Un ragazzo del Nebraska in lotta contro tutto e tutti, non proprio politicizzato,
ma sempre ribelle e allegro, mostro esibizionista di umiltà e di
sarcasmo. Arriva a Hollywood, via Stella Adler e quel Metodo Stanislavky
di totale incorporazione nei personaggi, ritoccato negli States. Era una
furia selvaggia, faceva repulsione e paura? Certo, metteva in scena il
cupio dissolvi della civiltà occidentale. Sensualmente vulnerabile,
sessualmente ossessionato (cercava amore in un modi e maniere inconsuete),
aveva il certo non so che del divo. «Garbo uomo», lo definirono
mentre lui si invaghiva soltanto di «bionde dallo strabismo di Venere.
Un immenso talento capace di fare con il corpo, i gesti, gli sghignazzi,
i tic, i borbottii e i suoni inarticolati, un sistema lettrista di segni
espressivi e ipnotici, un fraseggio non verbale palpante e insostenibile
come un monologo shakespeariano o un colpo d'anca Elvis. Era attore bopper
e beat, il primo grande.
Provocatore, «bombarolo» nell'adolescenza, cacciato da
tutte le parti, dalla scuola e dall'esercito, per i suoi comportamenti
teppistici e fuori schema. Un petardo lì, una fumata di troppo qui,
il teatro ne fece un'arma di combattimento raffinata. Il cinema trasformerà
tutto in body art sfrontata. Come in Il selvaggio ('53), dove è
l'archetipo del teppista biker che odia autorità e polizia, il primo
eroe di una sottocultura, bianca e povera, dalle ferree regole di comportamento,
parafascista per ignoranza più che per istinto. Quel giubbotto nero
fece epoca come la canottiera del Tram e il cappotto dell' Ultimo tango.
Ancora qualche giorno fa inguaribili feticisti l'hanno rubato da una teca...
Ma nel '68 lui, figlio di redneck, midwestern come Robert Taylor e
Weldon Kees, come altri ariani esclusi dal benessere, a Chicago, New York
e perfino nel sud razzista, cresce e si politicizza. Alcuni wasp poveri
formano la Stone Revolutionary Grease (giacconi di pelle nera, appunto,
moto, occhiali neri, brillantina: riunificano, come in The Warriors, le
gang di teppisti bianchi, P-Stones, Rangers, Disciples, Latin Eagles, e
li guidano alla lotta anti-sistema) o il Patriot Party (ex Young Patriots),
che incrocia - scandalosamente - le proprie bandiere sudiste con quelle
delle Pantere Nere. Miracolo. La sotto classe operaia bianca non è
più solo massa di manovra per il Ku Klux Klan, ma imita l'organizzazione
dei cugini neri: liberation school, colazioni gratis per i bambini, cliniche
ispirate a Norman Bethune, unità transrazziale nei ghetti...È
troppo. La polizia contrattacca: infiltrati, provocazioni armate, arresti
ingiustificati, diffamazioni a mezzo stampa. Il leader dell'Srg, Arthur
Turco, entra in galera praticamente assieme a Huey Newton, la più
bella pantera del mondo...John Kennedy e Malcolm X, ancora non dimenticati;
Robert Kennedy e Luther King, appena assassinati, il Vietnam aggredito,
Nixon fresco di nomina che festeggia bombardando la Cambogia, clandestinamente,
e lo farà per 5 anni (poi si dice Pol Pot), il Cile democratico
sbriciolato...questo faceva da sfondo al '68.
E Marlon Brando, che nel '60 aveva partecipato ai sit per salvare Chessman
(e chiunque altro) dalla sedia elettrica, e alle marce per i diritti civili
(e umani), nel '68 dice di no a Kazan (che pure lo aveva lanciato a teatro
e in Un tram che si chiama desiderio nel '51) per l'autobiografico Il compromesso
(il cui copione sarà modificato perché il sostituto, Kirk
Douglas, sembrò implausibile come scrittore). Lo fa per profonde
ragioni artistiche (almeno così dichiara il regista che aggiunse:
«e non posso sentire nessuna acrimonia nei suoi confronti»)
ma anche per i suoi crescenti impegni politici nel movement. A cui ha messo
a disposizione la sua villa di Mullholland Drive a Los Angeles, stanziando
fondi per il Core (Congress for Racial Equality) e frequentando assiduamente,
con altri intellettuali e artisti bianchi radical, come Leonard Bernstein
e Jean Seberg, il Partito delle Pantere nere per l'autodifesa. Scrive Sergio
Arecco in Marlon Brando (Le Mani, 20) che l'attore sempre più spesso
interviene alla radio, nelle chiese, in tv e nei ghetti per stigmatizza
le atrocità commesse dal capitalismo bianco, incontra clandestinamente
il vertice delle Pantere nere in un appartamento di Haight-Ashbury, a San
Francisco, chiama il leader del Bpp Eldridge Cleaver sul set di Queimada,
non più solo per «imparare meglio la parte» dell'avventuriero
colonialista William Walker, ed essere perfetto quando chiede a José
Dolores (il rivoluzionario, interpretato nel film di Gillo Pontecorvo da
un autentico leader dei lavoratori della canna da zucchero, Evaristo Marquez):
«Perché sacrificarsi per una lotta che può costarti
la vita?».
Il 4 aprile 1968, quando viene assassinato a Atlanta Martin Luther
King, 38 anni, Brando manda dei suoi rappresentanti ai funerali. Ma due
giorni dopo, il 6 aprile, quando la vittima ne avrà solo 17, non
potrà restare a casa. E capirà perché sacrificare
la vita.
Lo si vede in questa foto, mentre osserva con pudore, e rabbia, ai
lati del corteo «all black», sfilare il corteo funebre che
rende omaggio al co-fondatore teenager del partito della Pantere Nere,
Bobby Hutton, che aveva conosciuto e apprezzato. E che era stato assassinato
dalla polizia di Oakland (il municipio a sudest di San Francisco dove l'organizzazione
rivoluzionaria era stata creata con Newton e Bobby Seale nell'ottobre '66).
Gli spararono a bruciapelo mentre usciva da una casa disarmato e con le
mani in alto, dopo un'aggressione armata durante il quale era stato gravemente
ferito Cleaver (autore del bestseller Anima in ghiaccio).
Marlon Brando in quell'occasione parlò ai militanti african-american,
come neanche Marc'Antonio sul cadavere di Cesare. E lo avrebbe fatto anche
durante una manifestazione per la liberazione del leader delle Black Panthers,
Huey P. Newton, partecipando al corteo di 2000 militanti che arrivò
fin sotto i cancelli della prigione, e chiedendo conto, ai suoi connazionali,
del colpevole silenzio di fronte a 400 anni di oppressione, tratta, schiavismo,
sfruttamento e razzismo.
Intanto però, più le pantere si radicavano nei ghetti
e affascinavano con fraseggio maoista gli operai neri di Detroit e gli
studenti più rossi, più l'Fbi perfezionava un piano di soluzione
finale («Cointelpro», vedi Senza illusioni, Shake ed.) tramite
provocazioni, diffamazioni, infiltrazioni, sicari prezzolati (come gli
Us di Ron Karenga) e eliminazione fisica dei leader pericolosi: Fred Hampton,
Mark Clark, George Jackson (a San Quentin) e tanti, troppi altri. Hendrix,
legato al Bpp, fu ucciso dall'Fbi che inventò la storia della overdose
d'eroina (e, qualche giorno fa, la sua partecipazione a filmini porno...).
I ghetti neri e latini esplosero di rabbia.
Brando dichiarò ai giornalisti di essere moralmente dilaniato,
come lottatore per la pace, dallo scatenarsi della lotta armata di difesa
(anche bianca, vedi i Weathermen), ma sconcertato per come così
tanta violenza da parte del sistema costringesse alla risposta violenta
come unica risposta possibile. Aveva ragione Martin Luther King: «O
impariamo a vivere insieme come fratelli, in questo paese, o moriremo separatamente
come pazzi», ma sappiamo come era stato zittito.
Allora, come sempre, i pennivendoli di regime furono un'altra volta
sguinzagliati e vezzeggiati. Norman Mailer non mancò di fare sarcasmi
contro il divo improvvisatosi d'un tratto impegnato, e scrisse, sbagliando
anche quella volta mira: «mi fa ridere questo rottame di attore che
scopre solo adesso ideali di cui si è sempre infischiato. Quando
negli anni 50 il famigerato McCarthy faceva la caccia alle streghe e metteva
al bando (o in carcere) le migliori teste di Hollywood, dov'era Brando?
Giocava a fare il ribelle ma badava solo a diventare una star. Mi ricorda
certe donne che invecchiando e non potendo più peccare diventano
delle feroci moraliste». In realtà sappiamo della sua costante
militanza antisegregazionista. Inoltre, tra il 1973 e il 1974, Brando tornerà
uno dei 10 attori di maggior successo commerciale, pur trasformatoosi da
«ribelle» in «rivoluzionario» e anzi, come avevamo
visto nel doc del '66 dei fratelli Maysles Meet Marlon Brando, specializzandosi
in mooning, calandosi cioè spesso i pantaloni e mostrando all'improvviso
il sedere nudo nelle situazioni, per gli altri, più imbarazzanti.
Sia congegnando scherzi ancora più atroci...In migliore fu questo.
Il 27 marzo 1973, 18 anni dopo aver accettato il suo primo Oscar, per Fronte
del porto di Elia Kazan, Marlon Brando fu invitato di nuovo alla cerimonia
dall'Academy Award perché candidato con Il padrino. Ma non rispose
all'invito. E quando il suo nome fu annunciato da Liv Ullman, come «winner»,
una ragazza apache, Sacheen Littlefeather (Piccola Piuma) si fece avanti,
rifiutò il trofeo scuotendo il capo, e, agitando le braccia, iniziò
a leggere un testo. Avendo solo un minuto a disposizione spiegò
che la posizione assunta a sostegno degli indiani d'America impediva a
Brando di accettare un riconoscimento legato a filo doppio a un'industria
che per anni aveva sputato addosso ai pellirossa. Salutata da fischi e
applausi Miss Littlefeather lasciò il palcoscenico e la lunga dichiarazione
di Marlon Brando fu pubblicata il giorno dopo dal New York Times mentre
l'altra metà bipartizan dell'establishment (Rachel Welch, Clint
Eastwood, Gregory Peck, Charlton Heston e Michael Caine) non risparmiarono
ironie. Eastwood, prima di nominare Il padrino migliore film del '73 si
chiese se non fosse il caso di commemorare anche tutti i cow boys uccisi
dagli indiani nei film di John Ford....
Roberto Silvestri, "il manifesto", 9 maggio 2008