Se la storiografia che dibatte sul Novecento lo ha definito il secolo
breve o lungo, delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, delle guerre,
delle stragi, dello sterminio, studi che si muovono nell’ambito storico,
ma non disdegnano contaminazioni forti con la sociologia e l’antropologia,
lo definiscono il secolo dei giovani. Si tratta di riletture del Novecento
che affondano le loro radici negli studi sui conflitti generazionali quali
cominciano a manifestarsi con una valenza e una preminenza nuove rispetto
ai secoli precedenti. I giovani sono chiamati al protagonismo dagli stessi
eventi che attraversano i primi anni del secolo scorso: il nazionalismo,
il patriottismo l’interventismo, l’irredentismo che in Italia riprende
temi cari al giovanile entusiasmo risorgimentale mazziniano, il futurismo
marinettiano che si appella all’ardore e al furore iconoclasta dei “giovani
e forti futuristi”. Nei bienni “rossi” e “neri” che seguono la guerra la
gioventù è protagonista della nascita del primo fascismo,
delle agitazioni sindacali e operaie che percorrono gli anni 1919-1920,
per aderire in parte e con entusiasmo fervente al mito nascente dell’appena
compiuta rivoluzione russa. I regimi totalitari (fascismo, nazismo, stalinismo)
si richiameranno nella propaganda e nella formazione delle istituzioni
educative e statali al mito della gioventù.
Una cesura netta è rappresentata dalla seconda guerra mondiale:
con essa e i suoi tragici eventi, sprofondano i miti giovanili che avevano
caratterizzato quella precedente e il primo dopoguerra. Ma il conflitto
generazionale non viene meno, anzi si alimenta di aspetti nuovi, presentandosi
negli anni cinquanta e sessanta sotto la forma impolitica dell’apatia verso
le istituzioni e la politica e della rivolta di costume e degli stili di
vita. Il boom economico, la scoperta di porzioni di tempo libero, la scolarizzazione
di massa trasformano i giovani in un esercito di consumatori e di promotori
di nuovi interessi, concezioni, mentalità. In quei decenni il conflitto
attraversa particolarmente le società occidentali, con sfondamenti
nei paesi dell’allora socialismo reale che meriterebbero di essere indagati,
fino a trasformarsi nella ribellione politica degli anni settanta. Seguono
gli anni del riflusso, della ritirata politica, dell’emergere di un mondo
giovanile “disgustato” dalla politica, alla ricerca di nuove aggregazioni
tra pari, di obiettivi minimi da perseguire in un mondo che appare loro,
dopo il crollo dei paesi socialisti, senza futuro, quindi si sentono in
balia di un eterno presente, una condanna ad essere giovani che trova corrispondenza
anche nei dati strutturali relativi alla possibilità di entrare
nel mondo del lavoro e di costituire una nuova famiglia. Questi due obiettivi,
che dovrebbero segnare il passaggio all’età adulta, sono sempre
più lontani nel tempo, al punto che, ormai, i sociologi sono stati
costretti ad allargare l’età giovanile fino al limite dei 35-37
anni.
Diego Giachetti