Ci sono molti modi di leggere, a distanza di trent'anni, gli avvenimenti
del 1977. A partire dalle mega analisi di struttura fino ad arrivare all'intimismo
delle lettere dei lettori a "Lotta Continua". Il mio contributo odierno
vuol essere semplicemente di introduzione alla comprensione di un movimento
ampio, straordinariamente ricco e complesso, che ha segnato in modo assolutamente
significativo la vita di migliaia e migliaia di persone e che ha rappresentato
un punto di non ritorno nelle vicende sociali e politiche di questo paese.
Sono passati ormai pochi giorni dall'anniversario di quel 17 febbraio
1977 alla Sapienza di Roma, dove Lama, uno dei più rappresentativi
esponenti che la CGIL abbia mai avuto, si misurò con la determinazione
di quanti, da sinistra, mal sopportavano la politica di PCI e sindacato
provocandone la pronta ritirata dopo uno scontro fisico con il suo servizio
d'ordine.
Quella data è stata assunta come data d'inizio del "movimento
del '77". In realtà per capire il 1977 dobbiamo per forza rifarci
agli anni precedenti quando, dopo la sconfitta del tentativo apertamente
autoritario culminato con la strage di piazza Fontana e l'involuzione burocratica
del movimento d'opposizione, il persistere della crisi economica e sociale
del paese assume chiaramente caratteri di tipo strutturale, legati al modo
di produzione capitalistico, investendo le basi stesse dell'apparato statale.
La destabilizzazione del quadro sociale e politico è un dato di
fatto sul quale concorrono fattori sia esterni (la crisi petrolifera e
la saturazione dei mercati di riferimento) che interni (la produttività
del sistema e lo stato "sociale").
La risposta padronale a questa crisi passa attraverso una nuova organizzazione
del lavoro dentro la fabbrica basata sul concetto di flessibilità
che viene imposta con l'attacco alle conquiste del '69, all'egualitarismo,
agli automatismi, alla cosiddetta "rigidità", sviluppando nel contempo
automazione e decentramento. Nei servizi invece il tema della produttività
diventa centrale insieme al blocco delle assunzioni. L'aumento dei costi
e delle tariffe, la compressione dei consumi, l'erosione del potere d'acquisto
del reddito dipendente, ne diventano le logiche conseguenze.
Le mediazioni politico istituzionali tra DC e PCI, tra capitale e lavoro,
che fino allora avevano consentito al sistema italiano di uscire dalle
devastazioni della guerra e di ricostruirsi, evitando e sconfiggendo le
pulsioni rivoluzionarie di ancora tanta parte del mondo operaio e contadino,
sono messe a dura prova dalle accelerazioni del mercato globale.
Per uscirne, i due principali partiti di governo e d'opposizione ridefiniscono
i loro rapporti sulla base del riconoscimento dell'oggettività della
crisi, dei valori dell'economia di mercato, della difesa dell'interesse
"nazionale". Il tema dell'austerità diventa un tema centrale nella
"predicazione" dell'allora segretario del PCI Berlinguer, per convincere
i lavoratori alla moderazione salariale, come pure il tema del "compromesso
storico" - avanzato dopo il colpo di stato in Cile – viene sbandierato
per convincerli ad abbandonare il terreno dell'autonomia di classe per
diluirsi in un generico fronte progressista contrapposto al fronte reazionario,
identificato nei settori più duri del padronato e del vetero fascismo.
In realtà quello che si andava prefigurando era un vero e proprio
processo di ridefinizione dei rapporti fra le classi. E i risultati si
vedono presto. Espulsione di migliaia di operai dalle fabbriche, uso massiccio
della cassa integrazione per favorire i processi di ristrutturazione, criminalizzazione
delle forme di lotta operaia, licenziamento dei militanti più attivi:
l'erosione del peso storico delle classi lavoratrici tradizionali diventa
sempre più significativo.
Intanto però nuovi settori sociali, a fronte di una situazione
sociale caratterizzata da una disoccupazione crescente e da una distribuzione
del reddito sempre più diseguale, si fanno avanti, diventando protagonisti
di una conflittualità che, sganciata da quella operaia di pura resistenza
interna, si allarga sul territorio. Dipendenti pubblici (ospedalieri e
precari della scuola in primis), giovani disoccupati, universitari senza
sbocchi occupazionali, diventano i protagonisti di lotte fuori dalle "compatibilità"
e dai compromessi istituzionali. I partiti di sinistra, i sindacati, non
sono più i referenti di questi soggetti che praticano forme di lotta
e di organizzazione che si richiamano inconsciamente più all'esperienza
del sindacalismo rivoluzionario, del consiliarismo, che a quella del terzointernazionalismo
bolscevico.
Nel giro di pochi anni prese corpo un movimento, definito dei "non
garantiti" - in quanto estranei alle pur ridotte garanzie dei dipendenti
"classici" - incompatibile con regolamentazioni e compromessi, mosso dai
bisogni immediati da soddisfare, libero da controlli partitici e sindacali,
con obbiettivi quali l'occupazione di case, la realizzazione di spazi autogestiti,
l'autoriduzione delle tariffe, il controllo del territorio tramite le ronde,
tutte espressioni di una pratica illegale di massa.
Ed è proprio la qualità di questi obiettivi ed il modo
con il quale andavano perseguiti che permettono di capire quanto di antiistituzionale
vi fosse in questo movimento, quanto fossero rifiutate le forme tradizionali
della rappresentanza e della delega, e quanto l'azione diretta e l'autoorganizzazione
ne fossero gli strumenti di espressione principale. Un movimento che fu
diffuso, decentralizzato, osmotico ma anche spasmodico.
Il 1977 fu il suo anno, della sua più alta conflittualità,
della sua manifestazione di potenza e, nel contempo, della dimostrazione
della sua intrinseca debolezza. L'insurrezionalismo di piazza visse allora
il suo momento, ma dimostrò nel contempo l'incapacità o,
forse, l'impossibilità di diventare motore del cambiamento rivoluzionario
della società di allora.
Da una parte le nuove leve del movimento, a partire dal 1975, si sono
già dimostrate fortemente critiche ed insofferenti nei confronti
di una militanza, figlia del '68, nei gruppi della sinistra extraparlamentare,
fatta di alienazione, di gerarchia, di burocratismo, tipica delle aggregazioni
verticaliste, dall'altra, gran parte di questi gruppi non solo sono incapaci
di entrare in dialettica con questo movimento, ma propongono modalità
e proposte di intervento che non nascono dalla lettura reale della sua
composizione sociale bensì dall'illusione ideologica nella capacità
della forzatura volontaristica di stabilizzare i livelli di coscienza di
classe raggiunti.
E mentre l'iniziativa di massa si propaga nelle piazze, nei centri
sociali occupati, registrando al suo interno forme particolarmente vive
e creative, come gli indiani metropolitani, o totalmente innovative legate
alle esperienze del femminismo, ed il libertarismo riprende presenza e
sostanza, si affianca ad esse la prevaricazione soggettivista e militarista
che tende a ridurre la dialettica tra minoranze e massa ad un mero assolvimento,
da parte di quest'ultima, dei compiti indicati dalle prime. Come conseguenza
abbiamo la divaricazione tra gran parte del movimento reale e le sue presunte
avanguardie che, in base agli sviluppi della loro analisi incentrata sull'ipotesi
strategica della guerra civile si confrontano, in vario modo, con l'espressione
più alta della soggettività di quei tempi, il cul de sac
della lotta armata.
Il grande corteo che chiude il convegno di Bologna del 22, 23 e 24
di settembre, dimostra la sua voglia di trasformazione radicale, ma dietro
l'angolo c'è lo Stato - sostenuto dalla politica di solidarietà
nazionale dell'intero arco costituzionale - che raccogliendo la sfida,
riversa sul movimento la sua forza militare, criminalizzando le lotte e
innalzando il livello di repressione.
In mezzo tra quel 17 febbraio e il 24 settembre tante lotte, tante
occupazioni, tanti scontri di piazza, ma anche Francesco Lorusso, assassinato
da un carabiniere a Bologna l'11 marzo, l'allievo di PS Passamonti morto
il 21 aprile a Roma in uno scontro a fuoco durante un tentativo di occupazione
dell'università, Giorgiana Masi colpita a morte da un poliziotto
alla schiena il 12 maggio a Roma, il brigadiere Custrà ucciso a
Milano il 14 maggio durante uno scontro di piazza, Walter Rossi assassinato
dai fascisti a Roma alla fine di settembre. A dimostrazione della radicalità
dello scontro e delle potenzialità che furono espresse, ma che non
riuscirono a prevalere.
Massimo Varengo, "Umanità nova", 11 marzo 2007