L’ex brigatista tra esilio e castigo
Solo lo stupido non cambia idea. Lo sostengono in molti, e nel loro
personalissimo vocabolario manca il termine «coerenza». Alcuni
di noi cercano di non tradirla la
coerenza, ed è proprio quella personale e quella politica la
cosa a cui sembra più tenere Paolo Persichetti, un protagonista
del nostro tempo. Uno che non rinnega il
passato, e per questo l’aggettivo che gli viene imposto è irriducibile.
Ma irriducibile su che cosa? Su quell’utopia tragica chiamata rivoluzione?
Sull’idea forse folle,
detta libertà? Le carte giudiziarie ci dicono che militava nelle
Brigate rosse, colonna romana; che in qualche modo ha avuto mano nell’assassinio
del generale Enrico
Galvaligi, 31 dicembre di un quarto di secolo fa; che viveva a Parigi,
in quella colonia di fuoriusciti sospettata dal ministro degli interni
italiano di formare, in parte, la
«centrale francese», lo zoccolo duro del terrore. Queste
carte, e più ancora Esilio e castigo, scritto con collera lucida
e amara dall’ex brigatista, ci raccontano anche
come un ingranaggio giudiziario possa finire per soffocarti.
È un racconto dal ritmo incalzante e di disincantata ironia
ma privo del compiacimento, così irritante, per un passato che pare
impossibile declinare al tempo remoto.
Al protagonista, un quarantenne intellettuale, sembra non si voglia
perdonare di aver avuto vent’anni con il loro corollario di idee, sogni,
utopie e pure incubi. La
militanza nella sinistra più radicale, l’accusa di terrorismo,
l’arresto, il processo, il passaggio in Francia, l’università, l’insegnamento.
L’illusione che tutto sia finito dura poco, la condanna è come una
spada di Damocle anche per questo signor nessuno, cattivo maestro senza
discepoli, «personaggio sconosciuto fino a quel momento,
uno dei tanti delle generazioni insorte e inventato mediaticamente
in quel frangente».
Il ricercato Persichetti Paolo, che tiene lezioni all’università
Parigi 8, che non si nasconde, che conduce un’esistenza visibile e, a detta
di tutti, non ne conduce una
invisibile, dopo anni di indifferenza viene ammanettato e spedito in
Italia. La Francia non era mai stata propensa a concedere estradizioni,
con Persichetti decide
altrimenti. E l’estradizione sembra trasformarlo in un uomo per ogni
stagione e per ogni accusa. Anche quella di aver organizzato l’omicidio
di Marco Biagi, 19
marzo 2002. Riconosciuto dallo zainetto. Seguono giorni, settimane
di terrore vero, intimo. Finquando l’accusa viene riposta in un cassetto.
Ma lui rimane un
«nemico», trattato come un nemico, fra i più pericolosi,
ci ricorda. Perché? Perché, in fondo, solo lo stupido non
cambia idea.
Vincenzo Tessandori