Il taglio del Settantasette
Ripubblicato da DeriveApprodi, con una nuova introduzione, il volume
collettivo «Settantasette». Per sfuggire alla costante demonizzazione,
ma anche al culto nostalgico di quell'anno «terribile»
Che sul Settantasette cada finalmente il sipario, perché il
culto della memoria - poco importa se apologetico o denigratorio - impedisce
sempre di comprendere il presente, le sue contraddizioni e le potenzialità
di trasformazione che accompagnano l'agire collettivo. E se è noto
il refrain dei soliti opinion makers - da Michele Serra a Vittorio Feltri,
la differenza di chi impugna il «diabolico» Settantasette per
mettere a tacere i movimenti sociali attuali è solo nell'uso degli
aggettivi -, all'interno del pensiero critico è altresì radicato
un sentimento malinconico di chi invoca, fuori tempo massimo, un ritorno
del «mirabile» Settantesette. Su quella stagione politica vale
perciò applicare una delle tesi sulla filosofia della storia di
Walter Benjamin che invitava a diffidare dello storico che minuziosamente
annota i particolari delle vicende passate, perché così facendo
sta svolgendo la storia dei vincitori. E se questo lo fa il Giampaolo Pansa
di turno poco importa. Il problema nasce se questa attività coinvolge
il militante radicale, perché la sua ricostruzione amanuense del
passato si svolge sempre all'ombra dei vincitori di ieri e di oggi. La
speranza, dunque, è che su quella stagione politica cali finalmente
il sipario per avere la libertà di leggere il presente storico senza
l'ipoteca di una sconfitta che sicuramente ha rappresentato uno spartiacque
nella cultura politica radicale di questo paese.
Prova a farlo è il volume Settantasette (DeriveApprodi, pp. 420, € 20), uscito alcuni anni fa e ripubblicato recentemente con una nuova introduzione di Sergio Bianchi, che con pacata fermezza spiega il perché non possa essere stabilito nessun filo rosso tra l'attuale «movimento contro la globalizzazione» e quella stagione politica. E' un libro che dichiara subito il suo obiettivo: si possono pure mettere a confronto nel libro posizioni e ricostruzioni diverse e spesso opposte, di chi allora parlava di «garantiti e non garantiti», di «operaio sociale» e chi, invece, evocava il «diciannovismo», ma a patto di affermare con forza che quel movimento ha anticipato ciò che sarebbe divenuto norma nel decennio successivo. Attenzione, però: nei dieci anni successivi, non da allora all'eternità.
In primo luogo, il diffuso rifiuto del lavoro (salariato: mai aggettivo è stato più appropriato) avrà come esito una dilatazione numerica del lavoro autonomo, che impropriamente il maître-à-penser del cattolicesimo democratico Giuseppe De Rita ha chiamato «imprenditorialità diffusa». Ma anche che la critica aspra alla democrazia rappresentativa si tradurrà nell'implosione dei grandi partiti di massa e nella crescita delle aggregazioni sociali e politiche «senza partito». Infine, che nel Settantasette una composizione sociale della forza-lavoro segnata da un buon decennio di acculturazione di massa ha fatto rumorosamente ingresso nella scena politica. Per questo, tutti gli autori, anche se con accenti diversi, sottolineano certo gli elementi di continuità, ma soprattutto le diversità e i punti di frattura tra il Settantasette e il Sessantotto. Ovviamente, in questa, per altro condivisibile analisti centrale è il suo rapporto con la cultura politica del movimento operaio.
Mai, infatti, come in quell'anno il conflitto con i partiti della sinistra ha raggiunto livelli di così alta intensità. Nel volume non si nasconde che proprio sull'impossibile incontro tra il sindacato, il Pci e il movimento si sono addensati gran parte degli elementi problematici del Settantasette. Non tanto perché gran parte dei contributi considerano quel mancato incontro un'occasione perduta, ma perché il Settantasette è stato il segnale politico di un mutamento profondo della società italiana. Alcuni studiosi hanno liquidato gli anni Settanta come un decennio di seconda modernizzazione, rimuovendone così gli elementi tellurici, conflittuali, di politicizzazione della vita quotidiana: fattori che hanno investito proprio la cultura politica della sinistra italiana. La critica al lavoro (salariato), la contestazione dei partiti esprimono bene questa «rivoluzione molecolare» del capitalismo italiano, ma nel Settantasette entrano in rotta di collisione proprio con i partiti che hanno rappresentato nel senso comune l'alternativa politica al capitalismo. In altri termini, la rivoluzione invocata dal movimento individua nella sinistra - il suo culto dell'etica del lavoro e dello stato - uno dei pilastri del capitalismo italiano. Un'analisi condivisibile, ma che pone una domanda: perché mai un movimento che dà parola a stili di vita, comportamenti collettivi decisamente indifferenti se non ostili alla cosiddetta «diversità del partito comunista» declina le sue proposte e progetti politici con un linguaggio invece interno alla tradizione comunista?
Non è certo una novità che un movimento sovversivo usi la tradizione per affermare contenuti politici e sociali in assoluta discontinuità con quella stessa tradizione. L'assalto al cielo del Settantasette cade però rovinosamente nella terra di nessuno della repressione e di una deriva «combattente» destinata alla sconfitta. Il volume della DeriveApprodi dà conto di tutto questo, evitando però un culto della memoria che rende ciechi e sordi. Nell'introduzione Bianchi sostiene, con ragione, che l'unica eredità possibile di quella stagione riguarda il nodo dell'organizzazione, cioè il «pensare la politica» nella contingenza dello conflitto: cioè, come sostiene Alain Badiou, di pensare una «politica senza partito». Ben venga dunque calato il sipario su quella stagione politica, perché la storia è andata avanti e altri sono i protagonisti e le poste in gioco. Il Settantasette ha semplicemente segnato una cesura, il resto riguarda la necessità di sovvertire la storia dei nostri giorni.
Benedetto Vecchi, "Il manifesto", 24 dicembre 2004