Sbiadito il ricordo del '68 nipponico, dov'è finita la coscienza critica? Parla Naruhiko Onozawa, produttore del film The prisoner/Terrorist
Nel paese delle manifestazioni ordinate in fila indiana, in cui delle
violente contestazioni degli anni '60 e '70 non sembra rimasta nemmeno
l'ombra, e dove il corteo anti-G8 ha sfilato ieri senza grande enfasi,
ci si chiede se esiste, in Giappone, una coscienza critica in grado di
dar vita a un movimento.
La sensazione è che la società del dissenso si sia arresa
quarant'anni fa senza più riuscire a ritrovare il filo del discorso.
Ne abbiamo discusso con Naruhiko Onozawa, produttore del controverso film
The prisoner/Terrorist di Adachi Masao, regista ed ex dell'Armata Rossa
giapponese, il gruppo armato nato all'inizio degli anni '70 e unitosi al
Fronte popolare per la liberazione della Palestina.
The prisoner, presentato a Rotterdam lo scorso anno e recentemente
a Pesaro, è il primo film girato da Adachi dopo 35 anni, molti dei
quali passati in carcere in Libano. Onozawa è uno dei pochi superstiti
dell'epoca delle contestazioni ad aver proseguito, con altri mezzi, la
lotta contro il potere opprimente dello stato, prima nel teatro underground
poi coi documentari. La maggior parte si è integrata perfettamente
nelle logiche del potere, molti hanno lasciato il paese e alcuni si sono
ritirati in campagna a fare gli agricoltori. Quanto al futuro, Onozawa
è ottimista ma, avverte, «scordatevi Seattle e Genova».
Naruhiko Onozawa, come mai Adachi Masao non è qui con lei?
Perché le autorità, senza fornire una spiegazione, non
gli hanno concesso il passaporto. Adachi aveva fatto regolare richiesta,
ma tre giorni prima della partenza - esattamente come hanno negato a Toni
Negri il visto d'entrata pochi mesi fa - gli hanno dato risposta negativa.
È una cosa del tutto irrazionale in una nazione moderna. Adachi
ha scontato per intero la pena a cui è stato condannato ed è
impensabile negare il passaporto a chi ha già pagato i debiti con
la giustizia.
Il rilascio del passaporto è a discrezione dell'autorità,
non è un diritto...è democrazia?
Ecco, appunto, questa si chiama «democrazia». Il problema
è che lo stato opera costantemente un'oppressione invisibile, subdola,
che agisce senza che i cittadini se ne accorgano. Per questo penso sia
necessario creare una resistenza di tipo culturale contro questa oppressione
sistematica, per esempio facendo film.
Da qui la scelta di produrre il film...
Esattamente. Non c'è più spazio per l'opposizione politica
al «regime», dunque non resta altro da fare che agire sul piano
culturale. Le immagini, secondo me, sono un mezzo valido per farlo e con
questo film vorremmo aprire un percorso di resistenza culturale. Ci piacerebbe
fosse solo il primo di una serie.
In effetti il film parte da una storia di cronaca - quella dell'attentato
del '72 all'aeroporto di Lod - per portare avanti una riflessione di tipo
esistenziale.
L'idea iniziale è venuta dalla storia di Okamoto Kozo (il membro
dell'Armata Rossa con cui Adachi ha diviso la cella per tre anni, ndr.),
ma il tema del film è proprio questo: come liberarsi dall'oppressione
ormai interiorizzata, come smontarla? Adachi, con quest'opera, pone ripetutamente
una questione senza via d'uscita, una domanda a cui nel film, però,
non c'è risposta.
Come ha reagito il pubblico giapponese al film?
Innanzitutto c'era molta curiosità per il fatto che Adachi tornava
a fare cinema dopo tanto tempo. Il titolo faceva pensare a un film sul
terrorismo e molti si aspettavano una biopic su Okamoto. Invece il film
parla di questioni filosofiche, esistenziali. Il pubblico si è diviso
in modo drastico, tra chi ne ha accettato il messaggio e chi no.
Ma chi in quel periodo non era ancora nato, l'ha visto? E soprattutto,
sa di cosa si parla nel film, conosce la storia della Sekigun?
No, le giovani generazioni non hanno memoria di quel periodo semplicemente
perché non gli è stata trasmessa. A dire il vero, persino
nella prima metà degli anni '70 - quando la Sekigun era attiva -
la società non capiva cos'era veramente. La maggioranza sapeva solo
che si trattava di una rotella impazzita e armata dell'ingranaggio. Uscendo
dagli anni di piombo, poi, lo stato ne ha cancellato completamente il ricordo
dalla memoria della gente, in maniera molto abile, al punto che molti si
domandavano se fosse mai esistita. Solo negli ultimi due o tre anni, con
i film di Koji Wakamatsu (Jitsuroku - Rengo sekigun, cronache dell'armata
rossa unita, ndr.) e Adachi, i giovani hanno cominciato a chiedersi cos'è
stato il '68. Sono proprio loro i primi a soffrire della condizione di
oppressione di cui si parla nel film, lo dimostra l'alto numero di suicidi
tra i giovani. Vorremmo che soprattutto loro lo vedessero, perché
non si parla di una situazione circoscritta a trent'anni fa, ma del presente.
Fin dall'inizio avevamo chiara una cosa: non volevamo fare un film nostalgico.
Al contrario, il film di Wakamatsu è un film didascalico, il cui
intento è quello di raccontare, per filo e per segno e con una dose
di autocelebrazione, la storia della fazione della Sekigun rimasta in Giappone.
Il problema è che, essedone stata cancellata la memoria, finita
quell'epoca non c'è mai stata una riflessione, un percorso di rielaborazione
e maturazione, nemmeno nel cinema.
Dopo le ondate di protesta degli anni '60 e '70, sembra che il dissenso
in Giappone sia stato relegato ai margini della società. Une delle
rare immagini di protesta "scomposta", diciamo pure violenta, è
arrivata recentemente da Kamagasaki - il ghetto di Osaka - dove a ribellarsi
sono stati appunto i poveracci, i barboni. La coscienza critica della società
giapponese è ancora così rigidamente controllata dall'alto
o questa situazione è piuttosto il frutto di una resa che risale
a quarant'anni fa e a cui ancora nessuno ha reagito?
In realtà le contestazioni da parte dei reietti della società
che abitano i ghetti come Kamagasaki, disseminati un po' in tutto il paese,
ci sono sempre state. Negli anni '60 e '70 erano anche organizzati in gruppi
ma poi lo stato è intervenuto, li ha abilmente smontati e sono spariti.
Ma adesso è evidente che le cose si stanno muovendo, rivolte come
quella di Kamagasaki non si vedevano da qualche anno. Qualcosa sta rinascendo
in diverse forme autonome, dentro e fuori dai ghetti, ed è il momento
di ricostruire un movimento. Vorrei che guardaste ai giovani che sono al
G8, per esempio.
Sarà difficile, però, che nei prossimi giorni si vedranno
immagini come Seattle o Genova...
No, questo è impossibile. Da mesi ci sono strettissime misure
di sicurezza, non fanno entrare gli attivisti che arrivano dall'estero,
è difficile persino organizzare assemblee. Anche il visto negato
a Toni Negri, invitato a un convegno dell'Università di Tokyo, era
legato alle misure di sicurezza per il G8. Da due mesi un po' dappertutto
nella capitale ci sono poliziotti, quasi una situazione da coprifuoco.
Però vedo che ci sono giovani che hanno nuove idee per creare un
movimento inedito per il Giappone. Il problema è l'eccessiva settorialità
dei gruppi di attivisti. Quelli anti-nucleare, per esempio, si battono
contro le centrali senza però considerare l'aspetto ambientale della
questione. Quando l'anno scorso ci fu il terremoto di Kashiwazaki, per
esempio, e si scoprì che la faglia sismica passava proprio sotto
la centrale nucleare, era chiaro che il problema era principalmente ambientale.
È necessario che gli attivisti formino un unico movimento articolato
ma unitario.
La sensazione è che invece che ribellarsi la società
tenda ad implodere, come dimostra l'impressionante numero di suicidi, 30mila
all'anno, che lei ricordava poco fa.
Sì, è una cifra impressionante. E molti di questi, come
dicevo, sono giovani che spesso scelgono di farlo in gruppo: si conoscono
sul web e si danno appuntamento per morire tutti insieme. Questo è
un aspetto davvero particolare e inquietante, tipicamente giapponese. Perchè
nella nostra cultura l'individuo è sempre esistito in quanto membro
del gruppo e la cellula più piccola della società è
sempre stata la famiglia, non il singolo. Nonostante l'individualismo imperante
anche in Giappone, queste persone cercano il gruppo anche nel momento del
suicidio.
Non pensa che la crisi economico-sociale, con il progressivo scardinamento
delle sicurezze su cui si fondava la società - azienda-famiglia,
impiego a vita, lavoro a tempo pieno - possa risvegliare il dissenso?
In effetti finora non si è mosso molto, ma sono convinto che
c'è speranza. Per esempio sta nascendo, anche se è ancora
a uno stadio embrionale, un movimento dei precari, i cosiddetti freeter,
che vorrebbero costituirsi in sindacato. Da qui in avanti credo che cambierà
qualcosa.
Junko Terao, "il manifesto", 7 luglio 2008