Prosciutto, pistole e un progetto: insanguinare l'Italia
Una trattoria sui monti del Reggiano con Curcio & C. Qui nascono
simbolo e il primo nome delle future Br
La nascita dell’organizzazione fu decisa altrove, sui monti del Reggiano.
Quel luogo mi venne mostrato da Tonino Loris Paroli «Pippo»,
un operaio di Reggio Emilia, uno della colonna Mara Cagol, che ha scontato
sedici anni di carcere, ma non per reati di sangue, divenuto più
tardi apprezzato pittore. Riferii il suo racconto su La Stampa del 24 ottobre
1991: «L’incontro è “da Gianni”, a Costaferrata di Casina,
sulle colline aspre fuori Reggio, quota 650, di fronte ai resti nobili
del castello di Matilde di Canossa. Verde e tranquillità, atmosfera
familiare, cucina invitante, lambrusco schietto e allegro: anche la rivoluzione
ha le sue sane esigenze.
«Perché fra riunioni, dibattiti, discussioni, piani, confronti,
litigi, orazioni, deliri, assemblee, canti, analisi, tesi, scazzi, sintesi,
accuse, controaccuse, seminari, progetti, sogni e utopie nell’estate del
1970, un’era remota, al ristorante “da Gianni” nacquero le Brigate rosse.
Tutto è rimasto come allora. Tonino Loris Paroli, che ha oggi 47
anni, in quei giorni c’era e ha un ricordo nitido. [...] “Quello fu un
vero congresso, durò dal lunedì al sabato”. C’erano i duri
di Reggio, quelli “dell’appartamento” e “c’era Sinistra proletaria” quasi
al completo, i compagni erano venuti da Milano, da Trento, da Genova, due
da Torino.” Come Curcio e Cagol, come Franceschini e Prospero Gallinari,
alla fine del seminario anche lui avrebbe scelto la clandestinità.
Fa parte del “gruppo storico” dell’organizzazione e nel 1975 viene arrestato
a Torino, dove si è trasferito per svolgere il lavoro nel “fronte
di massa”.
«È il primo brigatista rosso libero per “fine pena”. [...]
Lo hanno condannato a trent’anni: “Un po’ per i fatti delle Br, soprattutto
per le ingiurie ai magistrati durante i processi”, spiega. I cancelli del
carcere si sarebbero dovuti aprire dopo il Duemila, ma la magistratura
milanese ha riconosciuto la continuazione dei reati. Gli piace ridere,
ha il carattere estroverso dei contadini emiliani: “Sono rimasto sedici
anni in frigorifero”, scherza, ma subito puntualizza: “Non ci sono state
parti civili contro di me, insomma, non ho né ferito né ammazzato”.
Quando lo arrestano le Br hanno ucciso una sola volta, a Padova: “Era stato
un incidente e, comunque, nessuno negò il fatto. Una caratteristica
dell’organizzazione era rivendicare tutto, anche le cose che potevano risultare
dannose. Insomma, come ha detto qualcuno, la verità è rivoluzionaria.
Sinceramente non so se in situazioni diverse avrei sparato oppure no”.
«Quell’estate era calda. I “compagni”, una settantina, si erano
sistemati in molte case del paese. Avevano chiesto aiuto anche al parroco,
don Emilio Manfredi, allora quarantanovenne. “Ma poi la canonica l’avevano
lasciata da parte”, ricorda il sacerdote. “Di quelle riunioni vennero avvertiti
anche i carabinieri, il maresciallo s’informò se disturbavano, poi
non si occupò più della faccenda. Mah!, e pensare che fra
loro c’erano tutti quelli dei quali si sarebbe parlato per anni. In ogni
modo, ragazzi seri, anche troppo, taciturni, a volte stavano tutti insieme,
altre si dividevano in gruppetti, per boschi e campi.” Talvolta le discussioni
sembravano risse. “Ma quando parlava Curcio piombava il silenzio. Al contrario,
Mara, sua moglie, non era un’oratrice: fece soltanto un mezzo intervento.”
Intorno all’una, tutti “da Gianni”, spossati: dalla fatica di preparare
la rivoluzione, dalle lunghe ore trascorse al sole e dalle passeggiate
sui colli che qualcuno viveva quasi fossero le marce attraverso la Sierra
Madre in compagnia di Fidel, di Camillo Cienfuegos ma, soprattutto, del
Che. Il Diario del Che in Bolivia era un best-seller e il Piccolo manuale
del guerrigliero urbano, del brasiliano Carlos Marighella, era un testo
sacro. “La nostra giungla, dicevamo, sarebbe stata la metropoli e non la
selva del Vietnam.” Più avanti, in una di quelle strette gole senza
eco, Loris, Renato e Mara avrebbero provato le prime armi. I dibattiti
dei futuri brigatisti partivano dalla crisi dell’estrema sinistra, dopo
l’attentato di piazza Fontana. Entravano vocianti nel locale e subito il
tono delle discussioni si affievoliva. Li attendevano Gianni Incerti e
la moglie Anna. “Ma sì, ci avevano detto che erano venuti per motivi
di studio e infatti davano l’impressione di esser studenti. Ma dopo un
paio di giorni abbiamo dubitato un po’, ‘non ce la raccontano mica giusta’,
ci siam detti. Dopo mangiato si ammucchiavano nel salone, chiudevano le
finestre, parlavano da soli, fitto fitto, a voce bassa.” Ma pranzo e cena
erano un momento di gloria collettiva. [...] Ricorda l’Anna che il menu
era “robusto”. Appena dopo il coro di Bella ciao arrivavano gli antipasti
misti: salame nostrano, salsicce, prosciutto crudo, i “ciccioli” micidiali
e un frizzantino da far impallidire anche il ricordo di Lenin. Poi i primi:
tortelli di bietola caserecci, lasagne, cannelloni, cappelletti in brodo.
[...] «Così per giorni. Le Brigate rosse non erano ancora
nate ufficialmente, ma qualcuno già si dava da fare per trovare
simbolo e sigla della futura organizzazione». Si pensò alla
stella. Ricorda Franceschini: «Come simbolo scegliemmo quella dei
Tupamaros uruguayani. Ma non riuscivamo a farla regolare, ci veniva sempre
sbilenca, tanto che un giorno proposi: “Perché non la lasciamo così?”
Decidemmo d’inscriverla in un cerchio e, per il disegno, avevamo bisogno
di qualcosa facilmente a portata di mano: si pensò alla moneta da
100 lire, nacque così il nostro “marchio”». Bisognava trovare
un nome al gruppo. Un giorno di settembre del 1970, mentre a Milano rincasava
in 500 col marito Renato Curcio, ragionando ad alta voce su come chiamare
il gruppo, Margherita Cagol osservò che il primo «atto di
guerriglia in Europa» era stata la liberazione di Andreas Baader,
in Germania, ad opera della Raf, la Frazione Armata Rossa. «Nel nostro
caso Armata mi sembra eccessivo. Ma brigata mi piace: brigata rossa.»
Un saggio in "presa diretta"
Esce da Baldini Castoldi Dalai il saggio di Vincenzo Tessandori Qui
Brigate rosse - Il racconto, le voci (pp. 782, e22). È la «cronaca
ravvicinata» della nascita, dello sviluppo e della sconfitta del
movimento eversivo che, seminando il terrore, aveva dichiarato guerra allo
Stato. Tessandori, che per anni ha seguito le vicende terroristiche per
La Stampa, analizza e racconta con questo libro gli avvenimenti e i protagonisti
di quella sanguinosa deriva, soffermandosi sui carnefici e sulle vittime,
ricostruendo in particolare gli omicidi di Aldo Moro e di Carlo Casalegno.
Quasi in presa diretta riferisce di agguati, progetti, crisi, pentimenti,
senza tuttavia tralasciare i punti rimasti ancora oscuri. Con una preoccupazione
di metodo: «Ho cercato di lasciare fuori da queste pagine l’alluvione
chiamata “dietrologia”, che certo ha un suo fascino e un suo forte sapore,
ma nient’altro che la giustifichi».
Vincenzo Tessandori, http://www.lastampa.it