4 aprile 1968. Dopo quattro anni di accordi, riprese e lavorazione,
esce sugli schermi 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Una performance
multimediale come mai a quei tempi: l'apporto di Arthur C. Clarke alla
sceneggiatura, e quello dei due Strauss con Ligeti alla colonna sonora,
non sono i normali corali ingredienti del prodotto industriale di massa,
ma funzioni primarie di un meccanismo che Kubrick intende anzitutto come
esperienziale. Ho cercato di rappresentare un'esperienza visiva, che aggiri
la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente
nell'inconscio, spiega il regista. Però il pubblico dei colti, così
come quello dei fan di fantascienza, non riesce ad aggirare la comprensione:
cercano il senso della trama, e restano interdetti dai suoi misteri, cercano
uno sviluppo razionale del plot, e restano delusi dalle sue ellissi spazio-temporali,
cercano le regole del genere, e si ritrovano un film muto con le scimmie
preistoriche, e senza marziani.
Molti addetti ai lavori abbandonano la sala dopo i primi venti minuti
di proiezione. E in effetti, su due ore e mezza di film, i dialoghi durano
sì e no venticinque minuti. Il resto è musica, che entra
nei precordi, o silenzio mistico. Immaginario in libertà. La curvatura
spazio-temporale delle trasformazioni epocali è resa con metafore
visive così efficaci che immagine e concetto coincidono, e il contenuto
emotivo - come vuole Kubrick - penetra direttamente nell'inconscio. Più
che simboli, più che allegorie, stupita fatticità.
Si afferma insomma un'estetica altra, che predispone dispositivi esperienziali
più che dispiegare narrazioni. A dirla con la terminologia di Marshall
McLuhan ripresa da Alberto Abruzzese oltre dieci anni fa, il film percepisce
che le logiche della «scrittura» possono essere sovvertite
da quelle post-scritturali dei barbari «analfabeti», di coloro
cioè solitamente esclusi dalla cittadella del potere intellettuale.
Nonostante il disegno tuttora rigoroso e sapiente, i salti logici dell'evento
fortemente strutturato sono metabolizzati da un approccio emotivo incalzante
e di fatto dominante. Si fa avanti insomma l'esigenza etico-estetica di
quelli che oggi anche Alessandro Baricco, con grande successo, chiama i
nuovi «barbari».Quanto allo statement, il film va anche oltre,
perché le metamorfosi dello spirito producono infine l'alba di un
oltre-uomo. Oltre la sapienza dell'intelletto, una prospettiva post-umana.
Calate nella contingenza, le prospettive filosofico-mistiche di 2001,
come del resto quelle del musical Hair presentato a Broadway il 29 aprile
1968, sembrano concretizzarsi nell'immediato nel maggio francese. La rivendicazione
radicale congiunta di studenti e operai configura l'affacciarsi di un nuovo
soggetto sociale, con un punto di vista inedito, anch'esso «barbaro».
E' un soggetto creativo, che darà i suoi frutti migliori soprattutto
in Italia, negli scritti teorici e nell'attività politica che porteranno
l'anno dopo all'autunno caldo e poi all'autocoscienza femminista. Ma i
tempi della storia non sono quelli della politica. Il soggetto sociale
non diventa anche immediatamente nuovo soggetto politico. La lotta è
presto sconfitta, ma il salto è ormai avvenuto. Ce n'est qu'un debut.
2 ottobre 1968. Nella sua casa di Neuilly-sur-Seine, vicino Parigi,
muore Marcel Duchamp. Viene così finalmente portato a conoscenza
di tutti il suo testamento spirituale, l'opera-installazione cui ha lavorato
in segreto per ben vent'anni (1946-1966), con l'idea di farla nascere postuma,
orfana di padre, appunto. Quell'opera è un'esperienza visiva che
aggira la comprensione. E' un dispositivo che rende sensorialmente percepibile
ciò che Duchamp ha sempre detto, e cioè che è lo spettatore
che fa l'opera: l'artista non ha alcuna importanza.
Già nel titolo interroga il curioso che le si avvicina: un titolo
che pone dei «dati» (Essendo dati : la cascata d'acqua e il
gas d'illuminazione...) e prosegue con dei puntini di sospensione, come
se perfino il titolo dovesse essere completato da chi la guarda. Il valore
dell'opera non è quello che le viene dall'essere «scrittura»
autoriale, sta nel processo che il dispositivo innesca quando è
visualizzato: esisterà solo se qualcuno, un qualsiasi barbaro, oserà
guardare oltre i buchi praticati appositamente sulla porta che nasconde
l'istallazione.
Anche il pubblico ristretto dei musei può diventare dunque fruitore
attivo, consapevole protagonista di esperienze estetiche ed etiche capaci
di negoziare il senso con l'ordine delle istituzioni. Il discorso si estende
tuttavia ben al di là del pubblico dei musei. L'idea è che
la performatività tipica dell'artista possa allargarsi a ogni potenziale
situazione, laddove relazioni creative producano effetti di senso. Dal
potere dell'immaginazione all'immaginazione al potere.
Il 5 marzo di quello stesso 1968 c'era stata l'ultima importante esibizione
pubblica di Duchamp, anche questa un lascito spirituale. Si trattava di
un evento multimediale, organizzato da John Cage a Toronto, e che sembra
davvero icona, pur nelle dimensioni élitarie della performance artistica,
di quanto accadrà nel maggio studentesco. La manifestazione aveva
per titolo Reunion, cioè tematizzava il confluire di una pluralità
di persone, e si basava sull'idea di creare una composizione mettendo insieme
diversi sistemi sonori, ciascuno attivato da un diverso «compositore»,
il quale disponeva di una propria fonte e un proprio sistema di suoni.
Nell'evento Duchamp e Cage giocavano a scacchi, altre persone guardavano
o intervenivano nell'azione, ciascuna operando sui dispositivi sonori attraverso
la scacchiera. Questa era collegata a circuiti elettronici, in modo che
ogni mossa potesse trasmettere o cancellare i suoni prodotti dagli altri
musicisti.
L'invito che viene da Duchamp è insomma a una relazionalità
performativa, in cui l'azione del singolo su un territorio comune interagisca
alla creazione di sonorità inedite e imprevedibili. Ce n'est qu'un
debut.
9 dicembre 1968: la rivoluzione parte dalle università della
California. Douglas C. Engelbart, ingegnere elettronico dello Stanford
Research Institute, durante una sessione della Fall Joint Computer Conference
in San Francisco, presenta per un'ora e mezza davanti ad un pubblico di
addetti ai lavori il funzionamento di quello che sarebbe poi diventato
il mouse. Allora, il nome del dispositivo non era quello un po' disneyano
che ci è familiare, ma il più tecnico «indicatore di
posizione x-y per display».
Per essere precisi, Engelbart presentava risultati di un lavoro sui
sistemi online cui lui e il suo gruppo dell'Augmentation Research Center
lavoravano fin dal 1962. Ma quella era la prima dimostrazione pubblica,
e per i mille professionisti d'area che assistevano all'evento si aprì
davvero una nuova era. Engelbart parlò di ipertesto, di come indirizzare
file e contenuti attraverso collegamenti dinamici, di come fosse possibile
a due persone, collocate in postazioni differenti, collaborare su uno schermo
condiviso in un sistema di rete con interfaccia audio e video.
Il mouse è solo l'oggetto fisico che visualizza un processo
immateriale, lo strumento con cui «afferrare» un nuovo punto
di vista. Tanto nuovo che Engelbart, per mostrarlo, non si impelaga in
una dissertazione teorica e accademica, ma realizza una performance: mostra
dal vivo il programma piuttosto che spiegarne il funzionamento in astratto.
Mette in atto quel conoscere facendo cui si è ispirata la migliore
pedagogia esperienziale da Dewey a Montessori, e che solo con i nuovi media
è diventata prassi quotidiana. Il mouse consente l'esperienza che
aggira la comprensione, come era nelle intenzioni di Kubrick. Consente
una conoscenza tattile, dà corpo a una fisicità barbarica,
a una immediatezza percettiva che il sapere fondato sulla scrittura non
è più in grado di rendere creativa.
L'Occidente si è fondato sull'alfabeto, sulle possibilità
astrattive della parola scritta, per estendere la creatività e la
libertà dei soggetti in processi di civilizzazione che ne hanno
costituito la storia. Ma i meccanismi di produzione del valore inscritti
nella scrittura si sono inceppati, perché la scrittura è
diventata sempre più apparato e sempre meno scoperta. Questo è,
forse, il motivo per cui il Sessantotto parte dalle università e
fa corpo unico con la «rude razza pagana» in cui MarioTronti
identifica gli operai in Operai e Capitale.
Le ricerche di Stanford offrono le protesi per una estensione dell'umano
oltre la sua dimensione alfabetica. Engelbart fornisce le armi alla rivolta
della Sorbona. Ce n'est qu'un debut. L'ipertesto, la possibilità
di intrecciare narrazioni finalmente libere dalla consequenzialità
causa-effetto, è un assalto al cielo al sapere autoritario, ben
consanguineo alla critica neo-marxiana del Capitale. La possibilità
di scambio di contenuti peer-to-peer, che oggi trionfa in YouTube, o nella
navigazione dinamica e interattiva del web 2.0, ha mutato il concetto stesso
di informazione, non solo la sua gestione. L'immersione cui l'istallazione
di Duchamp invita per distruggere la dicotomia soggetto-oggetto, o autore-fruitore,
diventa prassi effettiva nella rete. Quella Reunion in cui Cage e Duchamp
realizzavano la confluenza di soggettività diverse in una composizione
interattiva diventa oggi disseminazione di snodi nelle reti.
Certo, postumano non è ancora l'oltre-uomo, ma l'ibridazione
mano-mouse è il passo ulteriore dopo quelle mano-osso e mano-penna
di Kubrick. Forse, il soggetto sociale creativo, rivendicativo di un sapere
dal basso, critico verso gli apparati, nemico della realtà imposta
come unica, può oggi brandire il suo mouse, o il suo telecomando,
per un salto politico neodimensionale. Contro ogni resistenza dell'umano
ad autosuperarsi, continuons le combat. Con questo articolo si conclude
la serie '68 fermo immagine dedicata al quarantennale del Sessantotto.
Luisa Valeriani, "il manifesto", 1 giugno 2008