anticipazione da "Liberazione", 13 maggio 2009
Molti anni dopo, di fronte al tribunale di Genova che giudicava la notte
cilena della Diaz, il pubblico ministero Enrico Zucca avrebbe spiegato
quanto fosse difficile processare dei poliziotti. Avrebbe detto che era
come processare mafiosi e stupratori. Nei casi di violenza sessuale, infatti,
viene amplificato il discredito per la vittima «che avrai mai fatto
per farti conciare in quel modo? Mica sarai stata tu a provocare?»e
in quelli contro i boss scattano gli stessi meccanismi di «omertà
e coperture che rendono difficili i riscontri». Così avrebbe
detto, sette anni dopo i fatti, iniziando una lunghissima requisitoria,
pronunciata con l'incubo di un decreto "ammazzasentenze" che Berlusconi,
tornato al governo, sembrava stesse per emanare. Così non fu e la
requisitoria sarebbe terminata con la richiesta di pene a ridosso delle
iniziative di movimento per l'anniversario delle giornate del luglio 2001
e a pochi giorni dalla scandalosa sentenza, definitiva causa prescrizione
imminente, sebbene fosse solo il primo grado, sulle torture avvenute nella
caserma della celere di Bolzaneto tramutata in prigione provvisoria per
le retate di No global. E mafiosi e stupratori, secondo la pubblica accusa,
hanno un'«aura di intangibilità» minore di uno "sbirro"
che se la prenda con un «nemico dello Stato: allora la tentazione
di violare le leggi è molto alta».
Negli States, patria della police brutality, quando la polizia commette
degli scempi si dice che ha passato la "linea blu". E dietro quella linea
si ritira, innalzando una sorta di muro di gomma, per coprire le indagini
su quegli scempi. Quello ai ventinove funzionari di Ps - accusati a vario
titolo di lesioni e abusi contro novantatré manifestanti arrestati
illegittimamente tra il 21 e il 22 luglio 2001 - è stato un processo
alla linea blu. Vista da fuori, quell'operazione parve una mostruosa carica,
prolungamento di quelle che avevano inseguito e sconvolto i cortei dei
giorni precedenti. Spesso, quasi sempre, contro persone inermi. Cariche
illegittime. Come quelle che, il venerdì, avevano aggredito anche
con armi improprie (usanza dei carabinieri del battaglione Lombardia, a
quanto pare), un corteo regolarmente autorizzato di ex Tute bianche che
volevano opporre i loro corpi, imbottiti alla meglio, alla zona rossa degli
"Otto grandi". Da quelle cariche ebbero origine gli scontri in cui fu ucciso
Carlo Giuliani, 23 anni, col solo torto di trovarsi nel posto sbagliato
al momento sbagliato. Un video a disposizione del giudice mostra chiaramente
la scena di lui che si china a raccogliere l'estintore solo dopo aver visto
spuntare dal lunotto del defender la pistola che lo ucciderà. Ma
per il giudice non avrà importanza, la legittima difesa sarà
quella del carabiniere che gridava:«Bastardi comunisti, vi ammazzo
tutti quanti».
Il giorno dopo, e un numero imprecisato di cariche, sputi, insulti,
arresti, tutte cose più o meno illegittime - a giudicare dal numero
di inchieste e dalle migliaia di chilometri di pellicola - 300mila dimostranti
tentavano di lasciare Genova senza farsi accorgere dagli squadroni di robocop
esagitati e travisati. via Battisti, tra il mare, il centro e Albaro, è
una viuzza stretta su cui si affacciano due scuole dei primi del Novecento.
È il complesso scolastico Diaz. Con le spalle al mare, a sinistra
c'è la Diaz-Pascoli, di fronte la Diaz-Pertini. Di qua il media
center, il quartier generale dei legali, l'ambulatorio del soccorso medico.
Di là doveva esserci la casa delle Ong ma un violentissimo, inaspettato
nubifragio, la notte del giovedì - dopo il corteo dei migranti -
trasformò la scuola in dormitorio per gli sfollati dei campeggi.
Quel sabato sera ci trovarono rifugio alcune decine di reduci, stranieri
e italiani, dal corteo inseguito e brutalizzato per ore dalle polizie di
Berlusconi. Al terzo piano c'era un'aula dove aveva trovato sede anche
la redazione di Liberazione per quei giorni. Chi scrive terminò
il suo pezzo poco dopo le 21.00 annotando che «intorno alla Diaz
iniziava uno strano carosello di volanti». Poco prima tutta la piccola
folla di giornalisti e mediattivisti s'era riversata alla finestra sentendo
certe urla e sgommate che provenivano dalla viuzza. Un convoglio di macchine
civetta e macchine della polizia e un blindato della celere. In molti gridavano
«Assassini, assassini!». Forse riconobbero digossini di Napoli
(la mattanza del 17 marzo, centoventisei giorni prima, sembrò a
tutti la prova generale di Genova). Volò, pare una bottiglietta
che neppure andò a segno. In molti si misero a tranquillizzare il
lanciatore.
In questura qualcuno scrisse che quella fu un'aggressione dei Black
bloc, gli stessi che avrebbero causato gli scontri delle ore precedenti.
Fu così che prese le mosse la "notte cilena". Che la versione ufficiale
facesse acqua se ne accorse perfino la blanda indagine conoscitiva concessa
da Berlusconi a un'opinione pubblica scossa e a un'opposizione - il futuro
Pd - più imbarazzata che indignata. Rifondazione, in imperfetta
solitudine, chiederà una reale inchiesta parlamentare per sei anni
fino al naufragio dell'idea nell'infelice legislatura del secondo Prodi.
È smontando quella versione ufficiale che inizierà la
lunga requisitoria di Zucca e del suo collega Francesco Cardona Albini
che punterà a ricostruire minuziosamente il contesto in cui operò
la «concreta attività di comando nell'ambito della quale sono
maturate le condotte dei subordinati». Perché sotto processo
ci saranno solo alcuni dei capi che coordinarono le irruzioni nelle scuole
di via Battisti. Gli esecutori materiali non saranno mai identificati.
Agirono travisati e il Viminale non ha mosso una paglia, anzi, ha remato
contro ogni tentativo di dare un nome e un cognome ai protagonisti di quelle
giornate che Amnesty International, al termine di un'inchiesta indipendente,
definirà «la più grave sospensione dei diritti umani
in Occidente, dopo la seconda guerra mondiale. […].