«Ah! siete voi. Lo immaginavo.» La stella era gialla, fissata
su un drappo rosso, quasi fosse una quinta attaccata alla parete di fondo
di quella stanza «lunga e molto stretta» dove lo avevano portato.
Lui girò lo sguardo per qualche istante, poi si voltò e li
fissò. Aveva ancora quell’espressione che molti credevano mansueta.
Erano in due, rozzi cappucci antracite di cotone cuciti a mano, come ricavati
da un sacchetto, nascondevano le facce. Lui ne scorgeva soltanto gli occhi.
«Presidente, ha capito chi siamo?» «Ho capito chi siete.»
Erano le Brigate rosse, quella volta certe di aver colpito «al cuore
lo Stato». E ammesso che lo Stato ce l’abbia, un cuore, lui ne sembrava
la sintesi. E ora si trovava nelle mani di terroristi che non avevano esitato
a fare una strage pur di prenderlo. Lì, in piedi, con quegli incappucciati,
indecisi su cosa fare. Si guardò intorno: la cella, 2 metri per
90 centimetri, conteneva il letto, una specie di branda dall’aria neppure
troppo scomoda, il water chimico, un comodino e, dalla parete, spuntavano
una conduttura per l’aria e un microfono. «Quello è vero?»
domandò. «Sì. Registriamo quello che dici e serve a
te per chiamare, se ti serve qualcosa.» Gli avevano subito dato del
tu, ma questo non era sembrato infastidirlo. Poi, con il passare dei giorni,
anche lui avrebbe sovente dato del tu al suo inquisitore.
Nel 1977, Vincenzo Tessandori, allora cronista della «Stampa»,
scrisse "Br. Imputazione: banda armata", il primo libro sul nucleo originario
delle Brigate rosse. Pareva una storia chiusa, era soltanto il prologo.
Sopravvissuta agli arresti del gruppo storico, l’organizzazione clandestina
si è sviluppata per lustri. I brigatisti rossi erano ormai nelle
fabbriche, nelle università, nei quartieri disastrati di Roma, nei
bassi napoletani, nell’inferno chimico di Porto Marghera. Avevano pianificato
la guerra globale al sistema attraverso l’attacco al partito egemone, la
Democrazia cristiana, e poi al suo nuovo grande alleato, il Pci, accusato
di ammorbidire le richieste e la forza dirompente del proletariato. E furono
i protagonisti del fatto più clamoroso accaduto negli anni della
prima Repubblica: il sequestro Moro.
La logica dello scontro con lo Stato della «borghesia imperialista»
implicava, fatalmente, di colpirne gli uomini-chiave: magistrati, politici
e studiosi prestati alla politica, poliziotti e carabinieri, funzionari
ministeriali, giornalisti. In trent’anni, su 132 morti provocati dal terrorismo
rosso, 78 sono state le vittime delle sole Br, e su 59 militanti delle
formazioni di sinistra uccisi, 26 erano brigatisti. Un’eredità pesante,
sulle cui cause non si contano le analisi politiche e sociologiche, spesso
non condivise e fonti di roventi polemiche, segno che la ferita, quando
non ignorata, è ancora aperta.
Conscio di ciò, Tessandori sceglie ora un approccio nuovo: fare
la cronaca ravvicinata della «generazione brigatista». Chi
erano, come vivevano, agivano e pensavano i giovani invecchiati all’ombra
di una rivoluzione impossibile? Attingendo alle sue personali esperienze,
ai dialoghi con i protagonisti, allo studio dei documenti giudiziari e
dell’organizzazione, ha cercato non di spiegare ma di calarci nella loro
quotidianità, nella loro lucida follia, nella preparazione degli
agguati, nei retroscena dei pentimenti, evitando le dietrologie e il gusto
dei misteri, riducendo al minimo il suo giudizio ma lasciando parlare i
fatti, anche dal versante delle vittime.
Con lo stile e il ritmo del thriller, questa cronaca puntigliosa, ricca
di notizie inedite, diventa lente d’ingrandimento del fenomeno più
cruento dell’Italia repubblicana. Ma soprattutto diventa strumento per
tutti, perché solo facendo «rivivere» le esperienze
altrui si può capire e quindi giudicare.