della metamorfosi storico-politica italiana: fine del fascismo, della guerra e della monarchia, e nascita della Repubblica democratica e costituzionale. La nuova opera in quattro atti Il cappellano sarà elaborata da Pasolini in un lungo ventennio (a riprova del valore centrale di questo scritto nel corpus pasoliniano) dal 1946 al 1965, fino alla sua messa in scena con il titolo definitivo di Nel '46! È la storia di un insegnante innamorato di un ragazzo, che attraversa in diversi sogni la propria storia interiore e la storia italiana, fino all'esaltazione della Costituzione repubblicana.

Dopo il trasferimento a Roma, Pasolini stenta a ritrovare una ispirazione teatrale: solo nel 1957 scrive un monologo per attrice dal titolo Un pesciolino. Ma la vera occasione per riaffrontare, anche teoricamente, il teatro è la traduzione dell'Orestiade di Eschilo, che gli viene chiesta da Vittorio Gassman nel 1960. Una traduzione esemplare, modernissima, in cui Pasolini sperimenta nella dimensione orale tutte le sfumature della lingua da lui usata in Le ceneri di Gramsci. Dopo un'altra traduzione (il Miles gloriosus di Plauto con il titolo Il vantone) Pasolini affronta direttamente la prova del palcoscenico con l'atto unico Italie magique, scritto nel 1964 per Laura Betti, beffardo atto di accusa del teatro tradizionale e di quello brechtiano.

Con questo lavoro inizia una nuova riflessione sulla necessità teatrale che - per consapevolezza - riprende la meditazione interrotta dall'epoca del progetto linguistico friulano. Una riflessione sul ruolo del teatro nella società attuale da una parte e, dall'altra, sul rigore tecnico-etico dell'attore. Da tutto ciò nasce nel 1966 il progetto della tragedia borghese in versi che si concretizza nella scrittura di sei opere teatrali intese come strumento più adatto per una fenomenologia della borghesia in crisi: Orgia, Affabulazione, Pilade, Porcile, Calderon, Bestia da stile. La coraggiosa scelta del verso rappresenta la più forte volontà sperimentale in anni in cui la drammaturgia veniva compressa tra la «chiacchiera» intesa come stanco epigonismo del teatro pirandelliano e il «gesto» e l'«urlo» intesi come strumenti principali della neoavanguardia.

La maggior parte della scrittura delle sei tragedie borghesi è concentrata tra il 1966 e il 1968, anni in cui l'impegno teatrale di Pasolini traspare anche altrove, soprattutto nel cinema (si pensi a Edipo re, Che cosa sono le nuvole e Teorema, quest'ultimo concepito originariamente come opera teatrale). Non solo: nel 1968 Pasolini lancia su «Nuovi Argomenti» un clamoroso attacco all'establishment dello spettacolo con il suo Manifesto per un nuovo teatro, volutamente provocatorio fin dal titolo futurista; e nello stesso anno firma la regia di Orgia per il Teatro Stabile di Torino. Ma c'è una tragedia che supera in maniera significativa il fatidico 1968 dopo il quale Pasolini abbandona, apparentemente, il teatro: è Bestia da stile (1966-1975) che, di fatto, prende il posto - sia per gli argomenti, sia per il travaglio creativo - di Il cappellano-Nel '46! nella elezione del teatro a «scena segreta» dell'auto-analisi pasoliniana.


n. due-tre, dicembre 1995 - 1996, n. 1


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