[WM1:] L’aspra stagione – d’ora in avanti LAS – è un libro scritto
a quattro mani da Tommaso De Lorenzis (nome ben noto alla comunità
di Giap) e dal giornalista Mauro Favale.
Né romanzo né saggio né biografia (autentico “oggetto
narrativo non-identificato”), LAS racconta di Carlo Rivolta, giornalista
d’inchiesta, cronista d’assalto, uomo di sinistra, compagno di strada dei
movimenti degli anni Settanta.
Rivolta morì nel 1982, poco più che trentenne, ghermito
dal drago dell’eroina. Morì a Roma, città che aveva raccontato
in tanti articoli apparsi su “Paese sera”, “Repubblica” e “Lotta continua”,
sempre tenendo il culo in strada, per quasi dieci anni vissuti pericolosamente,
incrociando i percorsi dei movimenti, narrando ascesa e implosione del
lottarmatismo, mappando lo spaccio di eroina, descrivendo in anticipo mutazioni
che molti “nomi che contano” avrebbero inquadrato soltanto anni dopo.
Che LAS mi sia piaciuto è palese: in quarta di copertina firmo
un breve testo di presentazione – come suol dirsi, un “blurb” – che a rileggerlo
mi suona poeticante, effettistico… “wuminghistico”, ma almeno richiama
l’attenzione in libreria. Ho buttato giù quelle righe dopo aver
letto una stesura non definitiva del libro. Sapevo che TDL e MF stavano
scrivendo un libro su Rivolta, ma non avevo idea di come stessero lavorando.
A botta caldissima ho scritto un commento e l’ho inviato a Einaudi Stile
Libero, cosa che avrà certamente sorpreso i direttori della collana,
Paolo Repetti e Severino Cesari: nessuno mi aveva chiesto di scriver niente,
il pdf me l’avevano spedito Tommaso e Mauro – non la casa editrice – al
solo scopo di chiedermi un parere. Aggiungo che, presso Einaudi, è
inusuale che una “quarta” sia quasi interamente occupata dal testo firmato
di un altro autore.
Insomma, tutto all’insegna dell’estemporaneità. Tutto… tranne
il metodico, inesorabile lavoro di documentazione e scrittura compiuto
dai due autori. Un lavoro intemporaneo, che merita attenzione e approfondimento
critico.
Quella che segue è una lunga, densa intervista a De Lorenzis
e Favale.
WM1. Quando avete sentito parlare per la prima volta di Rivolta? Chi ve ne ha parlato?
TDL: Una sera, all’inizio della primavera del 2007, a Bologna, acquistai per caso Ali di piombo di Concetto Vecchio, giornalista de «la Repubblica». Confesso che ero prevenuto, perché il libro usciva nel trentennale del ’77, con l’esplicito intento di ricostruire gli eventi di un anno trattato spesso con approccio “feticistico”. Quasi fosse un’anomalia della Storia, slegata da un “prima” e da un “dopo”. Dodici mesi da celebrare più o meno in chiave liturgica, con l’inguaribile malinconia dei reduci. O, all’inverso, e ancora peggio, da maledire per esorcizzarne i fantasmi. Temevo che il prezzo pagato ai rituali dell’anniversario fosse esageratamente alto. In realtà, Ali di piombo muoveva da un dettagliatissimo lavoro di documentazione, incrociava storie diverse e faceva emergere un punto di vista particolare: ovvero la prospettiva dei giornalisti di carta stampata rispetto ai fatti del “doppio 7”. Tra le fonti e i personaggi di Concetto Vecchio figurava un giovane giornalista de «la Repubblica» che – tra il ’76, anno di fondazione del quotidiano, e il 1981 – aveva “coperto” i principali fatti della cronaca italiana: dalla cacciata di Luciano Lama all’agghiacciante vicenda di Alfredino Rampi. Quel cronista, approdato a soli ventisette anni al giornale di Eugenio Scalfari, era Rivolta. Il resto l’hanno fatto la straordinaria scrittura di Carlo e la lucida capacità di analisi con cui raccontò, interpretò, finanche anticipò, fenomeni complessi come la diffusione dell’eroina o la repressione generalizzata nella grande Emergenza di fine Settanta. Mancava un racconto che ne ricostruisse l’esistenza dolente e tormentata in rapporto a una stagione cruciale della storia di questo Paese. Ecco, quello fu l’inizio.
MF: Era l’estate del 2004, stavo facendo uno stage a «Repubblica», quando la sede era ancora quella storica di piazza Indipendenza, a due passi dalla stazione Termini e dalla Sapienza. Nei momenti morti della giornata, mi chiudevo in archivio e spulciavo i primi numeri del giornale. Guardavo le cronache del 1977, un periodo che mi ha sempre incuriosito, di cui volevo sapere di più. Arrivavo dall’università di Bologna, dove il ’77 è – come dire – un mito fondativo. E poi l’anno prima avevo assistito in città alle riprese di Lavorare con lentezza (che uscì proprio alla fine di quell’estate). Insomma, mi misi a sfogliare quei numeri. Leggevo i pezzi di Giorgio Bocca dedicati al Convegno sulla repressione a Bologna, nel settembre di quell’anno. Così scoprii la firma di Rivolta. Poi, in occasione del trentennale del ’77, rilessi il suo nome sullo speciale pubblicato da «Repubblica», sotto le cronache della cacciata di Lama dalla Sapienza occupata. Infine, nell’aprile 2007, a Bologna, in piazza Aldrovandi, al bar degli “Illusi” (un nome, un progetto di vita…), Tommaso mi parlò del libro di Concetto Vecchio e di questo giornalista di “Repubblica” dalla vita breve e pazzesca, terminata tragicamente nel febbraio del 1982. Direi che per me è nato tutto lì.
WM1. Quando avete deciso di scrivere il libro e come vi siete divisi il lavoro? Com’è cresciuto il progetto?
MF. Sono passati mesi: io vivevo già a Roma da un anno e mezzo, Tommaso era ancora a Bologna. Diciamo che non era il momento giusto. Il 30 dicembre 2007, va in onda sulla Rai uno speciale de «La grande storia» dedicato al ’77. Il Tg2 intervistava Carlo Rivolta dopo la manifestazione in cui venne uccisa Giorgiana Masi. È stata la prima volta che abbiamo visto Rivolta in video. [Qui al minuto 33:27, N.d.R.] Dopo capodanno, a Roma, iniziai a recuperare gli articoli di Carlo e, parallelamente, a sentire qualche collega che ci segnalasse altri colleghi, amici, parenti, donne che gli erano state accanto: in altre parole chiunque potesse raccontarci aneddoti su Rivolta, storie di quegli anni, curiosità, fatti. Intanto, in tre mesi siamo riusciti ad avere praticamente la produzione completa di Carlo su «Repubblica». Il progetto è cresciuto così, leggendo i suoi pezzi, avendo un quadro completo della sua vita professionale che, tra la metà dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, ha coinciso con i fatti di cronaca più importanti accaduti in Italia, quelli che hanno colpito di più l’opinione pubblica. Abbiamo pensato che potesse essere un modo diverso per raccontare un frammento di storia italiana da un punto di vista inedito. E quando abbiamo iniziato a parlare con chi l’aveva conosciuto, amato, frequantato, abbiamo capito che questa era anche una storia di passioni forti e di umane debolezze.
TDL: Il confronto con le fonti, dirette e indirette, era imprescindibile
per il tipo di registro che avevamo intenzione di praticare: cioè
quello di una narrazione che poggiasse su documenti, materiali, resoconti.
Va detto che, nel maggio del 2008, furono resi pubblici dal Senato gli
atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani,
sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia. Quegli
incartamenti, in cui figuravano informative di pubblica sicurezza, processi
verbali di testimonio, verbali di sequestro, ci mettevano nella condizione
di avere un “controcampo” tanto prezioso quanto fosco. Cioè di conoscere
la prospettiva degli organi inquirenti e delle forze di polizia. Insieme
agli articoli di Carlo (praticamente la totalità dei pezzi pubblicati
su «la Repubblica» e, a partire dal 1981, su «Lotta continua»),
quei documenti ci consentivano di misurarci con una molteplicità
di punti di vista. Ed è quello che abbiamo fatto con un laborioso
lavoro di montaggio.
LAS non è una biografia in senso stretto. La “camera” non rimane
fissa sull’oggetto del racconto, ma si sposta di continuo su comprimari
e comparse, personaggi secondari e “personaggi storici”, se volessimo usare
un’espressione da romanzo. Peraltro, nella struttura del libro, uno dei
tre piani narrativi, che si sviluppano in alternanza secondo una sequenza
A-B-C/A-B-C, è rappresentato da una selezione di articoli di Rivolta.
Quindi potremmo dire che il protagonista del narrare diventa anche voce
narrante. Questa ricerca ossessiva delle inquadrature e della loro successione
ci ha impegnato in sessioni lunghissime. La definizione della scaletta
è stata la vera scommessa. Non ci interessava un’esposizione lineare.
Volevamo puntare sulla coralità e l’effetto centrifuga. Ci sembrava
l’unico modo per restituire la plastica aderenza al contesto temporale,
perché – alla fine – l’elemento decisivo è proprio il tempo,
il momento, la congiuntura, che la vita di Carlo Rivolta consente di narrare.
WM1. Avete avuto segnali ostili, riscontrato chiusure? All’inverso: ci sono stati incoraggiamenti particolari, di cui può essere interessante riferire?
MF: Di segnali ostili non mi ricordo. Ricordo, invece, lo sprone arrivato da Filippo Ceccarelli e Carlo Bonini ai quali, nell’estate del 2008, a «Repubblica», raccontai del libro. Anche per loro, quella di Rivolta era una vita, una storia da raccontare. È stato un incitamento importante per andare avanti quando non avevamo ancora idea di cosa potesse diventare questo libro, né un editore a cui parlarne.
TDL: Non ci sono stati atteggiamenti di ostilità. Parlerei piuttosto di una gran fatica, perché interloquire con chi ha conosciuto Rivolta, sollecitarne la memoria, è stato doloroso. Per tutti. Ricordo che a Trebisacce, in Calabria, quando incontrammo Lilli Chidichimo, la madre di Carlo, ci venivano proposte con insistenza – in un surreale rovesciamento dei ruoli tra intervistata e intervistatori – due domande: «Come sarebbe Carlo oggi? Da che parte starebbe?». Un what if spaventoso: anche perché il riferimento era alla collocazione governativa o antigovernativa in tempi in cui il berlusconismo era imperante e la destra aveva stravinto le elezioni. Anche a Roma, peraltro.
WM1: Nella terra di mezzo tra ostilità e incoraggiamento, esiste la vasta zona del silenzio, dell’indisponibilità. Eugenio Scalfari ha cortesemente declinato la vostra richiesta di intervista, e la casa editrice non ha avuto più successo di voi nel sollecitare “una frase, un rigo appena” su Carlo Rivolta o sul vostro libro.
TDL: Il silenzio di Scalfari lo interpreto in termini di riserbo comprensibile e legittimo. Ovviamente l’assenza di una testimonianza diretta da parte di colui che aveva voluto Carlo al giornale fin dagli inizi ci ha spinto a una precisa soluzione di ordine narrativo. Nel libro, il Fondatore “parla” solo ed esclusivamente sulla base dei suoi articoli o di interventi pubblici di altra natura. Alla fine viene fuori una “distanza” simbolica, una certa aura epica, assimilabile alla caratterizzazione che – nella letteratura romanzesca – è propria dell’archetipo del Grande Vecchio.
WM1. Ho letto questo libro in bozze quando ancora s’intitolava Piombo quotidiano, gioco di parole che evocava al tempo stesso la tipografia e le armi da fuoco, e faceva il verso al cliché degli “anni di piombo”. Un bel titolo, ma forse troppo sbilanciato sugli anni Settanta, quando per me la parte più rivelatrice e intrigante del libro è quella di transizione tra i due decenni, i Settanta e gli Ottanta. Dal caso Moro alla vittoria nel Mundial del 1982. Il titolo definitivo parla di una “aspra stagione”, ed è più ambivalente, perché il riferimento immediato è sempre agli anni Settanta, ma in seguito, gironzolando nella testa, l’espressione si arricchisce di riverberi, perché in effetti fu stagione ben aspra, anzi, ben più aspra quella di transizione, tra riflusso, sconfitta operaia, eroina a fiumi, pentitismo e carceri speciali, craxismo e “pentapartito”, Reagan e la Thatcher, ascesa del berlusconismo culturale, abolizione della “scala mobile” sui salari… Temo però che la maggior parte dei commenti e delle recensioni si concentrerà sugli anni Settanta, dando una rappresentazione molto parziale del libro. Condividete questo timore?
TDL e MF: Assolutamente, sì: condividiamo il timore di una lettura
sbilanciata sui Seventies. Allora diciamolo chiaramente: LAS non è
un libro sugli anni Settanta se per anni Settanta intendiamo quel periodo
che comincia col ’68, o – ancora meglio – col ’69 operaio, e arriva fino
al 1980. Piuttosto è un libro sull’uscita dagli anni Settanta, sui
mille modi per tirarsi fuori da un’epoca. È questo che lo rende
tragico, forse nero, perfino al di là di Carlo Rivolta. Perché
l’uscita da quella fase è costata la vita, oppure l’anima. In troppi
hanno perso la prima. Molti si sono venduti la seconda. In questo senso
il libro, secondo noi, rientra nel filone dei racconti dedicati alla Transizione,
cioè agli sfuggevoli punti del continuum in cui si consuma un trapasso.
Indicativamente l’“aspra stagione” potrebbe essere compresa tra la
mattina del 16 marzo 1978, quando viene rapito Aldo Moro, e l’11 luglio
del 1982, quando Dino Zoff alza la coppa d’oro col globo per celebrare
la vittoria della nazionale italiana al mondiale di football in Spagna.
Questo vale nonostante l’arco temporale della narrazione cominci prima
attraverso il meccanismo del flashback: nel 1973 per l’esattezza, quando
Carlo era un giovanissimo cronista di «Paese Sera».
In quel lustro si compie – almeno a nostro avviso – la fine della prima
Repubblica, della Repubblica uscita dalla Resistenza, con i suoi partiti
di massa, la grande fabbrica, la centralità operaia, un preciso
statuto del politico e via dicendo. Ed è anche il momento in cui
si manifesta l’inversione di tendenza, il ribaltamento dei rapporti di
forza, l’offensiva liberista che in Italia assume le forme del craxismo.
Se la consideriamo in questi termini, quella stagione non è mai
finita, coincidendo con la genesi dell’Italia contemporanea, quando le
possibilità vengono scartate una dopo l’altra, gli eventi prendono
una determinata piega e la Storia scandisce il suo corso. È l’eterno
presente, il passato che ritorna, di cui abbiamo provato a scrivere. In
altre parole: l’origine dell’oggi. Al di là dell’alternanza tra
fasi ritenute espansive e congiunture recessive, al netto della Milano
da bere, di Tangentopoli, della discesa in campo dell’imprenditore milanese
e delle bolle speculative, per trent’anni abbiamo sperimentato le medesime
politiche di attacco al lavoro, disintegrazione dei diritti, devastazione
del pubblico e dannazione di un’idea di società. Anzi: queste politiche
sono cambiate nella misura in cui sono mostruosamente cresciute d’intensità.
Per non parlare degli uomini che hanno praticato o legittimato ideologicamente
le ricette in questione. E non a caso sono alcuni dei comprimari – o delle
comparse – del libro.
Va anche detto che abbiamo scritto alla fine degli anni Zero, in un
momento in cui il quadro politico sembrava definitivamente chiuso ed era
lontanissimo il ricordo del ciclo di lotte e mobilitazioni che avevano
segnato l’inizio del decennio. Mentre lavoravamo a LAS esplodeva la bolla
dei subprimes e si palesava la crisi finanziaria internazionale. In Europa
e in Italia si sceglieva l’opzione di uscita a destra. Insomma, la delusione
era forte e una storia come quella di Carlo aiutava a misurarsi con un
certo sconforto.
Oggi, in tempi di guerra al debito sovrano, di «sacrifici»,
di uso politico della crisi – come avremmo detto una volta –, certi riverberi
tra epoche sembrano quasi riflessi, con l’aggravante che viene esplicitamente
palesato lo scenario di un superamento del modello welfaristico continentale.
Un vero e proprio regolamento di conti in stile western. Sempre più
aspro. Un salto nel passato che vuole ricacciarci – una volta per tutte
– a prima del XX Secolo.
Per questo abbiamo provato a cogliere il punto in cui tutto ciò
è cominciato: per capire come abbiamo fatto ad arrivare fin qui.
WM1. Si può dire che la parabola umana, giornalistica e politica di Carlo Rivolta sia per “Repubblica” – intesa come rappresentazione che il giornale dà di sé – uno scheletro che sta mezzo dentro e mezzo fuori dall’armadio? Il giornale continua a ripubblicare, a ogni iniziativa speciale in corrispondenza di anniversari, i suoi pezzi sul ’77 e sul caso Moro, però su tutto quel che venne dopo (e stava attorno) quei reportages, è calata una cappa di silenzio durata trent’anni spaccati: l’eroina, il disagio di Rivolta dentro il giornale, il suo isolamento, la firma per “Metropoli”… C’è una contraddizione interessante: la narrazione dei “glory days” del giornale, la continua rievocazione che il giornale fa della sua storia, non può in alcun modo omettere quei pezzi di Carlo, perché sono essenziali – anzi, quintessenziali – e definiscono una stagione, ma Carlo stesso, per evidenti motivi, non è potuto assurgere allo status di “eroe”, non è nel pantheon. Pensate succederà qualcosa, ora che avete scritto questa biografia narrativa, centrifuga e spiazzante?
MF: Io credo che un giornale non sia un organismo rigido, fisso. Tutt’altro,
è una struttura complessa, in cui i momenti di rievocazione della
propria storia e l’uso del suo passato sono frutto di un processo che si
modifica nel tempo. E soprattutto sono saltuari, non puntuali o ricorrenti.
Per questo non credo che si possa parlare strutturalmente di Pantheon né
di una galleria di eroi dentro «Repubblica» di cui Rivolta
non farebbe parte. E poi bisogna ricordare che quando morì, non
ci fu l’oblio. Fu commemorato in un pezzo-necrologio molto onesto, quando
già non lavorava più al giornale di via Indipendenza. Due
anni dopo Giampaolo Pansa, che di «Repubblica», in quel periodo,
era vicedirettore, scrisse un lungo articolo per ricordarlo, menzionando
perfino la vicenda della firma di«Metropoli», la controversa
testata costituita da ex-dirigenti di Potere operaio e leader dell’Autonomia
come tentativo di ricomposizione politico-culturale. «Metropoli»
era costretta a cambiare direttore responsabile a ogni uscita. Il terzo
numero della testata, pubblicato nel febbraio del 1981, era firmato da
un giornalista di «Repubblica» regolarmente iscritto all’albo:
quel giornalista era Rivolta. Carlo era nettamente ostile all’area dell’Autonomia.
La rottura si era consumata nel ’77 e si era approfondita col tempo. In
passato c’erano stati screzi e scazzi pesanti. E tuttavia Rivolta è
sempre stato accorto a non identificare le opzioni strategiche del partito
armato con le posizioni – anche quelle più ambigue – dell’Autonomia.
La sua particolare cultura libertaria, movimentista, creativa, lo spinse
ad accettare di apporre una firma scomoda, che gli costò un mese
di sospensione dal giornale. Intendiamoci: si trattò di un provvedimento
del tutto simbolico, destinato a rientrare a strettissimo giro. Il punto
non è il provvedimento in sé, bensì che quell’impasto
culturale, magmatico e ultragarantista, dopo Moro, non trovava più
spazio.
Detto questo, sicuramente è vero: Rivolta, fuori dal giornale,
è rimasto nella memoria di tanti amici e lettori di allora. Forse,
solo lì. Se però parli con chi c’era allora, trent’anni fa,
in tanti qui al giornale ricordano il suo ruolo, l’aiuto che dette all’affermazione
del quotidiano in ambienti “nuovi” e, cosa mai trascurabile, l’aumento
delle copie vendute anche grazie alle sue cronache. Probabilmente dovevano
passare tre decenni per raccontarne la vita e rompere un silenzio che non
mi sento di attribuire al suo essere una figura “scomoda”. La verità
è che, come racconta spesso un mio amico, «le redazioni (i
luoghi di lavoro in generale, aggiungo io) possono generare anche profonda
infelicità». Ecco, forse c’è stata anche questa infelicità
di fondo nella vita di Rivolta che ha contribuito a far calare il silenzio
sulla sua vicenda.
TDL: Partirei da una citazione di Eugenio Scalfari che chiarisce il
problema dell’identità di un mezzo di comunicazione e della rappresentazione
che esso ha di sé: «Un giornale, come una persona e una comunità
è soggetto a molti mutamenti che vanno di pari passo col cambiare
del mondo che ci circonda e delle condizioni che ne derivano. Ma c’è
per ciascuno di questi soggetti una continuità di memoria storica
e quindi di identità; il Dna di un giornale non cambia anche se,
per operare in presenza di mutate condizioni, gli strumenti che usa sono
in costante trasformazione». Queste parole rendono bene il processo
aperto che definisce la natura di un medium e che regola – nell’alternanza
di conservazione e mutamento – il rapporto col proprio passato. O meglio:
l’impiego del proprio passato. Sul versante della «continuità
di memoria storica» uno dei miti fondativi della testata è
rappresentato dal sostegno alla linea della fermezza nei giorni del rapimento
di Moro. Ne esistono altri, corrispondenti ad altre stagioni, ed esistono
perfino i miti fondativi dei detrattori de «la Repubblica»:
ad esempio la nota tesi del «giornale-partito» che, peraltro,
è coeva o di poco successiva alle vicende del 1978. È chiaro
che ogni scelta identitaria implica meccanismi di elisione. Carlo Rivolta,
ma più in generale i primi due anni de «la Repubblica»,
rimangono spesso dall’altra parte del “muro” eretto a ridosso dell’affaire
Moro. È un problema di uso del passato. Io parlerei di dialettica
aperta più che di circoscrizione di un ambito ideale ed “eroico”
in cui figurano le grandi firme.
Provo a fare un esempio: lo scorso 29 gennaio è uscito un editoriale
di Scalfari intitolato «Una lettera per la Camusso che viene da lontano».
L’articolo comincia con una lunga citazione da un’intervista che lo stesso
Scalfari aveva fatto a Luciano Lama nel gennaio del ’78. Il segretario
della CGIL teorizzava il contenimento della politica salariale, la possibilità
di licenziare gli esuberi, la necessità di inaugurare una fase di
sviluppo e la richiesta, rivolta alla classe operaia, di assumersi – nel
segno di un grande programma di solidarietà nazionale – l’onere
dei sacrifici. Queste parole di Lama vengono messe in relazione all’unità
sindacale che rappresentò il vero baluardo contro il partito armato.
Quindi, nella prospettiva storica, sono immediatamente ricondotte al mito
fondativo di cui dicevo prima. Al netto del giudizio di merito, della condivisione
o meno del contenuto, questo è un esempio di uso politico della
memoria che ne esclude inevitabilmente altri.
È evidente che il gioco dei corsi e ricorsi funziona fino a
un certo punto. Si può sempre dire che il 2012 non è il ’78,
che Susanna Camusso non è Luciano Lama, che l’odierna composizione
di classe non corrisponde a quella di fine Settanta, eccetera. Oppure,
il lettore che da più di quindici anni compra ogni mattina il giornale
ha guadagnato il diritto di prodursi in una diversa continuità di
memoria storica. E quindi, sempre a proposito di riverberi tra epoche e
riguardo a operazioni che tendono a blindare il quadro politico, a spazi
di governabilità con maggioranze parlamentari del sessanta, settanta
per cento o a convergenze che escludono e marginalizzano soggetti sociali,
io citerei un monito lungimirante di Scalfari, redatto poco tempo prima
della manifestazione del 12 marzo ’77 a Roma:
«Scrivemmo qualche giorno fa che quanto stava accadendo tra gli studenti non era un temporale di primavera ma una cupa tempesta. I fatti purtroppo ci danno ragione. Ma i fatti rimettono in discussione molte cose. E, in primo luogo, la strategia del compromesso storico. Non sottovalutiamo la serietà di quella strategia ma poniamo una domanda: come coinvolgere una gioventù disperata e condannata alla disoccupazione in un progetto di rinnovamento sociale che abbia come consoci le vecchie classi dirigenti, logorate e corrotte da trent’anni di esercizio del potere?».
WM1. Scalfari contra Scalfari, acuire la contraddizione… Con roba del
genere m’inviti a nozze, lo sai. A questo proposito: un tratto vistoso
del giornalismo di oggi è la mancanza di persone come Rivolta, che
in realtà ci sono, esistono (basterebbe cercarle nello stuolo di
precari delle redazioni locali!), ma i giornali non sanno di averle a disposizione,
o non gliene frega niente, quindi non se ne avvalgono, o se ne avvalgono
molto male. I grandi giornali (“Repubblica” compresa) non hanno “sensori”
nei movimenti, figure che siano parte integrante di quella composizione
sociale e quindi possano fare “participant observation“, scrivendo con
il linguaggio adeguato, facendo parlare le fonti vive etc. Io credo che
la copertura che i giornali danno delle lotte odierne, dai No Tav alle
occupazioni all’antifascismo militante, sia sempre mediocre e spesso terribile,
proprio sotto l’aspetto giornalistico (sotto quello politico vabbe’, che
ve lo dico a fare?). La stampa oggi è parecchio lontana – linguisticamente,
psicologicamente – dalle strade e dalla piazza (che non è un luogo
fisico, ma un universo di riferimenti). Voi cosa ne pensate?
TDL: Il problema del rapporto tra movimenti e mezzi di comunicazione rappresenta – a mio avviso – uno dei principali termini di paragone su cui è possibile misurare l’arretramento che abbiamo scontato negli ultimi sette, otto anni. Ora, è evidente che le lotte non si giudicano mai, per definizione. Una lotta la si fa, e basta. E così si contribuisce a definirne le forme, gli slogan, le parole d’ordine, le pratiche, le tecniche di comunicazione. Tuttavia, è impossibile non ammettere che s’è smarrita la capacità d’interagire conflittualmente con i media mainstream. Basta pensare alle differenze tra ciò che accade oggi e il ciclo di mobilitazioni dei primi anni Zero: quello, per intenderci, che cominciò con la “battaglia” di Seattle e si concluse indicativamente con la manifestazione planetaria contro la guerra preventiva dei neoconservatori, il 15 febbraio 2003. Io non credo che, sul versante dell’informazione, la situazione sia peggiorata rispetto a quella fase. Credo che si sia smarrita la capacità di rovesciare certe inquadrature, di sottrarsi agli stereotipi, di sfuggire alla rappresentazione più ovvia e scontata. È un intero apparato linguistico e simbolico che è saltato. E ovviamente è saltata pure la politica che consentiva di tenere insieme certi linguaggi e certi simboli. Insomma, senza il minimo giudizio morale, dico che a ogni forma di lotta corrisponde un modo di comunicare. E in questo caso considero prevalenti – e assai più preoccupanti – i limiti di ordine soggettivo.
MF: C’è un problema di riconoscimento da parte dei movimenti nei confronti dei giornalisti. Siamo tornati indietro di anni, a quando con i media non si parlava, a quando il conflitto era frontale. La colpa? È vero, probabilmente c’è superficialità nel raccontare certi mondi, imprecisione cronica, scarsa voglia di approfondire, poca curiosità. C’è lontananza, anche. Trent’anni fa, «Repubblica», per dire, “reclutava” i suoi cronisti tra chi aveva fatto determinate esperienze, tra chi conosceva meglio certe realtà: era un modo per avere una sonda più profonda in determinati ambienti. Ora non è più così, praticamente per nessuna testata. Allora la cronaca era una sorta di osservazione partecipata che però, va detto, non era accolta tanto meglio nei circuiti di movimento. Rivolta con i suoi pezzi, per esempio, si ritrovò a essere avversato anche da chi lo riconosceva come un compagno. L’internità, ad un certo punto, diventa esternità. Il problema sono le forme espressive con le quali il movimento viene raccontato e si racconta. Non c’è alcuna mediazione, sono forme comunicative che tra loro non hanno rapporti. Non c’è riconoscimento, insomma. E questo ritorna oggi anche perché sono venute meno le parole d’ordine di dieci anni fa: «Don’t hate the media, become the media». Ora nei cortei c’è tensione, i giornalisti (soprattutto quelli con le telecamere) sono visti come nemici o, peggio, amici della questura. Non è facile colmare questa distanza. Ci vuole tempo, credo. Tanto studio e pochi pregiudizi.
WM1. Per concludere, vorrei sentirvi commentare uno dei testi più
belli e dolorosi che avete incluso nel libro: la lettera in cui Carlo,
non molto tempo prima di morire, rivolgendosi a Enrico Deaglio, cerca di
spronarsi a ripartire vagheggiando (ma… vagheggiandola nei minimi dettagli!)
un’inchiesta sui giovani del Sud. Quella lettera mi ha impressionato: ha
la forza rivelatrice di un ossimoro misterioso, un ossimoro del quale si
avverte l’effetto contraddittorio ma non si saprebbero indicare con precisione
gli elementi che cozzano tra loro per produrlo. E’ una lettera vicinissima
al nostro presente, ed è una lettera distantissima dal nostro presente.
TDL & MF: Quella lettera è datata 14 dicembre 1981 e, nella
sua natura intimamente contraddittoria, suona davvero straziante. Carlo
la scrive due mesi prima di morire, in uno dei tornanti più bruschi
dell’aspra stagione. Senza svelare troppo del libro, diciamo che quelle
righe – redatte all’estero e indirizzate a Deaglio – sono cariche di ottimismo,
fiducia e speranze che cozzano platealmente con la situazione italiana
dei primi Ottanta e con lo stesso tono cui Rivolta ci ha abituato. Le sue
analisi più lucide sono sempre anticipazioni – fosche, cupe, grevi
– di ciò che sta per accadere, o accadrà. Invece, nel caso
della lettera, semplicemente sbaglia: prima di tutto su se stesso, confidando
in una svolta esistenziale, che purtroppo non si darà, e poi immaginando
un cambiamento, una possibilità di rilancio politico, i cui margini
– in quel momento – erano clamorosamente ridotti, se non del tutto inesistenti.
Eppure, anche in quell’occasione, intuisce – prima di altri – la necessità
di guardare a sud: lui, che aveva composto grandi articoli sul Mezzogiorno,
tra cui i memorabili reportage dall’Irpinia devastata dal sisma. Rivolta
propone al suo direttore un progetto di grandi inchieste sulle città
meridionali: Napoli e Bari, in primo luogo. È interessato a comprendere
la condizione dei soggetti marginali, i danni irreparabili che sono stati
inflitti a quelle terre e le scommesse da avanzare su un «quadro
sociale nuovo per sottrarlo alla mafia, alla disperazione, alla delinquenza».
È un approccio che – senza dubbio – coglie con anticipo la centralità,
narrativa e trasformativa, di una geografia, di un universo, di assetti
produttivi dominati dal capitale illegale o translegale, delle connivenze
tra questi interessi e il sistema politico. Peraltro è un approccio
documentato dalle stesse cronache che Rivolta ha redatto come inviato al
sud fin dai primi tempi di «Repubblica». Questa consapevolezza,
tuttavia, cozza con l’auspicio che da lì potrà iniziare a
tirare uno «scirocco impetuoso di proposte e di possibili legami».
Carlo immagina di conquistare a «Lotta continua» «la
massa dei giovani progressisti calabresi e lucani, che sentono già
la muffa nelle aule di Arcavacata». Invece sappiamo che non andrà
in quella maniera. «Lc» chiuderà sette mesi più
tardi. Gli anni Ottanta, soprattutto al Sud, saranno il decennio del grande
saccheggio da parte dei potentati politico-mafiosi. Al posto di un vento
impetuoso graverà l’immobilità della bonaccia. E Rivolta
morirà due mesi più tardi. Forse, è l’accostamento
tra questi opposti a produrre la percezione di ossimoro misterioso che
rilevi. Al cronista, sempre impeccabile nel cogliere il rapporto tra presente
e futuro, difetta – in questo caso – l’interpretazione dell’immediato,
benché permanga intatta la lettura prospettica di lungo periodo.
Tre settimane dopo l’invio di quella lettera, di ritorno a Roma, Carlo
ritroverà i toni di una lucidissima amarezza, commentando la situazione
con le parole: «non cambia nulla in città». Un epitaffio
che accompagnerà gli ultimi giorni della sua vita.