Gli operai traditi da Tito.
Friuli Venezia Giulia, dopoguerra. Un migliaio di giovani, ex partigiani
e operai, decidono di raggiungere la Jugoslavia
Hanno un sogno, contribuire alla costruzione del socialismo. Ma finiranno
nei gulag di Tito. Giacomo Scotti ne ricostruisce la storia.
Tra l'inizio del 1946 e la fine del 1947 due flussi «migratori»
si incrociano sull'incerto confine che divide Italia e Jugoslavia. Tutti
parlano l'italiano pieno di influssi dialettali dell'alto Adriatico, ma
lo spirito e le ragioni della migrazione sono molto diversi, quasi opposti.
La prima «corrente», più numerosa, parte dalle coste
istriane e dalmate e fugge alla «slavizzazione» di quelle terre,
portandosi addosso l'accusa di complicità nazionale con il fascismo
che in quelle terre ha seminato discriminazioni durante il ventennio di
pace e terrore nei cinque anni di guerra. In senso inverso si muove l'altra
«corrente», per correre incontro ai propri ideali politici,
decidendo di «andare a costruire il socialismo» nella neonata
repubblica popolare di Jugoslavia. Dei primi molto si è parlato
per cinquant'anni, anche se quasi sempre per rivendicare le terre e le
case abbandonate e, propagandisticamente, in chiave anticomunista e razzista.
Dei secondi quasi nessuno si è occupato, tanto scomoda era la scelta
di quegli italiani che decidevano di vivere nella Jugoslavia di Tito. A
loro è dedicato il libro di Giacomo Scotti - Goli Otok, italiani
nel gulag di Tito, (Trieste, edizioni Lint, pp. 406, euro 22), giunto alla
terza edizione - che racconta la storia degli italiani emigrati in Jugoslavia
nel dopoguerra, aggredendo fin dal titolo la sua parte più dura,
quella di una sorte quasi beffarda che fa finire molti di loro ai lavori
forzati su un'isoletta deserta del Quarnero, con l'accusa di essere spie
del Cominform.
Sono chiamati «i monfalconesi», anche se non tutti vengono
dalla cittadina dei cantieri navali vicino a Trieste; forse perché
molti di loro in quella fabbrica lavorano, forse perché a Monfalcone
sotto il fascismo opera la cellula di fabbrica più forte del Pci
clandestino. Il 9 settembre del `43 in mille escono da quel cantiere navale
e, dopo un breve scontro con la polizia, ancora in tuta da lavoro, salgono
in montagna, battezzandosi «Brigata proletaria» per combattere
nazisti e repubblichini, in contatto con la resistenza slovena attiva già
da più di un anno sui monti del Carso e nella valle dell'Isonzo.
La prima battaglia, nei pressi di Gorizia, per loro è un disastro:
impreparati e male armati, quasi metà muoiono, una parte sbanda,
un'altra viene integrata nelle fila del IX Korpus dell'armata di liberazione
di Tito e due anni dopo (il 3 maggio del `45), con quelle divise, entrano
da liberatori a Monfalcone, accolti da quella parte della città
che chiede l'annessione alla nuova Jugoslavia.
Tramontata quest'ipotesi, incerta la sorte di Trieste, un migliaio
di ex partigiani, giovani e operai dei cantieri, spinti dalla disoccupazione
e dalla fede politica decidono di lasciare le loro case e di andare a costruire
il socialismo in Jugoslavia: Pola e Fiume le principali mete. Lì
riprendono a lavorare in fabbrica, «per mettere il proprio mestiere
al servizio della causa comune». Ma da subito si scontrano con una
realtà diversa da quella che avevano immaginato; poi con la rottura
tra Tito e Stalin del giugno `48 tutto precipita.
Sono italiani e si trovano a fare i conti con la diffidenza delle popolazioni
slave, per cui l'Italia continua a essere sinonimo di fascismo e discriminazione
razziale; sono internazionalisti e si trovano di fronte un partito - quello
jugoslavo - impegnato nella difficile unificazione di popoli per secoli
divisi puntando sul cemento di una nuova identità nazionale, quella
degli «slavi del sud»; sono operai specializzati, molto politicizzati,
fieri del proprio mestiere e convinti di poter edificare una società
nuova come si costruisce una nave e si misurano con un apparato statale
e di partito socialmente segnato dalla realtà contadina delle popolazioni
serbe, croate, bosniache. Così quando il Cominform «scomunica»
la Jugoslavia di Tito, optano per Stalin - spinti anche dal partito italiano
- e non lo nascondono. I funzionari - già diventati burocrati -
che da Zagabria vengono a Fiume e Pola per dissuaderli dall'opporsi non
li convincono: fino a quando è possibile manifestano pubblicamente
il loro «internazionalismo», il «primato della classe
operaia». Poi vengono licenziati dalle loro fabbriche e dispersi:
alcuni decidono di tornare in Italia - dove il Pci li mette ai margini
o li ignora - altri vengono deportati in Bosnia per il «lavoro volontario»
in cave e miniere. Alcuni, i più in vista, dopo processi sommari
con l'accusa di tradimento e spionaggio al servizio del Cominform, finiscono
a Goli Otok, il campo di concentramento aperto nel luglio `49. Lì
incontrano i protagonisti di una seconda fase dell'opposizione comunista
italiana a Tito, i cominformisti veri e propri, un piccolo manipolo di
militanti che a Fiume fondano persino un'organizzazione clandestina, chiamata
«Comitato circondariale di Rijeka del Partito comunista internazionalista
jugoslavo»; un'entità virtuale, che non riesce mai ad andare
al di là di piccole azioni di propaganda (volantini e giornali che
arrivano da Trieste in valige a doppio fondo, su indicazione di Vidali)
e viene presto smantellata dalla polizia segreta jugoslava. Insieme con
altre migliaia di ex militanti del Pc jugoslavo - tra essi anche alcuni
importanti dirigenti e generali dell'armata di liberazione - schieratisi
col Cominform e contro Tito.
Il gulag di Goli Otok rimane un carcere politico fino al `56, poi con
la normalizzazione dei rapporti tra Jugoslavia e Urss dopo la morte di
Stalin, si riconverte in carcere per detenuti comuni e i «politici»
sopravvissuti vengono progressivamente liberati. Giacomo Scotti, attraverso
le testimonianze, le memorie e i documenti ufficiali stima che circa 30.000
prigionieri politici furono detenuti sull'«Isola calva» e che
quasi 4.000 vi morirono, per stenti o torture. Il suo libro non segue un
rigoroso filo cronologico, in esso le testimonianze e i documenti ufficiali
si rincorrono per comporre un quadro drammatico non tanto nelle dimensioni
del fenomeno quanto nella sua portata politica e morale.
Scotti, che conosce bene la storia degli italiani emigrati in Jugoslavia
per scelta politica essendo uno di loro, in questo libro coraggioso non
cede alla tentazione della propaganda; esattamente come i protagonisti
della persecuzione politica non si pente della scelta fatta, ma con altrettanto
rigore documenta e denuncia una delle tragedie della sua (e nostra) storia.
Proprio per rispetto a quella storia, alla vicenda di migliaia di militanti
stritolati dalle leggi della geopolitca. Perché Tito ha mille ragioni
per opporsi a Stalin e cementare su quella rottura una nuova identità
nazionale e un nuovo assetto statale (quando entrambe crollarono si capì
bene l'importanza e, al tempo stesso, la fragilità di quel «miracolo»
politico che è stata la Jugoslavia del dopoguerra), ma nel farlo
sacrifica la vita di migliaia dei «suoi», affermando quella
discriminazione che intende negare: il nazionalismo jugoslavo serve a combattere
i nazionalismi croato e serbo, ma riproduce, verso «gli altri»,
le stesse dinamiche etnocentriche; la battaglia contro lo stalinismo e
il culto della personalità di Stalin dà vita a un nuovo autoritarismo
e a un nuovo culto della personalità. E anche a causa di ciò
l'autogestione fallirà. Il dito mignolo - che Stalin pensava bastasse
a mettere in riga il ribelle Tito - ci appare ora come una metafora di
una persecuzione politica che ricorda - in sedicesimo - quella delle purghe
e dei gulag staliniani: la Jugoslavia del primo dopoguerra perde la scommessa
della democrazia socialista abbattendosi su quegli «stranieri»
arrivati lì in nome della rivoluzione e della solidarietà
internazionalista. Tre decenni dopo la chiusura di Goli Otok, il «miracolo
di Tito» si sfalderà anche per aver perso quella scommessa.
Gabriele Polo, "il Manifesto", 6 ottobre 2002