La democrazia insegna ai giovani ad essere giusti, eguali e fraterni.
Ma quando i giovani, e soprattutto tra di loro le anime più belle
e pure, eseguono ciò che viene loro insegnato, ecco che l'ordine
democratico formale spara, arresta, tortura, infiltra, corrompe. Le anime
belle allora cadono nella grande trappola. Impugnano le armi e vanno verso
il suicidio. È successo in un mondo indignato per il trattamento
dei palestinesi, la sopravvivenza del nazismo razzista tollerata e non
solo in Sudafrica, l'aggressione arrogante (e perfino clandestina, vedi
Nixon) nel sud est asiatico; dopo gli assassinii di chi cingeva d'assedio
il parlamento di Tokyo costretto al servilismo e ai diktat di Washington;
dopo i cadaveri raccolti a frotte nelle banche, nelle stazioni e nelle
piazze d'italia...
Italia e Giappone, per la loro similarità geostrategica, furono
considerate imperdibili dall'America post-rooseveltiana, e messe sotto
tutela solo per essere affidate forzosamente a un partito dominante più
che dirigente, eternamente governante (la Dc e i liberaldemocratici giapponesi)
capace di ogni astuzia e crimine pur di impedire l'accesso al governo dei
partiti comunisti.
È questo il panorama che il 68 cercò di spazzare via.
Immolarsi, dare il proprio corpo in cambio della fine di quell'osceno spettacolo,
fu un estremo gesto artistico-metaforico di combattimento, spesso purtroppo
diventato realtà. A differenza che in Italia, a Tokyo fu permesso
di trattare con chi rapì un ministro. Di riconoscere l'avversario.
E, in cambio della fine di ogni azione armata in patria, furono scambiati
i prigionieri e l'Armata rossa si spaccò in due. Una parte andò
a combattere in Palestina al fianco del Fplp, introducendo l'opzione dell'operazione
kamikaze che ha sinistre appendici al giorno d'oggi. Un'altra finì
nella follia del regolamento di conti ideologico e di potere interno, nella
parodia shakeasperiana dell'incestuoso gioco di massacro di staliniana
memoria. Di queste due estreme scelte trattano due film giapponesi di straordinaria
bellezza che invece di rimuovere, indagano per capire, per conoscere e
per far crescere il baricentro etico di una società.
Due film di insostenibile ferocia grottesca, sorpendentemente «interni
al movimento», sulla fine drammatica e cruenta della lotta armata,
e che hanno avuto vasta diffusione nei festival internazionali, come Esercito
rosso di Koji Wakamatsu e The prisoner/Terrorist di Masao Adachi, riflettori
sulla tragedia e anche sulle miserie di quella parte del movimento rivoluzionario
nipponico istigata all'opzione suicida del terrorismo. Un movimento in
realtà più articolato e complesso, che anticipò lucidamente,
e di circa un decennio, il '68 mondiale, come abbiamo visto nel grandioso
affresco di Nagisa Oshima Notte e nebbie del Giappone, che già indicava
nella generazione dei dirigenti formati dallo stalinismo, deviazionisti
compresi, l'origine della malattia mortale del «comunismo».
E anche di prefigurarne ambiziose e transnazionali «lunghe marce»...
Certo, la massa compatta e armata di lunghi bastoni di zengakuren,
gli studenti organizzati dell'estrema sinistra resta un'immagine indelebile
del carattere nazionale e di massa di quelle lotte sessantottine. Ma capire
cose avvenne prima e cosa dopo è il nostro compito. Dagli anni 50
della doppia, e doppiamente perdente, lotta contro la ratifica del trattato
nippo-americano, contro la costruzione dell'aeroporto di Narita, contro
la concessione della base americana di Okinawa... Fino al G8 dei prossimi
giorni.
Nel 1971 Koji Wakamatsu, un giovane talento cinematografico formatosi
nell'università della strada, seguace di Genet, amico e collaboratore
di Oshima e Adachi, intellettuali di punta della nuova sinistra (cioè:
dare chance alla soggettività desiderante e combattente, sganciarsi
dalla tradizionale sottomissione ai «principii di autorità»
familiare, e anche etnica, politica, religiosa e perfino rivoluzionaria...),
va in Palestina per girare un documentario sulla situazione politica mediorientale,
che spera di vendere facilmente. Il film Fplp/Armata rossa - Dichiarazione
di guerra mondiale lo farà entrare in contatto con quella parte
di movimento rivoluzionario giapponese che ha scelto la lotta internazionalista
al fianco del popolo più oppresso e indifeso, che sta compiendo
azioni disperate, sull'orlo del suicidio (dirottamento di aerei, sequestri...)
per far sentire al mondo di esistere. 35 anni dopo Wakamatsu e il suo amico
Masao Adachi (che è ancora più o meno agli arresti domiciliari
perché restò con i combattenti, e soggiornò per lunghi
anni nelle prigioni israeliane) tornano a riflettere freddamente e caldamente
su quei fatti.
Roberto Silvestri, "il manifesto", 7 luglio 2008